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    Predefinito Sono stato un fan di George W. Bush

    Sono stato un fan di George W. Bush


    Ho iniziato ad interessarmi della politica americana poco dopo la metà degli anni novanta. Era appena iniziato il 1997 quando comperai in libreria un saggio di Giuseppe Mammarella intitolato “America a destra”. Il sottoscritto era alla ricerca di un pensiero conservatore per i nostri tempi e quel libro inculcò in me una speranza: che un’America orientata a destra sarebbe stata un faro di libertà per tutto l’Occidente e che le battaglie culturali d’oltreoceano avrebbero potuto riverberarsi positivamente anche nella vecchia e disincantata Europa.
    Di lì a poco acquistai in edicola in nuovo Borghese, che nel primo numero conteneva un articolo di Alberto Pasolini Zanelli su Barry Goldwater, padre nobile del Conservative Movement. Quell’articolo mi convinse ancor più della giustezza delle mie posizioni e da allora divenni un assiduo lettore del settimanale e in particolar modo dei reportages americani.
    Il 1998 fu l’anno delle elezioni di mid-term, contrassegnate dal clamore seguito al tentativo di impeachment nei confronti di Bill Clinton. I Repubblicani furono sconfitti, ma nonostante ciò in quel contesto negativo iniziò a brillare la stella di un giovane leader texano, che stravinceva nel suo Stato d’origine confermandosi nella carica di Governatore. Era il rampollo di una famosa dinastia di politici americani, il figlio primogenito del Presidente che aveva retto le sorti del mondo dopo la caduta del comunismo sovietico e mosso guerra al bellicoso Saddam Hussein in seguito all’invasione irachena del Kuwait. Si chiamava George W. Bush.
    Grazie a quella riconferma Bush divenne subito il candidato scontato dei Repubblicani per le presidenziali del 2000. Attraverso Il Borghese mi “innamorai” poco a poco di quest’uomo che sembrava incarnare una concreta speranza per tutti i conservatori, un politico in grado di riportare ordine e moralità in una nazione che i Clinton avevano messo in ridicolo con gli scandali sessuali e l’appoggio incondizionato al politically correct.
    Secondo Pasolini Zanelli ed Enzo Bettiza Bush Jr. era un moderno politico di centrodestra, lontano dall’estremismo economico di un Newt Gingrich – altra stella del GOP caduta presto in disgrazia. APZ lo poneva a metà strada tra Reagan e suo padre, Bush Sr. Un conservatore illuminato, o “compassionevole”, come reciterà la sua campagna elettorale da candidato in pectore del GOP.
    Le foto di repertorio pubblicate sui settimanali dell’epoca presentavano all’attenzione un giovane uomo, aitante e anche di bell’aspetto, con moglie e due figlie gemelle al seguito. Era il quadro di un’America tradizionale e rassicurante. Il giovane Bush aveva poi un’arma in più rispetto ai suoi avversari: aveva il sorriso, era un politico che tornava a sorridere agli americani, incarnando quella speranza di cambiamento che era propria di Reagan.
    Per quanto possa apparire falso oggi, nel 1998 Bush Jr. prometteva al mondo proprio un’America “gentile”, interessata più alle vicende domestiche che alla conquista del mondo. Per molti competitors Repubblicani il suo era un discorso troppo morbido e centrista, che disattendeva le speranze rivoluzionarie accese dall’alfiere del conservatorismo autentico che continuava ad essere Gingrich.
    Sulla stampa americana Bush iniziò a ricevere attacchi non solo da destra (Forbes, Buchanan), ma anche dal centro. Il più pericoloso fra i contendenti alla nomination Repubblicana fu un senatore semisconosciuto avanti negli anni, John McCain, che si rese protagonista di una campagna durissima dai toni fortemente jacksoniani. McCain era stato un eroe di guerra, mentre George W. Bush secondo i più maliziosi era riuscito a scamparla dal fronte. Alla fine la base Repubblicana incoronò il più giovane, ma la sua immagine risentì degli attacchi di McCain e i suoi avversari se ne avvantaggiarono.
    Nel 1999 la campagna elettorale tra Democratici e Repubblicani si segnalò subito come una sfida all’arma bianca fra due opposte visioni del mondo. Bush Jr. inizialmente dato vincente contro Gore, iniziò a perdere colpi e la stampa liberal iniziò a pungerlo da par suo mettendo in risalto la sua inesperienza a livello internazionale, la sua poca cultura e soprattutto la sua innata tendenza alle gaffes. Panorama iniziò a dipingerlo come un bambino viziato, i giornali di sinistra mettevano in lui la dipendenza dal mondo degli affari e dal petrolio. Maria Giovanna Maglie su “Il Mattino” lo definì un candidato “orrendo”, mentre Vittorio Zucconi non faceva che ironizzare sulla sua nomination annunciata per “diritto divino” e comprata a suon di dollari.
    Quando si arrivò al 2 novembre, giorno del redde rationem, Bush sembrava ancora in vantaggio sul voto popolare, ma rischiava di perdere nella conquista degli Stati. Che sono quelli, in America, che garantiscono la Presidenza.
    Come molti analisti e commentatori passai anch’io quella notte, lunghissima e rocambolesca davanti alla tv, con Mentana che contava quei numeri che andavano su e giù impazziti. Il grosso degli italiani parteggiava per Gore, mentre tra i liberali a dichiararsi pro-Bush si distinsero Antonio Martino e pochissimi altri.
    Si fece mattina con la Florida ancora in bilico. Bush venne dato vincitore dalla Fox per pochissimi voti, ma i democratici non riconobbero la sconfitta e iniziarono le procedure legali. A quel punto era chiaro che una vittoria legale repubblicana sarebbe stata considerata da avversari e stampa nemica una sconfitta morale. E così fu. Dopo giorni interminabili di conteggi e riconteggi che ridicolizzarono l’America davanti al mondo, alla fine la Corte Suprema assegnò la vittoria a Bush, che divenne per tutti un “Presidente per caso”. Da quel momento e per tutti gli otto anni di George W. Bush al potere sono stato spettatore di tutti i momenti che hanno segnato questa Presidenza e insieme il mondo intero.

    Se c’è qualcuno che ancora crede nel valore dei programmi elettorali, la metamorfosi di Bush e della sua Amministrazione è la dimostrazione lampante dell’esatto contrario. Tutto lasciava infatti prevedere ad un’America che avrebbe mantenuto il “piede in casa”. Bush era attorniato da politici di stampo “realista” come Colin Powell e Condoleezza Rice. Rumsfeld e Cheney provenivano dall’entourage moderato di Gerald Ford. Pochi i conservatori autentici (Ashcroft alla giustizia) e nessuno tra i neoconservatori. Poi, però, è accaduto l’11 settembre, l’attacco talebano alle Torri Gemelle, ed è cambiato tutto. L’America che si prefiggeva d’essere “gentile” ha dovuto mostrare i suoi muscoli e il piccolo Bush dimostrare al mondo di non essere un “Presidente per caso”.
    I giorni terribili che presagirono alla guerra in Afghanistan hanno mostrato un Bush incredibilmente invecchiato, più volte in lacrime, lontano anni luce dallo scavezzacollo impenitente che era rimasto fino a qualche anno prima.
    Questa volta invece dei numeri elettorali si sono iniziati a contare i morti sepolti a Ground Zero, e mentre perdurava la conta la gente piangeva e intanto nessuno sapeva quale piega avrebbe preso il nostro futuro. Poi Bush andò fra i pompieri di New York, a dare il suo sostegno in maniche di camicia e megafono in mano, come un qualsiasi attivista avrebbe potuto fare. Fu uno dei momenti più autentici e sinceri della sua intera Presidenza e venne immortalato anche dal Time. L’America aveva riconosciuto il suo Presidente.
    In Italia il quotidiano Il Foglio lanciò una manifestazione di sostegno agli USA colpiti. Ma gran parte del popolo europeo e l’intero mondo arabo guardavano con timore e sconcerto all’evoluzione militarista della crisi. In patria l’Amministrazione Bush era attaccata alla sua destra per non essere abbastanza conservatrice e guerriera. Preso tra falchi e colombe, Bush tergiversò a lungo, poi sentì il dovere di placare l’orgoglio americano ferito e la Storia cambiò.
    Mentre Bin Laden scappava sui monti o chissà dove e l’Afghanistan veniva liberato da una coalizione internazionale a guida americana, negli USA si faceva sempre più pressante la questione del ruolo degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali. L’ONU, la NATO erano ancora adatte a garantire la pace mondiale, o non erano piuttosto una palla al piede alle legittime aspirazioni americane di esercitare il proprio ruolo di “iperpotenza”?
    Sul terreno di questo dibattito, che spaccherà la destra americana e darà impeto alla maggior ondata di antiamericanismo su scala planetaria dai tempi del Vietnam, si consoliderà l’immagine di un Bush “servo” della cabala neocon, un gruppo di intellettuali ebrei estremisti intenzionati ad imporre il tallone militarista americano sul resto del mondo.
    Il Presidente americano divenne di punto in bianco per la stampa di ogni dove un personaggio sciocco e cattivo, inadatto ad esercitare il ruolo di Presidente, simbolo delle peggiori nefandezze che i liberals solitamente additano ai politici Repubblicani. Libri di barzellette diffamatorie, la propaganda falsamente documentaristica di Michael Moore, l’ostilità di Al Jazeera e dei media occidentali contro una nuova guerra contro l’Iraq di Saddam Huddein, che si delineava minacciosa all’orizzonte...
    Dopo aver tentato invano la strada multilateralista, Bush decise alla fine per un’azione di forza contro il regime baathista ritenendolo connesso ai talebani e al terrorismo internazionale. Colin Powell al Consiglio di Sicurezza dell’ONU presentò documenti che avrebbero dovuto provare la presenza in Iraq di armi di distruzione di massa. L’ex soldato che si prestò suo malgrado a difendere una scelta che intimamente non condivideva venne impietosamente ridicolizzato da un francese altezzoso autore di poesie, tale de Villepin, in uno scontro verbale che alimenterà nelle rispettive nazioni un’ostilità tale che porterà al boicottaggio dei rispettivi prodotti d’esportazione.
    Come se non bastasse si alzò netta e forte la voce contro la guerra di un sofferente Papa Giovanni Paolo II. Il pacifismo internazionale diventò così la bandiera sotto la quale si raccolsero a frotte i cattolici sociali, i comunisti, i terzomondisti e financo i neofascisti. Dai balconi italiani presero a sventolare le bandiere arcobaleno, mentre si fabbricavano a tutto spiano adesivi, magliette, ombrelli per una propaganda pacifista che ora riscuoteva consensi anche tra i moderati e gli indifferenti. Famiglia Cristiana lanciò un sondaggio dagli esiti scontati che vedeva opposti Bush e il Papa. Ormai nell’immaginario popolare l’Amministrazione Bush era composta da fanatici guerrafondai che miravano ad impossessarsi del petrolio iracheno.
    Nonostante l’opposizione dell’ONU e la manifesta ostilità dei francesi, l’America muoverà guerra a Saddam alla guida di una improvviata coalition of the willing. Bush l’anti-imperatore si era dunque mutato in un moderno Cesare.
    Bombe, morti, bandiere patriottiche. Bagdad viene espugnata senza troppe perdite e Bush si presenta in giubbotto top gun a bordo di una portaerei per dire: “Missione compiuta”. Ma purtroppo per lui e per l’America non sarà proprio così. Le prove di armi letali in terra irachena non saranno mai trovate, così come non si riuscirà mai a provare la connessione diretta tra Hussein e Bin Laden. La guerra oltretutto aveva alimentato il pacifismo e l’antiamericanismo. Invece di unire, aveva diviso.
    Nel 2004 le elezioni presidenziali si presentarono come un referendum pro o contro il Presidente in carica. I pronostici andavano allo sfidante Kerry, che in Europa godeva di una popolarità schiacciante nei confronti del Repubblicano. Il quale dal canto suo si era fatto portavoce nella circostanza delle istanze più tipiche della destra religiosa americana: famiglia, valori cristiani, no all’aborto e ai matrimoni gay, restrizioni alla ricerca sulle cellule staminali.
    Nonostante sentissi il peso di una politica americana sempre più impopolare, i Repubblicani erano sempre nel mio cuore ed ero rimasto un bushiano di ferro. Tuttavia, pessimista sul risultato finale, non me la sentii quel giorno di assistere in tv a quello che si prefigurava un trionfo dei Democratici. Mi svegliai a prima mattina giusto in tempo per apprendere in diretta che l’Ohio – nuova regione chiave – era andato a Bush, che aveva superato il suo sfidante con un netto vantaggio nel voto popolare.
    Questa volta il successo Repubblicano era senza appello. L’America aveva virato a destra e i liberals erano stati sconfitti. Ann Coulter aveva prevalso su Michael Moore. Adesso Bush poteva occuparsi delle cause conservatrici, in primis scegliendo i nuovi giudici per la Corte Suprema, da sempre terreno di scontro con la sinistra pro-choice.
    Tuttavia l’idillio dell’America conservatrice cantato da Micklethwaith e Wooldridge agli europei infastiditi dal successo Repubblicano, ebbe vita breve. A distanza di pochi mesi infatti, l’uragano Katrina devastò New Orleans e l’Amministrazione Bush si fece trovare impreparata alimentando i sospetti di un cinico disinteresse nei confronti delle popolazioni di colore colpite. Da allora i repubblicani di Bush non hanno ottenuto altro che sconfitte. Scandali personali, politici dimissionari, polemiche a non finire. Il 2006, annus horribilis per la Presidenza, ha segnato il ritorno dei Democratici a dominare il Congresso e sembrato spegnere ogni speranza per una conferma Repubblicana alla Casa Bianca nel 2008.

    Oggi è impossibile sapere se l’anziano McCain, riuscirà nonostante l’Iraq a vincere la star Democratica che gli si opporrà il prossimo novembre. Per quanto riguarda gli otto anni di Bush Jr., contrassegnati da luci ed ombre, quest’epoca che si chiude è stata ad ogni modo un calvario per chi in Europa, come il sottoscritto, è di fede Repubblicana. Chi è stato un supporter di Bush ha dovuto infatti combattere una lotta impari, senza alcun sostegno morale, deriso e sbeffeggiato come il suo amato Presidente. Chi sognava il ritorno di un’epoca felice come furono gli anni cinquanta sotto la presidenza Eisenhower, durante i quali l’America sembrò parlare al mondo con una voce sola, la società era coesa e i valori e le buone maniere rispettati... ebbene chi si aspettava almeno una tensione in questa direzione ha dovuto ricredersi. I conservatori hanno vinto le elezioni, ma l’America è rimasta un paese fondamentalmente liberal, in cui le cause conservatrici continuano ad essere malviste quando non vengono apertamente osteggiate. Le guerre hanno alimentato scontri duri, un continuo muro contro muro di cui a conti fatti si è avvantaggiata la sinistra.
    I propositi americani di ritrovare disperatamente la propria innocenza perduta sono stati rimandati. Baby Boomers come Clinton e Bush Jr. non ci sono riusciti. Sarà forse l’ultimo esponente della Silent Generation, ossia il vecchio McCain, a riuscire nell’impresa?

    by Florian

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    L'intenzione originaria voleva questo scritto essere un excursus molto personale di questi otto anni vissuti con Bush alla Presidenza degli USA. Poi è venuto fuori una via di mezzo tra il diario e la cronaca. Tante cose sono rimaste fuori, alcuni aneddoti interessanti.
    Per esempio mi ricordo di un negozio di giocattoli della mia città che vendeva dei figurini importati chissà dove di Bush, Rumsfeld e Colin Powell e li aveva in vetrina. Nei mesi antecedenti la guerra irachena i pupazzetti erano ancora in bella mostra, ma ai loro piedi avevano messo un bigliettino recante la bandiera pacifista con su scritto una frase tipo "Questo negozio è contro la guerra in Iraq".
    Un altra cosa che mi ricordo e che non sono riuscito ad inserire nel pezzo è la storia di un libro su Bush annunciato su vari siti internet (tra cui Feltrinelli) e mai uscito. Si trattava della biografia scritta da Bill Minutaglio, una delle prime e delle più obiettive che si doveva chiamare: "George W. Bush. La storia di un uomo e di una dinastia alla guida del mondo". L'editore era Pagano, il prezzo previsto in 16 euro. Più volte rimandato, non è mai uscito, diversamente da tanta paccottiglia denigratoria. Chissà come mai...

    Non credo di essere stato particolarmente agiografico. Anzi, penso di non aver fatto sconti al politico. Ma l'affetto verso l'uomo è rimasto. Ha avuto tutti contro, nulla gli è stato mai risparmiato, l'ha salvato la sua pellaccia texana, la scorza dura di chi tira dritto comunque. E' un uomo di fede, sono sicuro che ha agito sempre secondo coscienza e che non si è mai lasciato manovrare da nessuno, come in Europa tutti credono.
    E' un commiato malinconico il mio, perchè questi otto anni forse avrebbero potuto rendere l'America più conservatrice ed invece presentano un Paese ancora in guerra, diviso in fazioni che si odiano a vicenda, una upper class sempre più ostinatamente liberal, i media sempre più Democratici e via di questo passo. Sono stati otto anni intensi e spesso drammatici. Nella mia mente rimarrà per sempre un'immagine. Questa:


 

 

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