L'amara denuncia di Carlo Vulpio, dall'inchiesta «Why Not» all'informazione distratta


Corruzione, mafie, veleni in procura: casi di ordinario marasma


Mani in alto, questa non è una rapina. O forse sì: immaginate un posto dove i carabinieri indagano sui giudici e i giudici, per farsi dare le carte e sapere che cos'abbiano scoperto i carabinieri, una bella mattina mandano i poliziotti in caserma. Coi mitra puntati, le braccia levate e il colpo in canna (Policoro, giugno 2007). Oppure un paesino dove una brutta mattina la terra trema e tutte le case restano in piedi, tutte meno una scuola che ammazza 27 bambini e una maestra, ma guai a dire che questa scuola è crollata perché l'avevano costruita peggio d'un canile: meglio seppellire la verità sotto macerie di retorica («quei piccoli angeli!...») dare tutta la colpa al terremoto, assolvere progettisti e amministratori, infine incassare soldi pubblici per la ricostruzione che, altrimenti, non arriverebbero (San Giuliano, ottobre 2002).

Dove eravate. Fu la prima domanda senza interrogativo che Roberto Saviano ci fece dalla copertina d'un settimanale, quando la sua scandalosa Gomorra stupì tutti. Che Paese è: sarà la domanda con risposta incorporata che ossessiona chi legge Roba Nostra (Il Saggiatore), 254 indignate pagine di Carlo Vulpio, scandalo al sole di Calabria, Basilicata e dintorni criminali. Dov'eravamo quando succedeva tutto questo e che Sud lasceremo, quando il malaffare sarà ovunque: «Nessuno — scrive Marco Travaglio nell'introduzione —, grazie anche a questo libro, potrà più dire di non aver saputo».

Forse Beppe Grillo la fa troppo semplice con la casta stampata ed è un po' provinciale quel suo scappellarsi di fronte a Cnn e Al Jazeera simboli di libertà: non c'è bisogno d'un Pete Dexter per sapere quant'è pericoloso raccontare certi affari di famiglia, a qualunque latitudine, o per capire che la 'ndrangheta somiglia davvero ad Al Qaeda. C'è casta e casta, però. E nonostante tutto sopravvive anche qui un'informazione di nobilissimi paria, cronisti di provincia pagati cinque euro a pezzo, che scarpina nella «Lucky Lucania» e magari non ha spazio su troppi «giornali distratti e distraenti» (virgolettati di Vulpio) e che è pur sempre roba nostra. Giornalisti che ci mettono la firma e ci rimettono la pelle. Ma comunque. Mezzogiorno corrotto = nazione infetta.

Nella provincia di Reggio Calabria, cuore nero del malaffare, in vent'anni sono stati condannati tre tangentari: tre. Nel silenzioso Molise una cattolicissima coppia, lui deputato e lei ginecologa obiettrice di coscienza che faceva gli aborti illegali, per anni ha regnato seminando paura e raccogliendo un nomignolo: Ceausescu. E poi ci sono i soldi truffati all'Unione Europea, i massoni giudici che informano i massoni inquisiti, i potenti di tutti i partiti che intimidiscono, i treni che impiegano sette ore dal Tirreno all'Adriatico, i carabinieri troppo attivi che vengono promossi e spediti in Iraq, i co.co.pro. che devono versare mezzo stipendio ai politici che li raccomandano... Prendete Potenza, «nera, sconosciuta, rassegnata e ripiegata su se stessa».

Le mani sulla città sono un film in bianco e nero, racconta Vulpio: adesso le mani stanno dappertutto. E i Don Rodrigo del Sud non fanno sconti. Lui, inviato del Corriere della Sera, l'ha provato seguendo da vicino due magistrati come Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Che hanno indagato giudici e ministri e pure un presidente del Consiglio, intercettato gente che non dovevano, facendo anche qualche errore e sbattendo su fragorosi proscioglimenti. Osando comunque troppo, pagando sempre di più: l'uno col trasferimento, l'altra con un'incredibile sequela di minacce, di disgrazie, di lutti familiari. Tutt'e due, con l'inevitabile strepitus d'insulti e diffamazioni. Giudici che azzannano giudici: «Malati di protagonismo!». Giornalisti che impallinano giornalisti: «Velinari delle Procure!». Affari loro o roba nostra?

Si sa che molte redazioni sono il bordello del pensiero, diceva Kraus, e talvolta anche bordelli veri, chiosava Biagi, dove non sempre si può scrivere quel che si vuole, ma è già tanto se si riesce a non scrivere quel che non si vuole. Vulpio va oltre. E in questo libro, che sta coi pm senza se e senza ma, che ci va duro ad accusare la grande informazione di connivenza o conformismo, riporta anche una conversazione con Paolo Mieli in piena stagione di veleni e di microspie, dopo che una manina aveva passato ai giornali le telefonate private dell'autore: «La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi — gli disse il direttore del Corriere — è questa, intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli ». Why Not? Nella «democratura» del Sud, dittatura travestita da democrazia o viceversa, dice Vulpio che i segreti è meglio condividerli subito. Scrivere ogni cosa è un'assicurazione sulla vita e mica per niente è de Magistris a rinnovarsi la polizza: «Ma tu che credi, che in questi anni non abbia annotato tutto? Ho un diario mio, personale. Per tutelarmi da chi potrebbe farmi fuori fisicamente e professionalmente. Ma anche perché voglio che non si perda la memoria di tutto quello che è accaduto».

Narra il libro che per girare «The Passion», il film di Mel Gibson, i Sassi di Matera vennero trasformati in una verosimile Gerusalemme di cartapesta. La cosa piacque molto a due politici locali che, spenti i riflettori, proposero di lasciare la porta biblica «per sempre, così com'è nel film». Tutti risero. Ma pochi capirono che quell'idea era perfetta per un certo Meridione, una certa politica, una certa informazione: ritoccare tutto, perché nulla si tocchi.


Francesco Battistini 08 maggio 2008


http://www.corriere.it/spettacoli/08...4f486ba6.shtml