E' un po lunga ma dettagliata, per chi non è potuto venire può risultare interessante.

Si è tenuto sabato 10 maggio scorso a Roma, presso la sala Ouverture, sita in via Tripoli, il convegno promosso dal centro culturale Raido dal titolo: “Aria di rivoluzione - Il 68 e la contestazione: tra mito e realtà. Un percorso tra immagini, parole e musica di un anno che ha fatto storia”. Interventi e testimonianze di Mario Merlino, Rodolfo Sideri, Luciano Lanna, Francesco Lo Sardo e Gianni Pennacchi. Si tratta di una importante iniziativa promossa, a trent’anni dall’evento, per indagare a 360° e analizzare le molteplici valenze di un avvenimento che ha segnato una svolta nelle vicende della contestazione al sistema borghese da parte delle avanguardie culturali del Novecento italiano. Il moderatore ha aperto i lavori con una breve prolusione attraverso la quale ha sottolineato come il 68 fu una reazione di rigetto al perbenismo post bellico italiano portata avanti da parte di strati giovanili di diversa sensibilità e di multiforme approccio alla realtà, ma comunque tutti caratterizzati da una comune insofferenza verso l’imperante ingessatura ideologica cattocomunista che all’epoca regnava incontrastata negli ambienti della cultura e del costume. Lanna e Sideri, però, appartengono a una generazione specificatamente postsessantottina, si tratta quindi di testimoni più che altro del “dopo” 68, diciamo della degenerazione “settantasettina” del fenomeno in analisi, a differenza dei “veterani” Merlino e Pennacchi, i quali sono stati protagonisti “privilegiati” della celebre rivolta generazionale, in quanto hanno vissuto “in trincea” l’esaltante atmosfera “romantica” degli scontri di piazza. Il primo relatore a prendere la parola è stato il Prof. Rodolfo Sideri, che ha offerto una panoramica sul 68 dal punto di vista filosofico, partendo “Da Marcuse a Evola, passando per la contestazione studentesca“. Proprio il 10 maggio di trent’anni fa vi furono le prime barricate al quartiere Latino di Parigi. Tra i due pensatori protestatari novecenteschi, il sognatore e pessimista Marcuse, e lo spiritualista sidereo Evola, lui - come tutti noi del resto - è più in sintonia con Evola. Mentre nelle rivoluzioni “classiche” la mutazione avveniva dapprima “in corpore”, interiormente all’uomo, covando ed elaborando per secoli la “febbre” che poi finiva con l’esplodere clamorosamente all’esterno stravolgendolo, con il 68 è la prima volta che la prassi rivoluzionaria subisce a sua volta una rivoluzione. Il cambiamento stavolta parte dall’esterno. Si tratta di una mutazione significativa e inaudita. E’ la rivoluzione che, procedendo e improvvisando, inventa se stessa e nell’inventare se stessa finisce col modificare suo malgrado la psicologia intima dell’uomo. E’ l’immaginazione al potere appunto. La rivoluzione per la prima volta ascende al rango di arte. Marx, Mao, Marcuse come padri “nobili” della rivoluzione sono astratte semplificazioni giornalistiche operate dai soliti gazzettieri usi a etichettare e incasellare arbitrariamente ogni concetto. Marcuse dava per scontato che non i lavoratori, ma i giovani, i reietti, gli emarginati del Terzo Mondo, i neri, gli omosessuali, fossero gli autentici protagonisti di una rivoluzione dell’Eros contro il Thanatos, scandalizzando Horkheimer, che lo rimproverò aspramente per questo. In “Eros e civiltà” e “L’uomo unidimensionale”, Marcuse descrive i rischi della tecnica, identificandola con l’istinto di morte, Thanatos appunto. L’uomo moderno brandisce il sapere come una clava, servendosene per opprimere gli individui più deboli e indifesi. L’istinto di autodistruzione, mutuato totalmente da Freud, viene da Marcuse abilmente miscelato con forti dosi di marxismo crepuscolare, fino a far coincidere l’insopprimibile desiderio di annientamento che alligna all’interno del subconscio umano con l’esteriore pratica alienante e spersonalizzante tipica dell’odierno mondo capitalistico. Non “la” società, come affermava Freud, obbliga l’uomo all’alienazione e alla repressione per garantire un minimo di civiltà, bensì, a parere di Marcuse, è proprio “questa” società, capitalistica e spersonalizzante, la principale responsabile del sopruso. D’altro canto, la civiltà del lavoro sfrenato e febbrile finalizzato a produrre per consumare e a consumare per produrre è paradossalmente appagante, e l’entronomia introiettata è una servitù ben remunerata. Per Marcuse l’uomo moderno per sentirsi libero deve vivere in schiavitù. Se però si ha un minimo grado di repressione, nella civiltà massificata si ottiene un surplus di ribellione che il soggetto libidico indirizza nella rivoluzione, ma così facendo finisce inesorabilmente con il tradirla. Perché la vera liberazione è quando dall’anonimato economico, dalla vita appiattita sui “beni materiali”, si arriva alla libido come sessualità primaria, senza scopi o ansia di prestazioni. L’autentica libertà, quindi, consiste nel comportamento ludico, nel giocare e nel portare la fantasia al potere perché in una vera civiltà il libero individuo detta da sé le proprie leggi. Però, a parere di Sideri, in questo processo non c’è espansione dell’io ma, al contrario ben presto il tutto rimane preda di caos e confusione. Ribaltando il mito di Prometeo per restituircelo nella versione di Narciso - Orfeo si finisce col degenerare, approdando prima o poi sui perversi lidi dell’omosessualità, cosa che per Marcuse è invece espressione di una civiltà superiore. L’erotizzazione narcisistica del proprio corpo, infatti, per il filosofo tedesco è la conditio sine qua non, affinché non si inneschi il paventato, repressivo trinomio ordine – gerarchia - disciplina. Non più apollinee armonie di ancestrali tradizioni, quindi, bensì solo eterne, dionisiache utopie nel fluire del tempo. Nulla di tutto ciò in Evola, secondo il quale gli Arii convergono naturalmente verso una via d’azione sacralizzata. Per il filosofo siciliano l’istinto che ubriacava le masse studentesche preda dell’isteria sessantottina non rappresenta null’altro che il Ragna rok dello spirito, un caos indistinto cui imporre ordine e disciplina. La vittoria del 68 è la sconfitta del mondo pre-68, ovverosia la sconfitta del mondo tout court. Essa ha comportato il capovolgimento di valori e consuetudini naturali e tradizionali e in quanto tali eredità preziose, indiscutibili e irrinunciabili. Evola giudica il femminismo nient’altro che un complesso d’inferiorità della donna nei confronti dell’uomo che ha sovvertito e minato alla base la famiglia e il tessuto sociale. Nell’ecologismo strumentale di verdi e ambientalisti Evola individua una inconfessata volontà di declassare l’umano per ridurlo a un’appendice qualunque del mondo animale. L’omosessualità è solo confusione nell’ordine cosmico, una degenerazione apportatrice di conseguenze distruttive. Reich e i suoi “orgoni” sono concepiti come entità lanciate a bomba contro ogni ipotesi di supremazia psichica. Nella giustizia sociale il filosofo spiritualista vede una formidabile spinta livellatrice verso il basso, coadiuvata a scuola e all’università dalla nichilistica pratica del 6 politico, negatrice di ogni tipo di eccellenza e mortificante di qualsiasi merito. Per Evola il 68 doveva rappresentare una lotta per la vittoria dello spirito aristocraticamente trionfatore su ogni velleità di restaurazione della mediocrità. Bisognava, appunto, “Cavalcare la tigre”, usando l’arte come termometro per valutare il “livello di crisi” in cui annaspa la deprimente quotidianità. L’uomo differenziato denuncia, sì ma sente anche la responsabilità d’indicare una via contro il sentimentalismo e il sociale “facile”. Per Evola il pubblico “è” il privato, ma lui non vuole l’arte edificante o impegnata, esige piuttosto un segno di tradizione. La musica va intesa come virtù, e non come dimenamento sfrenato e primitivo. La droga rappresenta un’opportunità creativa per l’artista, onde valorizzarne e attivarne lo spirito. Da essa le masse dovevano mantenersi alla larga per la loro atavica vocazione all’intemperanza autodistruttiva, allo scatenamento irrazionale, alla tendenza a far prevalere l’inconscio annientatore piuttosto che l’anelito creativo. Evola si confronta con Marcuse in quanto entrambi negano la società odierna. Marcuse nega l’io, identificandolo come repressione, laddove la liberazione è rappresentata dall’eros. Evola nega il valore della rivoluzione, identificando quest’ultima con lo scatenarsi delle forze ctonie e indecifrabili dell’inconscio. Entrambi sono filosofi già vecchi ai tempi del 68, epperciò ritenuti inadatti a comprenderne lo spirito autentico. Luciano Lanna ha sottolineato prevalentemente i “pro” del 68, delineandone il carattere iconoclasta verso qualsivoglia concetto di codice culturale invalso al tempo, sia di stampo crociano sia gentiliano. Il sessantotto rivalutò i fumetti, i giornali, la tv come strumenti di conoscenza e creatività. Esso rappresenta una rivoluzione epocale che nasce già molto tempo prima, all’inizio degli anni 60, anticipato dalle avanguardie situazioniste di Guy Debord e dai vagabondaggi di Kerouac, dalle poesie di Ginsberg e Ferlinghetti, non certo da Marcuse o Evola, troppo in là con gli anni e biologicamente incapaci d’intuire le novità insite nel movimento. Il 68 ha rinnovato la cultura valorizzando il gesto, il movimento, l’immagine. Esso ha portato una ventata di libertarismo, di modernità, di rinnovamento, un rinnovamento che ha attraversato tutta la società, sia la destra che la sinistra. Il manifesto del periodo è la canzone di Guccini “Dio è morto”, sono le mirabili melodie dei Beatles, dei Rolling Stones, di Elvis Presley. E’ il periodo delle minigonne e del “due pezzi”, delle prime radio libere, in cui cultura, costume e linguaggio subiscono una rapidissima metamorfosi, mai verificatasi in passato con tanta velocità. Una rivoluzione che già aveva visto uniti a scavare nel fango dell’alluvionata Firenze ragazzi di tutto il mondo e di tutte le tendenze, accomunati in un empito d’amore e d’insofferenza per l’ordine e l’autoritarismo, per l’innovazione autentica contro capitalismo e comunismo. La prima occupazione di un edificio scolastico, infatti, avverrà di li a poco nell’università cattolica di Milano, mentre a Valle Giulia ci saranno tutti, studenti di destra e di sinistra. Francesco Lo Sardo, il terzo relatore, ha inteso focalizzare l’attenzione, a differenza di Lanna, sui “contro” del 68, su coloro, cioè, che del complesso fenomeno hanno subìto più che altro le forme d’intolleranza e di sopraffazione ideologica caratteristiche del triste periodo culminato con le stragi di Acca Larenzia e col sequestro Moro. Giovane studente del liceo romano Giulio Cesare, Lo Sardo, proveniente da ambienti di destra, “cambia subito idea”, passando per reazione “dall’altra parte” e subendone le conseguenze. Probabilmente le stesse vicissitudini sono state attraversate con dolore e sofferenza da migliaia di ragazzi che, coinvolti nel tritacarne della guerra civile strisciante dei cupi anni di piombo, hanno vissuto la giovinezza rinchiusi in un universo sotterraneo dove la vita umana aveva ben poco valore. La giornata tipo dello studente “impegnato” a destra o a sinistra era scandita da una ferrea disciplina strutturata gerarchicamente e tutta finalizzata a difendersi da agguati e contro agguati, facendo attenzione a non invadere i territori “nemici” e impegnati a difendere ferocemente i propri a colpi spranga e a bastonate, guardandosi vicendevolmente le spalle all’entrata e all’uscita da scuola. Famiglie “nere” e “rosse” si viveva tutti allo stesso modo. Estintori accanto al letto, boa di sabbia a tappare le fessure delle porte, Smith & Wesson (o P38) sempre a portata di mano - specialmente per i più “esposti” al pericolo - con i nervi a fior di pelle e pronti a darsela a gambe al primo rumore sospetto. Dopo la strage della famiglia Mattei era chiaro che la stessa sorte poteva toccare a chiunque e la morte arrivare annunciata dai vapori della benzina versati dal pianerottolo fin sotto la porta di casa o materializzarsi nell’ombra assassina di una chiave inglese vibrata a tutta forza sulla nuca. Insomma ai tempi non ne eravamo consapevoli, ma ci stavano facendo scannare nelle piazze l’un contro l’altro armati mentre i burattinai se ne stavano nell’ombra a tramare strategie d’odio mirate invece, più che a sovvertire, a stabilizzare il regime. Bisogna recuperare lo spirito di La Pira: l’importante non è da dove si viene ma dove si va. Il 16 marzo 78, con il sequestro Moro e la strage dei poliziotti della scorta, ha segnato la fine e il tradimento del 68. Nel riflusso sopraggiunto con la fine delle ideologie seguita al crollo del muro di Berlino del 1989 è necessario riprendere il filo rosso interrottosi in quegli anni, onde ricucire il tessuto lacerato della nazione. Ha preso quindi la parola Gianni Pennacchi. La rivoluzione tradisce sempre se stessa, ha esordito il redattore del “Giornale”. L’uragano ripulisce l’atmosfera e porta immancabilmente una ventata d’aria fresca, anche se dietro si lascia uno strascico di morte e distruzione. Il 68 è stato Evola e Marcuse, sì, ma anche Lucio Dalla, con la canzone dissacrante “Gesù Bambino”. La vita prima del 68 era terribilmente repressiva, perbenista, ipocrita e bacchettona. Basta aver frequentato l’università italica negli anni delle famigerate “baronie” o aver passato una nottata in guardina di quei tempi - ad avviso di Pennacchi - in balìa della scatenata brutalità poliziesca per comprendere il concetto. Oggi invece, grazie proprio al 68, c’è più rispetto per i diritti umani. Si tratta, ad avviso di chi scrive, dell’argomentazione più debole. Basti ricordare la triste vicenda del povero Nazareno De Angelis - era il 1980! - trovato cadavere proprio in seguito a un arresto “alla tibetana” o all’offesa arrecata recentemente a Benedetto XVI dalle baronie laiciste dell’ateneo romano. A questo punto è stato proiettato un filmato sui fatti di Valle Giulia, durante il quale sono state trasmesse interviste ai maggiori protagonisti della storica vicenda: Piperno, Scalzone, Mantovani, Caradonna. Dopo una fase iniziale che ha visto studenti di destra e di sinistra marciare fianco a fianco uniti contro la polizia, sì è verificato l’imprevisto. A un ordine di Michelini, segretario del Msi, che aveva abbracciato l’istanza garantista del mantenimento dell’ordine pubblico, elementi anticomunisti si sono improvvisamente scagliati contro i militanti che stazionavano a presidio della facoltà di Lettere, rompendo la solidarietà rivoluzionaria studentesca. Da quel momento la frattura divenne insanabile, si eressero gli steccati e “fascisti” e “comunisti” iniziarono a guardarsi in cagnesco. Ovvio…. verrebbe da dire? Ammesso l’errore strategico dei vertici del Msi di allora, ci sarà pure una ragione se la protesta in Usa, Francia, Germania, Inghilterra, Spagna e Portogallo si è ovunque tinta di rosso? Ultimo relatore Mario Merlino, professore di storia e filosofia. Grazie al 68 è stato definitivamente “cassonettato” l’obbligo da parte degli studenti di frequentare le facoltà in giacca e cravatta. Dissacrazione e poesia andarono a braccetto e Ferlinghetti e Ginsberg arrivarono persino a scrivere sui muri uno slogan futuristicamente irriverente e beffardo: “Ezra Pound for president”. Dopo un breve, struggente ricordo dell’amico Riccardo Minetti, camerata d’avventure durante i fatti di Praga, trovato anch’egli impiccato in cella d’isolamento dopo un arresto alla cinese, l’incontro ha avuto termine. Raido da appuntamento ad amici e militanti per il concerto di sabato 17 prossimo alle ore 21 nei locali di via Scirè.
SpAng