Diario politicamente scorretto
by Florian


Uomo nero non avrai il mio scalpo


Se rivolgo indietro lo sguardo agli anni della mia infanzia, quegli anni settanta che col passare del tempo si ricordano con sempre maggior nostalgia, immancabilmente mi sovviene da pensare a quanto sia cambiata nel profondo la società e la cultura nella quale la mia generazione è cresciuta. Si pensi ad esempio all’infamante epiteto di razzista. Si è sempre considerata “razzista” qualunque discriminazione fosse dovuta al diverso colore della pelle umana. La dottrina dei diritti umani su cui si fondano le società occidentali ci insegna infatti che tutti gli uomini sono uguali al di là del loro colore della pelle. Il rispetto dei diritti umani proprio dei bambini di oggi, educati da una massiccia campagna sensibilizzatrice alla questione della convivenza tra razze e culture diverse, non è però diverso da quello che avevamo noi venti, trenta anni fa. Anche noi allora eravamo tolleranti e convinti sostenitori dell’uguaglianza – chi la pensava diversamente era considerato un nazista – solo non conoscevamo quella ipocrisia nota come relativismo culturale che oggi viene sovrapposta alla dottrina dei diritti, distorcendola e rendendola odiosa col rischio, sempre più presente, di alimentare paradossalmente l’intolleranza.
Che cosa insegna il relativismo culturale? In breve, che le culture non sono rapportabili e che tutte hanno eguale dignità. A prima vista sembra un concetto volto all’apertura della mente umana, resa libera dalle strettoie di un sapere nazionale o etnico. Tuttavia a vedere in profondità questa supposta apertura si rivela altresì una chiusura, in quanto azzerando il merito in onore della tolleranza e mettendo sullo stesso piano Shakespeare e Dante con le più sconosciute culture tribali, vanifica la funzione formatrice dell’istituto scolastico.
In un vecchio film di Nanni Moretti, “Bianca”, il protagonista, un professore progressista, sottolineava come la scuola avesse il compito di informare piuttosto che di formare i suoi studenti. E’ quanto rischia di accadere oggi ed è l’opposto di quanto si riteneva giusto all’epoca di noi bambini, dei nostri padri, dei nostri nonni.
Trenta anni fa, quando il sottoscritto andava ancora alle scuole elementari, la consapevolezza che il “canone occidentale” (per dirla come il famoso critico letterario Harold Bloom) fosse più meritevole di studio rispetto alle culture di civiltà aborigene, era comune a tutti e non aveva investito ancora l’ambito politico. Ragion per cui se da bambini potevamo disdegnare con un pizzico di sufficienza il portato di razze e le culture diverse, questo non era per sciovinismo, ma perché sapevamo che l’orgoglio verso la nostra identità culturale era motivato.
Il sottoscritto, cresciuto in una famiglia borghese che oggi in ossequio all’imperante inglesismo si direbbe open-minded, non ha mai pensato di essere “razzista”, nonostante il naturale “etnocentrismo” della sua educazione lo farebbe oggi passare probabilmente per tale. Etnocentrismo è un’altro di quei termini, particolarmente odiosi, coi quali l’antropologia e la sociologia contemporanea usano alimentare i sensi di colpa dell’uomo bianco occidentale e viene usata praticamente come sinonimo di razzismo. Prima della rivoluzione del politically correct, il braccio armato del relativismo culturale, era normale per tutti noi occidentali bianchi essere etnocentrici, ovvero considerare la nostra cultura al centro dell’universo, con tutte le altre nella posizione subalterna di satelliti.
Come infatti non essere orgogliosi di quel che la civiltà occidentale bianca aveva conseguito a vantaggio della razza umana? Sapevamo certo dell’esistenza di altre gloriose civiltà, come quelle estremo-orientali, ma al tempo stesso nessuno di noi avrebbe voluto essere indù o cinese. A meno che non si fosse infatuati del maoismo, c’era una barriera invalicabile tra “noi”, i bianchi occidentali, e tutti gli altri. Una barriera eretta non solo e non tanto dai libri di scuola, ma dai media popolari – la musica, il cinema, i fumetti – che alimentavano in noi il piacere di essere bianchi e occidentali.
A proposito degli orientali, che allora non certo per disprezzo venivano chiamati “i gialli”, un mio cugino, che era solito chiedermi in prestito i “Tex”, mi raccomandava appositamente di tralasciare quelli in cui era presente la comunità cinese. Questo atteggiamento oggi verrebbe considerato razzista, perché si è estremamente sensibili in tema di tolleranza. Ma la tolleranza non dovrebbe precludere la possibilità di scelta, e mio cugino le storie ambientate a Chinatown aveva scelto di non leggerle, senza per questo ledere la dignità di chicchessia. I cinesi potevano anche stargli per qualche ragione antipatici, ma questi rimanevano fatti suoi e al massimo ci si sorrideva su.
Un altro esempio di come il gusto popolare trent’anni fa fosse assai diverso da quello attuale è connesso alla diffusione e al successo che l’epopea western riscuoteva tra grandi e piccini. Al giorno d’oggi le giocattolerie non hanno quasi più le pistole e i fucili coi quali noi bambini giocavamo da piccoli, in quanto l’immaginario è mutato e nuovi miti si sono sostituiti a quelli di un tempo. Tra l’altro, anche tra gli appassionati odierni del West la figura del cowboy non è più venerata come una volta, a tutto vantaggio del rivale pellerossa. Il processo revisionista ha completato il suo corso ribaltando i vecchi ruoli, assegnando agli uomini rossi la palma di buoni e ai bianchi quella di cattivi e il gusto popolare si è adeguato.
Al tempo di noi bambini films revisionisti come “Soldato blu” e “Piccolo grande uomo” erano assai meno popolari di telefilm come Rin Tin Tin e di tutti quei fumetti che riproponevano la visione classica e convenzionale della frontiera. Ken Parker doveva ancora vedere la luce e lo stesso Tex era assai meno liberal di quanto sia oggi. Per quanto mi riguarda, il primo western che andai a vedere a cinema, nel lontano 1973, fu “Il mio nome è Nessuno” e da allora il cappellone, il cinturone e le pistole di Terence Hill furono tutto quanto potevo chiedere alla mia fantasia. La mia generazione da bambina sognava i cowboys e non gli indiani; i suoi eroi portavano la colt, non il tomahawk (ad eccezione di Zagor, che li usava entrambi).
Tra l’altro gli “indiani” che conoscevamo, nella rappresentazione datane dai media avevano generalmente le stesse fattezze dei bianchi, differendo da questi solo per i capelli più lunghi e il colore rossastro della pelle. Capitava così che le squaws erano il più delle volte bellissime, ma solo perchè erano in realtà delle pulzelle bianche travestite - come Lilith, la sposa indiana di Tex la cui straziante vicenda aveva commosso tutti noi fumettari. Quando molti anni più tardi vedemmo per la prima volta i pellerossa con le loro fattezze reali, di derivazione asiatica, fu per noi una delusione cocente. Il pregiudizio, se mai l’avemmo, fu successivo e non antecedente la scoperta della verità.
Infatti, per quanto convintamente cowboys, eravamo abituati a scindere gli indiani buoni (pacifici) da quelli cattivi (bellicosi) e nessuno pensava che l’indiano buono fosse “quello morto”. Figurarsi. In nessun fumetto, come in nessun film – nemmeno in quelli di John Ford, dove i “rossi” venivano sterminati in quantità industriale – si ragionava in termini così manichei e crudeli. Si aveva anzi per loro quella compassione che le persone “buone” hanno nei confronti di chi è costretto dalla vita a restare indietro. Paternalismo? E sia. Convenivamo tutti, con Kipling, che l’uomo bianco avesse il “fardello”di portare la civiltà occidentale ai popoli più “arretrati”. Ma questo ci rendeva forse razzisti? Per l’ideologia contemporanea, nemica del buon senso e della ragionevolezza, sì.
La mentalità odierna, infatti, è portata a rifiutare il paternalismo al pari del razzismo e in ossequio al relativismo culturale nessuno si arrischia a giudicare una cultura “arretrata”, nemmeno se si tratti degli abitanti della Papuasia. Per eliminare ogni possibile fonte di pregiudizio, sono caduti i canoni e con essi ogni possibilità di giudizio. Oggi si ritiene che le culture non siano confrontabili. Ma allora perchè continuare a studiare il latino? Basta l’inglese, che è più utile. Ma ritenere che la cultura tribale indiana fosse “arretrata” rispetto al retaggio europeo dei coloni bianchi è forse indice di razzismo? Induce necessariamente alla sopraffazione? Niente affatto. Allora messi di fronte a Gesù Cristo e Manitù sapevamo individuare all’impronta il vero dal falso. Oggi, in omaggio a Tiger Jack, non più.
Detto degli uomini rossi, parliamo ora – per quanto sia sconvenevole farlo - degli uomini neri. La natura illiberale della moderna dottrina dei diritti è che è portata ad incriminare il pensiero per il solo fatto di manifestarsi. Parlare della razza non si può, perchè è razzista. Qualsiasi cosa tu dica al riguardo è sospetto. Il fatto stesso che si ponga una questione del genere è ritenuto inaccettabile e meritevole di disprezzo.
Ad ogni modo, i neri, anche quando per tutti erano ancora “negri”, non erano fonte di imbarazzo per nessuno, che non fosse almeno manifestamente imbecille. Mi ricordo ancora di un professore di liceo che una volta diede sfoggio della propria stupidità affermando pubblicamente che per lui i neri erano scimmie, ma il fatto che me lo ricordi ancora sta a dimostrare l’unicità, pur sgradevole, dell’episodio e non la norma.
Negli anni settanta il razzismo, contrariamente a quanto pretendono i professori relativisti di oggi, non esisteva, o se esisteva era talmente poco sviluppato da essere considerato al rango di una patologia sociale di poca rilevanza. Razzisti potevano essere i puritani bianchi dell’Alabama, ma noi cattolici non abbiamo mai avuto di questi pregiudizi. Consideravamo i “negri” allo stesso modo in cui noi eravamo “bianchi”, con la differenza che loro stavano in Africa e noi in Europa. Una differenza non da poco.
Infatti, per quanto non si avesse alcun sentimento denigratorio nei loro confronti e li si potesse apprezzare come autori di musica jazz o della disco che allora impazzava (mia sorella, ad esempio, aveva una predilezione per Diana Ross), non significava naturalmente che sentissimo la necessità di giungere ad una convivenza sociale. In realtà, l’idea che questa sarebbe stata possibile non ci sfiorava neppure. Per noi i “negri” rimanevano un qualcosa di esotico, di lontano. Nessuno poteva immaginare allora che i nostri figli avrebbero oggi condiviso con loro le classi scolastiche, che i matrimoni misti non avrebbero destato non dico lo scandalo, ma nemmeno l’imbarazzo presente nel celebre film antirazzista “Indovina a cena”. Probabilmente non lo avremmo nemmeno desiderato, senza per questo essere razzisti. Semplicemente eravamo convinti del valore delle nostre tradizioni e consapevoli dei rischi dovuti alla coesione forzata di culture lontane e difficilmente sovrapponibili. La storia americana dimostrava del resto in quanto tempo e a quale prezzo si fosse giunti, peraltro nemmeno completamente, ad una convivenza civile e rispettosa. Chi si sentiva di dover correre tali rischi e perché avrebbe dovuto farlo?
Finché il processo di integrazione razziale sul suolo europeo è stato graduale, la vita di nessuno ne ha mai risentito. Neri erano i grandi campioni americani dell’atletica, il cui fisico scolpito era un modello per gli adolescenti frequentatori delle palestre. Negli anni ottanta la nazionale di calcio inglese aveva il suo primo calciatore nero nel terzino Viv Anderson, mentre la Francia, anche in questo più democratica, ne contava due: Gérard Janvion e Marius Tresor, entrambi ottimi difensori. Guardammo con simpatia a tutto ciò. Che un nero potesse vestire i colori di una nazione europea poteva starci in quanto eccezione, non certo regola, dato per scontato che il continente europeo fosse abitato in massima parte da individui di razza bianca. Oggi invece tra la nazionale inglese (o quella francese) e una qualunque nazionale africana si fa fatica a notare la differenza, in quanto la presenza di colored tra i britannici è divenuta impressionante. Stesso dicasi per i francesi. Per noi che eravamo a pensare che i sudditi di sua Maestà fossero tutti biondi questa cosa fa un certo effetto e ci vorranno anni perché ci si abitui all’idea che un inglese è tale solo perché paga le tasse in quel determinato Paese. Pensavamo infatti che fosse qualcosa di più e di diverso.

Da quando, tuttavia, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, la drammatica povertà delle regioni africane e la sopraggiunta globalizzazione che ha fatto del mondo intero un villaggio, ha fatto sì che i flussi migratori si moltiplicassero, la configurazione etnica delle società europee è oggi radicalmente mutata. Spesso gli immigrati oltre ad appartenere ad una razza diversa sono inoltre portatori anche di una religione diversa e non sempre hanno il proposito di integrarsi pacificamente nel nostro sistema culturale. Alcuni di loro hanno sentimenti di rivalsa, residui di guerre antiche e mai completamente dimenticate, altri non sono disposti a rinunciare a tradizioni sociali inaccettabili per la cultura occidentale (si veda, una per tutte, la questione dell’infibulazione femminile).
Sempre a partire dagli anni novanta l’Europa ebbe confidenza con la cultura della “correttezza politica”, esportata dagli USA al seguito della presidenza clintoniana. Un film come “Balla coi lupi”, smaccatamente a favore dei native americans, essendo per il resto un film assolutamente ben fatto, riuscì a popolarizzare quel gusto revisionista che in precedenza aveva toccato solo un’esigua parte di spettatori. Riguardo alla nuova tendenza pro-pellerossa il famoso storico e americanista Raimondo Luraghi, si distinse dal coro ossequiante parlando di “un capovolgimento totale non solo degli antichi miti, ma anche dei nuovi; nell’era di quella sagra della falsità e dell’ipocrisia che è il cosiddetto politically correct, adesso era l’indiano ad avere il monopolio della bontà della mitezza, dell’umanità; mentre il bianco diventava una specie di mostro meschino, sanguinario e anche idiota. Il cerchio si chiudeva sostituendo una falsificazione con un’altra, probabilmente peggiore della prima, perchè “voluta” a mente fredda”.
Il Luraghi, non certo passibile di simpatie reazionarie, si prese coraggiosamente la briga di smontare ad uno ad uno tutti dogmi del sopraggiunto pensiero progressista antibianco, ponendo l’insediamento europeo nel continente alla stregua di tutte le migrazioni di popoli e dunque negando decisamente che potesse considerarsi un “crimine”, irridendo al pregiudizio rousseauiano sulla naturale bontà dei selvaggi nativi e giungendo persino a mettere in dubbio quella che è considerata una verità inoppugnabile, ovvero che gli indiani fossero realmente dei nativi, cioè degli autoctoni, e dunque potessero vantare particolari diritti per quelle terre di cui essi probabilmente furono i primi invasori.(1)
Sempre in ambito cinematografico, un regista nero come Spike Lee riabilitò nientemeno che la controversa figura di Malcom X, il leader delle Pantere Nere assassinato negli anni sessanta, che incitava alla violenza razziale contrariamente al non-violento Martin Luther King. La cultura che intendeva combattere il razzismo si scopriva dunque alimentata dal più volgare razzismo antibianco. E’ il caso della nuova cultura dei ghetti, il cosiddetto gangsta rap, dai contenuti smaccatamente violenti e sessisti, oltre che naturalmente razzisti. La parola nigger considerata diffamatoria in bocca a un bianco diventava ora cool se pronunciata da un nero. L’approccio integrazionista di King lasciava il passo ai predicatori d’odio come Louis Farrakhan, denigratori di tutto ciò che non fosse negritude, vale a dire i cittadini bianchi e gli ebrei. Nella mutata visione dei leaders afroamericani, questo il termine designato dal politically correct per gli americani di razza nera, il melting pot non era che un imbroglio a vantaggio dei bianchi. Si iniziò a definire “La capanna dello zio Tom”, il celebre libro antischiavista dell’epoca della guerra civile, un testo razzista e zio Tom divenne l’epiteto infamante per quei neri che “ce l’avevano fatta” e stavano ora dalla parte dei bianchi.
Questa cultura d’odio era il portato naturale del multiculturalismo. Per il reverendo Jesse Jackson, l’America era un patchwork di culture non omologabili che dovevano rimanere distinte (da qui il simbolo della sua Rainbow Coalition - quell’arcobaleno che diventerà la bandiera delle sinistre del nuovo millennio - i cui colori sono vicini ma non sovrapposti), in un contesto generale di tolleranza e rispetto dei diritti di ogni singola etnia. I neri coi neri, i bianchi coi bianchi, i latinos coi latinos, alla faccia dei tanto sbandierati propositi di “apertura”.
Che queste pretese aperturistiche celassero al contrario la definitiva “chiusura” del pensiero liberal americano lo avevano del resto già profetizzato Saul Bellow e Allan Bloom, autore del celebre pamphlet “The Closing of the American Mind”, pubblicato alla fine degli anni ottanta e accolto tra i lazzi dell’intellighenzia progressista internazionale. Oggi però possiamo ben dire che il multiculturalismo ha provocato, al pari di tante altre visioni radicali che si prefiggevano il bene dell’umanità, più danni che benefici ed è diventato la principale arma per tutte le comunità islamiche che rifiutando ogni proposito di integrazione sono andate disseminandosi in Europa. La cronaca degli ultimi anni, dalla rivolta delle banlieues parigine al fallimento del Londonistan, ha fornito la dimostrazione più lampante dei disastri portati dalla cultura multiculturalista, ai quali solo ora la politica sta tentando disperatamente di porvi rimedio.
La cultura dell’”apertura”, sponsorizzata dall’Ulivo mondiale, non si è rivelata altro che l’ipocrisia al potere. Dieci anni di politiche di immigrazione dissennata non hanno provocato altro che rabbia e sconcerto tra i cittadini bianchi, soprattutto tra gli appartenenti a quelle classi inferiori alle quali la globalizzazione non ha portato alcun miglioramento di vita, ma ha solo distrutto nella sua furia egualizzatrice le grandi e piccole certezze con le quali erano cresciuti.
Diversamente dai normali cittadini, i guardiani della nuovo Verbo intellettuale, al riparo delle loro riverite cattedre, non si fanno scrupolo di trattare nel loro privato con sufficienza e disprezzo quelle culture altre di cui sono soliti erigersi a pubblici difensori. Per esperienza diretta, il sottoscritto ha avuto modo di appurare con quali forme di volgare alterigia questi intellettuali progressisti trattino i loro badanti “negri”, soprattutto se questi hanno la cattiva abitudine di essere cristiani e di venire dunque meno al dogma laicista. Ma naturalmente non li si può accusare, a loro, di razzismo, nemmeno se un profondo e sottile intellettuale bertinottiano, discettando della bellezza femminile si lascia scappare senza complessi che le donne di colore continuano a non piacergli per niente, tutte loro, compresa Naomi.

Oggi l’uomo bianco occidentale vive costantemente in bilico tra sensi di colpa introiettati dalla nuova cultura e pericolosi rigurgiti di odio razziale.
Essere bianco ha potuto significare per un americano dover espiare le ataviche colpe della schiavitù sudista, ma in Europa il passato coloniale non è sentito dai nostri popoli alla stregua di un marchio d’infamia. Per giunta, le nostre nazioni non sono fondate, a differenza di quella americana e come vorrebbe la nuova civiltà globale, su un’Idea, pur nobile, di libertà e di democrazia; ma su una propria specificità culturale. E una cultura è il retaggio di secoli di storia, di una lingua particolare e di abitudini condivise nel tempo che non possono e non devono essere di colpo annullate e piegate alle esigenze, queste per nulla nobili, della finanza apolide.
Pertanto sarebbe bene che gli intellettuali di sinistra, i quali amano citare i versi di una famosa poesia di Berthold Brecht: “Noi che volemmo apprestare il mondo alla gentilezza, noi non si potè essere gentili”, se ne ricordino allorquando la terribile ira dei miti, dei giusti e dei buoni un domani dovesse rivoltarsi loro, scorrettamente.



Note:

(1)Luraghi sottolinea con una franchezza che gli fa onore la natura politica che sta dietro la difesa della tesi che “gli antenati degli “indiani” sarebbero stati i primi immigrati e dunque i soli legittimi possessori del Continente.” (Raimondo Luraghi, Sul sentiero della guerra. Storia delle guerre indiane del Nordamerica, Rizzoli, Milano, 2000)