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    per il centro-sinistra
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    Predefinito Congresso Prc: la mozione unitaria

    Appoggiata dal movimento degli autoconvocati, dal movimento dei 100 circoli e dall'area de "L'Ernesto"


    RIFONDARE UN PARTITO COMUNISTA PER RILANCIARE LA SINISTRA, L’OPPOSIZIONE E IL CONFLITTO SOCIALE


    Siamo iscritte e iscritti del Prc che hanno sostenuto mozioni diverse al precedente congresso di Venezia. Mettendo in atto un processo democratico e partecipato ci siamo uniti attraverso l’appello dello scorso autunno “Un congresso per rilanciare i movimenti e l’autonomia del Prc”, promosso da 100 circoli, che ha raccolto migliaia di firme in tutta Italia di segretari di circolo, di federazione, dirigenti e militanti di base.


    Anche se abbiamo storie e percorsi diversi, siamo oggi accomunati dalla consapevolezza della gravità della situazione determinata dall’esito delle elezioni del 13 e 14 aprile, che rischia di vedere la sparizione dallo scenario politico italiano di una forza comunista con un consenso di massa. Per questo abbiamo deciso di dar vita ad una mozione congressuale, che non ha la pretesa di affrontare compiutamente tutte le problematiche politiche e teoriche ma che si focalizza attorno ai nodi fondamentali posti dalla fase. Una mozione che sottoponiamo a tutte le iscritte e gli iscritti del Prc e che chiediamo venga arricchita con integrazioni ed emendamenti dai congressi di circolo.



    Una sconfitta storica


    Nonostante l’impegno militante e spassionato di tante compagne e compagni, la sconfitta della Sinistra Arcobaleno è di dimensioni catastrofiche, un vero e proprio tracollo, una disfatta storica. Con tre milioni di voti persi in soli due anni, la Sinistra Arcobaleno scende al 3% e non elegge nessun parlamentare. Per la prima volta nella storia della Repubblica nessun comunista (e nessun esponente della sinistra) viene eletto in Parlamento. E ciò avviene in una situazione politica in cui si è riconsegnato il Paese a una destra resa più aggressiva dalla rivincita elettorale, all’interno della quale si sono rafforzate le spinte leghiste, fasciste, xenofobe.


    Rifondazione Comunista, la forza politica che più di altri ha lavorato per dar vita alla Sinistra Arcobaleno, anche nell’illusione di superare così una grave crisi di progetto strategico e di militanza, ne esce distrutta nel morale e nelle prospettive. L’intero gruppo dirigente che ha gestito il partito non ha avuto il minimo sentore di ciò che si stava preparando, nonostante i segnali inequivocabili e i dissensi provenienti dalla società e dallo stesso Partito. A 17 anni dalla nascita del Prc nel 1991 si chiude un ciclo storico. Cosa e come ricostruire a sinistra è l’oggetto del VII Congresso.


    I “300 mila fucili pronti” evocati da Bossi e i saluti romani in Campidoglio danno il segno della nuova Italia uscita dalle urne. La cancellazione della sinistra dal Parlamento avviene in un contesto molto grave e pericoloso, segnato da crescenti pulsioni autoritarie. Il governo del Paese torna alla destra, a una destra che vince con un margine ampio, che le consente stabilità e arroganza, in un contesto nel quale il senso comune di massa – dopo 2 anni di governo Prodi - si è spostato ancor più in senso moderato. Avanzano incontrastate spinte all’individualismo e alla guerra tra poveri, pulsioni antidemocratiche e autoritarie, sfiducia diffusa nella politica e nell’agire collettivo, il ritorno di sottoculture razziste e omofobe, persino rigurgiti neofascisti e neonazisti, oltre che un anticomunismo dilagante, talvolta legittimato anche da esponenti della stessa sinistra. Contemporaneamente, l’opposizione parlamentare alla destra è oggi costituita dal solo Partito Democratico, espressione della grande borghesia italiana, in un quadro bipartitico quasi del tutto compiuto che non dà più rappresentanza ai ceti sociali più deboli. Il movimento dei lavoratori e tutti gli altri movimenti che nel decennio passato avevano fatto sentire la loro presenza, sono in grande difficoltà.



    L’esito negativo del Congresso di Venezia


    Tutto questo è anche il risultato finale della politica di due anni del governo Prodi, del conseguente crollo di fiducia dell’elettorato popolare e di sinistra. A ciò ha contribuito, obiettivamente, la scelta, assunta tre anni fa, della linea di alleanza organica col centro-sinistra (prima la Gad e poi l’Unione) e di partecipazione al governo Prodi, senza aver conquistato significativi punti programmatici e men che meno una impostazione generale alternativa al neoliberismo e alla guerra e soprattutto senza che vi fossero nella società rapporti di forza tali da determinare un’inversione di rotta.

    Certamente, l’Ulivo prima e il Partito Democratico poi, hanno le principali responsabilità per aver riconsegnato il governo del paese alle destre. Tuttavia, l’aver fatto venir meno un coerente riferimento di sinistra al malessere sociale e civile, l’aver cancellato ogni opposizione di sinistra al neoliberismo e al sistema dell’alternanza bipolare (come è stata, con pregi e difetti, Rifondazione Comunista dalla sua nascita) ha prodotto lo spostamento del voto di larghi settori popolari e giovanili sia nell’astensione, sia a destra e sia nel cosiddetto “voto utile”, un risultato che esprime protesta e delusione per la politica della sinistra e, in particolare, per il Prc. Era un fenomeno ampiamente prevedibile anche perché già altre volte si è verificato nella storia di altri paesi.


    La realtà dei fatti ha dunque smentito l’ipotesi della “condizionabilità” del governo di centrosinistra, su cui si era fondato il Congresso di Venezia. Bisogna prenderne atto, cambiando radicalmente linea e gruppi dirigenti. Molti compagni e compagne allora votarono per la mozione Bertinotti e l’ingresso al governo, convinti che il partito avrebbe subìto un attacco ed una perdita di consensi se avesse opposto un rifiuto alla partecipazione al governo. Si disse allora che se non avessimo fatto quella scelta, se non avessimo raccolto quella “sfida” per cacciare Berlusconi e tentare una fuoruscita dalle politiche neoliberiste saremmo stati considerati complici della destra e marginalizzati. Certamente, avremmo subìto una forte pressione e l’offensiva dell’allora Ds (una pressione comunque minore di quando nel ’98 facemmo giustamente venir meno l’appoggio al primo governo Prodi). E tuttavia è vero che il nostro gruppo dirigente non ha saputo prevedere gli esiti che la partecipazione al governo avrebbe potuto avere e non è stato neppure conseguente ad alcune indicazioni proclamate, quali: il governo come mezzo e non come fine, l’impegno a sostenere i movimenti, la critica alla doppiezza della politica, ecc. In soli tre anni siamo ridotti in una condizione ben peggiore di quella paventata allora per giustificare l’ingresso nel governo: oggi siamo isolati socialmente, fuori dal Parlamento, in una condizione in cui è a rischio la nostra stessa sopravvivenza, colpiti da un calo vertiginoso del nostro consenso e frantumati in una guerra intestina che talvolta sembra procedere lungo le coordinate di scontri personali e di gruppi dirigenti, piuttosto che di chiare discriminanti politiche. La linea della partecipazione al governo fu decisa al Congresso di Venezia con il 59% di voti contro il 41%. In quel congresso si respinsero tutte le proposte di gestione unitaria del partito, anche quelle che vennero avanzate da esponenti della maggioranza e si mise l’ampia minoranza del Prc fuori dalla segreteria nazionale e dalla gestione del partito. E’ assolutamente inevitabile, quindi, una seria riflessione autocritica sia sulla linea decisa dal Congresso di Venezia che sulla gestione di tale linea. Solo quei comunisti che sanno ripensare se stessi autocriticamente sono in grado di guardare al futuro.



    Il governo Prodi, causa principale della sconfitta


    La politica del governo Prodi ha fatto crollare molto presto, ben prima del previsto, le aspettative di maggiore giustizia sociale o anche solo di un moderato miglioramento delle condizioni di vita che il nostro elettorato nutriva. Il governo, sin dall’inizio, non è stato permeabile ai movimenti, ma solo ai banchieri della Ue, alla Nato, agli Usa e al Vaticano, più aggressivi che mai.


    Le iniziative del governo sono state caratterizzate da un approccio liberista, talvolta persino più disinvolto di quello del centro-destra; da un’evidente attacco alle condizioni di vita dei lavoratori/trici e dei settori popolari, in altre parole dalla professione di fede nella centralità del mercato e dell’impresa. Il ministro Padoa Schioppa è stato il rappresentante dei banchieri e del FMI, il simbolo del liberismo e dei “sacrifici” a senso unico, ancora e solo a danno dei lavoratori/trici e delle classi popolari, mentre crescevano vertiginosamente i profitti e le rendite finanziarie. Ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.


    I lavoratori, le lavoratrici, i pensionati, i precari, i disoccupati, si sono sentiti traditi e abbandonati dal governo, ma anche da noi che siamo stati percepiti come corresponsabili. Anziché aumentare i salari e le pensioni e ridurre la povertà e l’insicurezza sociale, il governo Prodi ha favorito le grandi imprese. Ha eliminato il cuneo fiscale, regalando miliardi di euro alle aziende, alle banche e alle assicurazioni; ha prodotto un accordo concertativo su pensioni e welfare, confermando la legge 30 invece di abrogarla e aumentando ulteriormente l’età pensionabile senza abolire completamente lo scalone Maroni, come era stato promesso in campagna elettorale. Ha varato due Finanziarie che, invece di “far piangere” i padroni, li ha arricchiti oltre misura, colpendo ancora una volta i lavoratori/trici e i settori popolari. Ancora: lo scippo del TFR; l’impunità per i responsabili delle morti bianche, nonostante il terrificante record italiano di quattro assassinii sul lavoro in media al giorno, su cui il rogo della Thyssen Krupp ha gettato una luce inquietante.


    La politica del governo Prodi ha alimentato, anziché ridurre, la “guerra fra poveri”, il senso di insicurezza, la delusione verso una coalizione che si era presentata come alternativa a Berlusconi, i consensi alla Lega e all’estrema destra. La crescita del consenso elettorale degli operai alla Lega è il frutto di un lungo lavoro di “semina” compiuto dalla stessa Lega (spesso in collaborazione competitiva con la destra neofascista) che alle paure provocate dalla crisi economica, dall’immigrazione e dalla criminalità, ha risposto con parole demagogiche, spesso trovando sponda nel Pd. A questo fenomeno ha contribuito l’assenza di risposte di classe e da sinistra a quelle stesse paure. Alla difesa degli interessi di classe si sostituisce, così, la difesa della comunità e dell’interesse di parte. In mancanza di una politica di difesa dei salari attecchisce l’idea delle gabbie salariali; rispetto a politiche che non affrontano i problemi della disoccupazione, della casa, dei servizi, l’immigrato diventa sempre più un “concorrente”; il dilagare della criminalità e del degrado legato a motivazioni sociali apre la strada a risposte xenofobe e autoritarie. Ma è troppo comodo cavarsela dicendo che i lavoratori stanno diventando razzisti e qualunquisti. Se la classe operaia ha abbandonato la sinistra è perché, prima, la sinistra ha abbandonato la classe operaia, la capacità di comprendere i suoi problemi e di fornire risposte adeguate.


    Il governo Prodi ha deluso il movimento per la pace, tradendo persino lo spirito dell’articolo 11 della Costituzione. Ha aumentato vertiginosamente le spese militari (del 25% in due anni), ha proseguito la missione di guerra in Afghanistan, ha contribuito all’acuirsi della crisi del Kosovo, ha acconsentito all’installazione dello scudo stellare di Bush, alla base americana di Vicenza, non ascoltando la voce della popolazione locale e delle straordinarie manifestazioni del 17 febbraio e del 15 dicembre 2007. La politica estera di Prodi è stata sostanzialmente subalterna alla Nato e alle compatibilità euro-atlantiche.


    La maggioranza parlamentare dell’Unione ha deluso il movimento di Genova non istituendo la commissione d’inchiesta sui gravissimi fatti del luglio 2001. Ha riconfermato la Tav in Val di Susa e nel resto d’Italia, nonostante l’ampia contrarietà delle popolazioni locali; ha confermato la scelta degli inceneritori e, attraverso la politica del ministro Di Pietro, la linea di investimenti infrastrutturali dal carattere meramente speculativo, dannosi e privi di qualsiasi utilità sociale, invece dell’indispensabile potenziamento del sistema ferroviario e di tutte quelle opere e di quei servizi di utilità sociale che aspettano da anni di essere finanziate, in particolare nel sud d’Italia. Il Mezzogiorno è stato ancora una volta abbandonato a se stesso e lasciato sprofondare nella disoccupazione e nell’impoverimento, nelle pratiche clientelari, nella criminalità, nella mafia, nelle storiche sottoculture individualistiche e conservatrici.


    Il governo Prodi, per sudditanza al Vaticano, è venuto meno persino agli impegni elettorali sui diritti civili, non riuscendo neanche ad approvare una legge sulle coppie di fatto. Così come non abbiamo visto il superamento della Bossi-Fini, dei Cpt e della riforma Moratti, la legge sul conflitto d’interessi e quella sulla rappresentanza sindacale. Il gruppo dirigente del Prc, non solo ha giustificato il sostegno a queste scelte in nome dello spauracchio di Berlusconi, ma è giunto addirittura a difendere Ratzinger e Giuliano Ferrara contro chi, sostenendo la laicità dello Stato, si è opposto all’ingerenza del Vaticano nella vita politica e culturale del nostro Paese, nonché all’aggressione al diritto all’autodeterminazione delle donne. E’ giunto perfino a sostenere una sorta di equidistanza tra Israele e popolo palestinese nella vicenda della Fiera del Libro di Torino.



    Il Partito Democratico e la Sinistra Arcobaleno


    Il Partito Democratico, evoluzione moderata del vecchio Ulivo, esce anch’esso sconfitto dal voto: perde il governo del Paese e consegna alla destra neofascista persino la città di Roma. Lo spostamento a destra nel “senso comune” del paese e anche del popolo di sinistra non è solo il risultato di una forte capacità di penetrazione mediatica e culturale della destra, ma è anche conseguenza dell’involuzione politica del Pd (e dello stesso centro-sinistra), che non solo ha contribuito a rendere sempre meno evidenti le differenze politiche sostanziali dal centrodestra, ma ha anche finito con il favorire la penetrazione delle ideologie di destra all’interno dello stesso popolo della sinistra. Paradigmatica, da questo punto di vista, è stata sia l’avanzata della Lega al nord che la vittoria di An a Roma, dove la profonda delusione popolare per le politiche economiche e sociali del centro-sinistra, coniugata all’evoluzione securitaria del Pd, ha favorito il passaggio di una parte consistente di elettorato popolare alla destra.


    La Sinistra Arcobaleno non è stata un incidente di percorso, né una parentesi che si possa chiudere così facilmente: è stata la conclusione di un lungo processo di diluizione dell’autonomia del Prc e dei suoi connotati comunisti, anticapitalisti e di classe. Le diverse ipotesi di unità a sinistra – federazione, confederazione, soggetto unitario e plurale, partito unico – hanno provato a coprire sotto astratte alchimie organizzative il progetto di liquidazione politica della rifondazione comunista, in nome dell’unità a sinistra e dell’“innovazione culturale”. E ogniqualvolta si è denunciato questo progetto difendendo l’attualità di un partito comunista, si è risposto con accuse di “identitarismo” e di nostalgia del passato.


    La cancellazione della falce e martello e l’adozione di un simbolo sconosciuto e privo di riferimenti alla tradizione politica comunista e della sinistra (scelta che ha contribuito anch’essa al pessimo risultato elettorale) ha rappresentato solamente il suggello formale al processo sostanziale di liquidazione politica del Prc. Una scelta fatta, peraltro, come molto spesso è avvenuto negli ultimi tempi, cancellando del tutto la partecipazione degli iscritti, dei circoli e delle federazioni, con una logica autoritaria giunta persino a rinviare il congresso già avviato, per paura del confronto democratico con la base. La vera e propria campagna, sostenuta in modo martellante da Liberazione, per la costruzione di un nuovo soggetto politico non più comunista e le affermazioni del candidato premier relative alla riduzione del comunismo ad una delle tendenze culturali interne al nuovo soggetto, sono la prova che non di errore si è trattato, ma di una pervicace volontà di superare il Prc attraverso una forzatura plebiscitaria e antidemocratica.


    Ma un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo. Sia la partecipazione al governo, sia la diluizione di Rifondazione Comunista nella Sinistra Arcobaleno vengono da lontano. Il positivo impegno del Prc nel movimento no global, l’importante ruolo giocato a Genova nel 2001, la successiva partecipazione alle grandi manifestazioni contro la guerra avrebbero potuto essere una grande occasione per costruire una sinistra anticapitalista e antimperialista strutturata e per rafforzare l’insediamento del partito fra i giovani. Invece, l’aver sminuito la contraddizione fra capitale e lavoro e quindi il disimpegno conseguente nella costruzione del radicamento sociale, l’aver contrapposto l’analisi della globalizzazione alla teoria dell’imperialismo e del sostegno ai popoli aggrediti, il disinteresse per l’organizzazione del partito, dei circoli e delle federazioni, in nome di una costruzione tutta istituzionale, mediatica e venata di leaderismo, sono state le tappe preparatorie dell’ingresso al governo, il tentativo di accreditarsi come esponenti di una sinistra finalmente pronta ad assumersi responsabilità istituzionali al massimo livello. Lo stesso dibattito sulla nonviolenza è stato utilizzato, nei fatti, per accreditarsi in tal senso offrendo un’immagine “buonista” e attenuare la critica al potere.


    Sulle cause per le quali un’esperienza ricca e promettente come quella originaria della rifondazione comunista sia finita nella débacle del 13 e 14 aprile, bisognerà aprire una riflessione più approfondita e collettiva.



    Salvare il Prc per rilanciare la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista


    Cosa fare? Innanzitutto è necessario guardare in faccia la realtà. La sconfitta è pesantissima. Il morale delle compagne e dei compagni è pessimo. C’è grande sconforto, paura, rabbia. Se non c’è una rottura di continuità, se non c’è un progetto nuovo, motivante, di rilancio dell’ispirazione di fondo dell’impresa che cominciammo 18 anni fa, se non c’è un cambiamento radicale di linea, di dirigenti e di metodi di gestione del partito (da una gestione autoritaria e burocratica ad una gestione collegiale e democratica), Rifondazione Comunista rischia di morire.


    Salvare Rifondazione Comunista dalla liquidazione politica e organizzativa è il compito primario del nostro Congresso. Noi vogliamo contribuire a farlo assieme a tutti coloro che sono disponibili. Ma è del tutto evidente che, tanto più dopo una sconfitta elettorale di queste proporzioni, salvare Rifondazione Comunista non è in sé sufficiente. Si salva ciò che resta del patrimonio importante del Prc, di militanza, di esperienze e di capacità di costruire lotte e movimenti, solo se si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un più forte partito comunista con basi di massa, nel quadro di un più ampio processo di unità della sinistra anticapitalista. La rifondazione/ricostruzione di un partito comunista deve anche porsi l’obiettivo di superare la diaspora comunista, riaggregando le tante forze interessate, ma ancora disperse, con un percorso che metta al centro i contenuti, le pratiche sociali comuni, una critica al governismo e un progetto di chiara alternativa al Pd, condizioni indispensabili per garantire uno sbocco positivo a questo processo. Un partito comunista è necessario, anche se non sufficiente, per riaprire una nuova stagione dei movimenti e del conflitto sociale, per costruire una lunga fase di lotta e di opposizione (vera, non “costruttiva”) a tutte le politiche neoliberiste e di guerra, sia che vengano dalla destra sia che vengano dal Pd. Il che significa anche promuovere nel partito una verifica rigorosa della nostra partecipazione alle giunte locali, che in futuro non potrà più essere una regola, in relazione ai contenuti programmatici e ai nostri referenti sociali, assumendo come orientamento prioritario per l’azione dei rappresentanti del partito nelle istituzioni locali la capacità di rispondere alle domande sociali, a partire dalle sollecitazioni che provengono dai conflitti e di favorire lo sviluppo di più estesi momenti di mobilitazione e di partecipazione popolare.


    Noi pensiamo che un partito comunista non si proclami, che non si riduca ad un simbolo o a un nome, ma si costruisca, come uno strumento al servizio dei lavoratori/trici e dei movimenti, nel vivo delle lotte contro il capitalismo e i suoi effetti in tutti i campi. C’è sempre più bisogno di una forza politica che diventi - prima possibile - la parte più avanzata del più vasto schieramento di resistenza e di opposizione al governo Berlusconi, ma che contemporaneamente si ponga in alternativa al Partito Democratico e alla logica bipolare/bipartitica dell’alternanza in cui si tenta di forzare la dialettica politica.



    Una grande forza comunista per rilanciare la sinistra e i movimenti


    Per poter ricostruire è necessario interrogarsi su cos’è rimasto a sinistra del Pd dopo la catastrofe elettorale. La disfatta della Sinistra Arcobaleno ha prodotto anche la sua frantumazione in direzioni diverse e opposte. Il Pdci ha manifestato la sua disponibilità a convergere in una costituente comunista con il Prc e tutti i comunisti disponibili. I Verdi appaiono divisi in tre tronconi, chi va verso il Pd, chi verso un nuovo soggetto ecologista da presentare alle prossime europee e amministrative, mentre solo un’esigua minoranza rimane legata all’ipotesi di soggetto-partito unico della sinistra. Sd è sempre più attratta dalle sirene del Pd e accentua la sua identità socialista e governista. Dopo la catastrofe, la parte della Sinistra Arcobaleno disponibile a trasformare questa coalizione elettorale in un nuovo soggetto politico o in una “federazione” è assolutamente minoritaria, quasi del tutto inesistente. Fuori dalla Sinistra Arcobaleno vi è lo Sdi, anch’esso sconfitto dalle urne e destinato ad essere assorbito dal Pd, due formazioni comuniste ed anticapitaliste, Pcl e Sinistra Critica, che assieme alle elezioni politiche hanno ottenuto l’1%, e un variegato e disperso arcipelago di forze e movimenti antagonisti.


    A sinistra del Pd, dopo la devastazione elettorale, ciò che è necessario e possibile fare è ricostruire due paralleli processi di ricomposizione unitaria. Il primo fra le forze che esplicitamente si richiamano al comunismo e al marxismo, per la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista ed anticapitalista che per dimensioni e coerenza possa essere credibile per ampi strati di lavoratori e lavoratrici. Questa è la condizione affinché si avvii, con qualche possibilità di successo, anche il secondo contemporaneo processo di ricomposizione, sulla base di lotte e contenuti comuni, di una sinistra anticapitalistica e di alternativa più ampia. Altrimenti il rischio è che dopo la drammatica sconfitta elettorale si determini un pericolosissimo processo centrifugo di disgregazione dei comunisti e della sinistra, in presenza di una destra pericolosa al governo e di un’opposizione parlamentare più disponibile che mai a mediare con Berlusconi.


    Sappiamo che la sinistra anticapitalista è più ampia dei soli comunisti e sappiamo che le forme concrete di impegno a sinistra vanno ben oltre quelle rappresentate dall’appartenenza ad un partito. Movimenti, reti, comitati, collettivi, associazioni, militanza sindacale, vertenze territoriali e ambientali: molti sono i modi in cui si fa politica oggi a sinistra. Pensiamo solo a cos’è il No Dal Molin a Vicenza o il No Tav in Val di Susa. Ma se non si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista, più forte e più grande di ciò che è l’attuale Rifondazione, con una massa critica sufficiente, in grado di stare nei movimenti e nelle lotte per costruire un blocco sociale antagonista e prospettare un progetto di società alternativa, il rischio è che queste realtà si disperdano e siano sconfitte. Non c’è bisogno di alcuna cessione di sovranità, com’è implicito nella proposta di “federazione”, ma della capacità di costruzione paziente dell’unità possibile di tutte le forze di volta in volta disponibili, sulla base di contenuti e di pratiche sociali condivise. Senza la presunzione di dettare la linea, ma senza neppure un atteggiamento subalterno.


    L’incertezza sul destino del Prc, culminata negli ultimi tempi nelle proposte di superamento o di limitazione della sua autonomia, proviene da un nodo mai sciolto. Rifondazione Comunista è fatta da un sostantivo e da un aggettivo. L’aggettivo “comunista” è stato spesso messo in secondo piano, nascosto, attenuato, dimenticato, e la rifondazione è diventata o fine a se stessa, oppure di altro. La domanda che questo Congresso, dopo una sconfitta così catastrofica, deve porsi è: si vuole rilanciare un partito comunista di massa o si vuole fare altro, e la rifondazione comunista si trasmuta in rifondazione della sinistra o “socialista”? E d’altro canto alla risposta bisogna che seguano i fatti. Non basta salvare l’involucro del Prc se poi gran parte delle intelligenze, delle energie e delle risorse si spostano nella costruzione di altri soggetti politici, come è già avvenuto prima con la Sinistra Europea e poi con la Sinistra Arcobaleno. Significherebbe, questo sì, difendere e mantenere in vita solo un nome e un simbolo, un feticcio, un involucro vuoto, in un processo di graduale estinzione dell’autonomia del partito e del suo carattere comunista.


    Di fronte ad una sconfitta e a una crisi di tali dimensioni non c’è dunque alternativa alla ripresa e al rilancio del progetto della rifondazione/ricostruzione di un grande partito comunista in Italia, con tutti coloro, singoli od organizzati che anche fuori dal Prc siano disponibili, pur con storie e sensibilità diverse, sulla base di una piattaforma politica e di una prospettiva strategica comune, com’era nel progetto originario del 1991, facendo tesoro delle luci e delle ombre di tutta la nostra esperienza. Una forza comunista, fortemente organizzata e radicata socialmente, pienamente autonoma sul piano politico e teorico, non nostalgica ma adeguata ai tempi, di classe ma anche interna ai movimenti pacifisti, ambientalisti, femministi, antirazzisti: questo è l’unico progetto in grado di non disperdere del tutto il nostro patrimonio, di rigenerare entusiasmo e rimotivare migliaia di compagne e compagni, e contemporaneamente di unire e mobilitare la sinistra anticapitalista e di alternativa, di costruire l’opposizione a Berlusconi e di rilanciare i movimenti e la lotta di classe. Sappiamo che il lavoro di ricostruzione è arduo e di lunga lena, ma sia la manifestazione del 9 giugno contro Bush promossa da un vasto arco di soggetti politici e sociali, sia la manifestazione del 20 ottobre, il milione di persone in piazza sotto la marea di bandiere rosse, promossa dai due maggiori partiti comunisti e da altre forze della sinistra alternativa e di classe, sono esperienze che ci dicono che possiamo farcela.




    La centralità della questione sociale e dei/delle lavoratori/trici


    Il risultato delle elezioni del 13 e 14 aprile precipita su una condizione sociale del Paese già drammatica, con un declino produttivo sempre più inquietante ed una crisi economica internazionale alle porte. Con una destra saldamente al governo e con un’opposizione parlamentare costituita dal solo Pd che su molti temi potrebbe avere posizioni persino più liberiste di Tremonti, con un gruppo dirigente sindacale in ginocchio, è fin troppo facile capire che sui lavoratori/trici si scaricherà una pressione pesantissima. E’ necessario essere consapevoli che si preparano tempi molto duri.


    Mentre le ricchezze aumentano e si concentrano in poche mani, dilagano bassi salari, lavoro nero, precarietà. Quest’ultima in particolare è il segno distintivo della nostra società: precarietà del lavoro e precarietà della vita. La povertà aumenta e coinvolge sempre di più strati di lavoro dipendente. Ma anche settori consistenti di ceto medio scivolano dentro un rapido processo di proletarizzazione. Il caro casa è uno dei problemi sociali più rilevanti ed esplosivi per milioni di persone. Cresce lo sfruttamento del lavoro, aumentano orari, turni, flessibilità, incidenti sul lavoro e malattie professionali; il welfare viene drasticamente tagliato e privatizzato; aumenta l’età pensionabile e persino il Tfr viene esposto alle incognite della Borsa. Tutto ciò si verifica in un processo di sfondamento delle logiche di mercato, di americanizzazione della società e con la collaborazione concertativa di Cgil, Cisl e Uil.

    Su queste basi e con un contesto economico in rapido peggioramento, la rotta del governo è in qualche misura già tracciata. Berlusconi parla chiaramente di “misure impopolari” e la grande borghesia si prepara a incassare. Commentando l’esito elettorale, Montezemolo ha inoltre salutato con sincero entusiasmo “la netta sconfitta delle forze politiche portatrici di una cultura anti-impresa, anti-mercato e anti-sviluppo”.


    Il rilancio della rifondazione/ricostruzione unitaria di una forza comunista passa oggi dalla centralità della questione sociale, dalla difesa coerente e dal rilancio del movimento dei lavoratori/trici nel suo complesso (lavoratori/trici garantiti, precari, immigrati, disoccupati, piccoli artigiani). Centralità della questione salariale (una nuova scala mobile), lotta contro la disoccupazione e la precarietà, difesa del contratto nazionale, lotta contro il crescente sfruttamento dei lavoratori/trici e contro le morti bianche, unità fra lavoratori/trici del nord e del sud, italiani e immigrati, difesa e rilancio della previdenza, sanità e scuola pubbliche, lotta contro le privatizzazioni e rilancio dell’intervento pubblico in economia, a partire dalla ripubblicizzazione delle grandi aziende di interesse pubblico regalate dai governi di centrodestra e di centrosinistra a grandi gruppi privati (vedi la Telecom): sono questi i contenuti principali da porre al centro dell’attenzione e delle lotte.

    Per un sindacato di lotta e di massa


    Nel bilancio complessivo degli errori passati rientra la scelta del gruppo dirigente del Prc di non avere una politica sindacale autonoma nella Cgil come nel sindacalismo di base, e di avere lasciato gli iscritti in balia di se stessi, rifiutandosi di promuovere una discussione tra i militanti sindacali iscritti al partito e di dare loro strumenti di conoscenza e di discussione per elaborare un indirizzo comune di intervento. Durante la fase di governo, il Prc ha individuato il sindacato come una sorta di supplente della politica a cui delegare le scelte in materia di politiche sociali, con una linea subalterna alla Cgil (vedi l’imbarazzata posizione assunta sul Welfare, sul Tfr, sul recente accordo in tema di riforma dei contratti, siglato in piena continuità con i famigerati accordi concertativi del luglio ’92 e ’93). Il che ha significato, da una parte, non contrastare la logica concertativa dei gruppi dirigenti confederali, dall’altra lasciare spesso privi di sostegno i settori più avanzati del sindacato (vedi la Fiom nel referendum sul Welfare, nella vertenza contrattuale o contro la quotazione in Borsa di Fincantieri). Molto grave e significativa della perdita di autonomia del partito rispetto alla Cgil è stato il rifiuto di promuovere la campagna nei luoghi di lavoro per il No nel referendum sulle pensioni. L’operazione Arcobaleno ha contribuito ad aumentare l’isolamento dei nostri compagni e della sinistra sindacale, perché ha individuato i propri principali interlocutori tra gli esponenti della maggioranza della Cgil, da sempre acerrimi avversari della sinistra sindacale e del sindacalismo alternativo e artefici del tentativo di “normalizzazione” in atto da alcuni mesi ai danni dei settori più avanzati della Cgil, a partire dalla Fiom .


    L’ipotesi uscita dall’ultimo congresso della Cgil, cioè quella di un governo amico, su cui una Cgil finalmente unita avrebbe potuto esercitare un ruolo di pressione, si è rivelata perdente. Così la Cgil, dicendo sì al Protocollo sul Welfare, ha smentito le manifestazioni del 2002 sull’articolo 18 e oggi risulta schiacciata dalla Cisl che invece esce vincitrice dai due anni di Prodi e si accredita come il principale interlocutore del Governo Berlusconi. In questo quadro l’ipotesi di costituzione di una componente Arcobaleno dentro la Cgil indebolirebbe ulteriormente la sinistra Cgil favorendo i disegni del Pd, lasciando migliaia di delegati e dirigenti sindacali e milioni di lavoratori/trici completamente esposti alle minacce della nuova fase. Anche qui dunque bisogna procedere semmai nella direzione opposta, favorendo una crescita e un coordinamento delle componenti e dei settori più avanzati della Cgil (Lavoro Società, Rete 28 Aprile, Fiom). Va inoltre favorito analogo processo nell’ambito del sindacalismo di base. E’ sempre più necessario promuovere l’unità d’azione fra le diverse componenti del sindacalismo conflittuale, dentro e fuori la Cgil, per favorire una prospettiva di rinascita di un grande sindacato di lotta e di classe, riferimento credibile per lavoratori e lavoratrici di tutte le categorie, collegato con sindacati di classe e movimenti sociali di altri paesi del mondo, a partire dall’Unione europea. In questa direzione dovrà muoversi il nostro partito, costituendo coordinamenti di comuniste e comunisti attivi nelle diverse organizzazioni sindacali.



    La contraddizione ambientale: socialismo o barbarie.


    La rifondazione/ricostruzione di un forte partito comunista passa anche dalla piena comprensione della drammaticità assunta dalla contraddizione ambientale. Previsioni giudicate avveniristiche si stanno realizzando. La devastazione ambientale è figlia del capitalismo, fondato sulla ricerca del massimo profitto dallo sfruttamento dei lavoratori e delle risorse naturali. Il sistema capitalistico fonda la sua stessa esistenza sulla crescita esponenziale della produzione senza dare peso alle conseguenze sociali, così come alle conseguenze in tema di consumo delle risorse naturali e di inquinamento dell’ambiente.

    Poche multinazionali dei paesi imperialisti dettano l’agenda non solo in materia economica e sociale ma anche in materia di ambiente e uso delle risorse. Il capitalismo tende a polarizzare le ricchezze, ad accrescere la forbice fra paesi ricchi e paesi poveri, riproducendo e moltiplicando problemi che si sperava potessero scomparire (la fame endemica, alcune malattie, ecc.), dando vita ad una migrazione biblica crescente anche a causa delle ormai evidenti modificazioni climatiche (desertificazione, distruzione dell’agricoltura tradizionale).

    E’ di drammatica attualità la crisi alimentare che travolge interi paesi poveri con l’aumento vertiginoso dei prezzi dei cereali, mentre calano le scorte mondiali. Anche l’uso di agrocombustibili per abbattere i gas climalteranti sta peggiorando le condizioni alimentari complessive: ancora una volta la logica del capitalismo, per la sua stessa necessità di profitti a breve termine, entra in radicale contraddizione con l’equilibrio climatico del pianeta. Per non parlare dei pericoli per lo stesso futuro del pianeta e dell’umanità della proliferazione di armi nucleari e della corsa poderosa al riarmo atomico prodotta dalla politica dell’imperialismo americano. Senza la proprietà pubblica e il controllo sociale dei beni comuni il pianeta rischia l’autodistruzione. L’alternativa Socialismo o barbarie torna quindi a proporre la propria attualità in termini drammatici. Sempre di più, anche dalla questione ambientale, riemerge la necessità di una alternativa globale al capitalismo, di “un altro mondo possibile”, di prospettare una società che risponda ai bisogni dei cittadini e non alle esigenze del profitto, basata sulla socializzazione dei principali mezzi di produzione, integralmente democratica e socialista, rispettosa della natura e delle differenze di genere.



    La presenza e l’intervento nei movimenti


    Un forte partito comunista e una sinistra anticapitalista ampia non si costruiscono nei convegni ma sulla base di una piattaforma politica e nel vivo di un conflitto sociale che tornerà a esplodere. Sono due strumenti per realizzare una politica, non due fini. Ciò che infatti distingue la nostra dalle tante proposte ascoltate in questi mesi nel Prc – soggetto unitario e plurale, federazione, costituente della sinistra – è che cerchiamo di costruire un’analisi del capitalismo italiano (e internazionale), di individuare una piattaforma politica e alcuni obiettivi concreti e di cercare la soluzione organizzativa più adatta a perseguirli.


    La borghesia italiana oggi gioca la carta del bipartitismo Pdl-Pd proprio per affrontare l’impatto della crisi capitalistica internazionale cercando di contenere lo scontro sociale. Per questo la cancellazione della sinistra dal Parlamento viene festeggiata dalla nuova dirigenza di Confindustria, ma allo stesso tempo preoccupa alcuni tra i più acuti esponenti delle classi dominanti, timorosi del venir meno di un ammortizzatore istituzionale della lotta di classe e più in generale del conflitto sociale. Per difendere rendite e profitti dalla tempesta economica a governo e opposizione parlamentare verranno richieste:

    - politiche sociali che scarichino il peso della crisi in misura ancora maggiore che nel passato sulle spalle dei lavoratori/trici e delle fasce inferiori del ceto medio (riforma del modello contrattuale, privatizzazioni e liberalizzazioni, ulteriore riduzione della spesa pubblica);

    - investimenti infrastrutturali a favore del grande capitale (alta velocità, energia, ecc.);

    - una politica estera sempre più aggressiva e proiettata verso paesi in grado di fornire materie prime e forza lavoro a basso costo.


    Ma questi interventi potrebbero determinare l’insorgere e l’acuirsi delle contraddizioni sociali e rappresenteranno un’opportunità di rilancio per i movimenti che già sono stati protagonisti in questi anni (Alta Velocità, Vicenza, ecc.) e per l’insorgere di nuovi movimenti. Ciò costituisce un’occasione di rilancio del movimento comunista e della sinistra anticapitalista nel nostro Paese, purché siamo in grado di recuperare le relazioni perse in due anni di governo e di costruire un nuovo metodo di relazione coi movimenti. Praticare l’internità ai movimenti non significa rinunciare all’autonomia dei comunisti, a portare una propria posizione dentro il loro dibattito e ridursi ad essere solamente un riferimento istituzionale. Una volta giunti al governo il patrimonio di credibilità che avevamo accumulato negli anni precedenti è stato dilapidato rapidamente, i nostri rapporti coi compagni di strada incontrati dal 2001 in poi si sono deteriorati e caricati di tensioni. L’unico modo di recuperare credibilità è prendere atto pubblicamente degli errori commessi e capovolgere il proprio metodo di intervento. I nostri compagni devono intervenire nei movimenti di lotta aiutando a promuoverli, a dare loro un’organizzazione, contribuendo al dibattito politico interno con il proprio punto di vista. Deve ritornare prioritario far capire ai nostri iscritti che un comunista è chiamato a rispondere in prima persona ai propri bisogni di lavoratore, di studente, di cittadino, attivandosi politicamente nel proprio posto di lavoro, nella propria scuola, nel proprio quartiere. In una fase di estrema frammentazione delle lotte, in cui il conflitto tende a svilupparsi prevalentemente in una dimensione di difesa del territorio e dei bisogni locali (compresi gli stessi bisogni sociali) è fondamentale inoltre che un partito comunista si ponga il problema di un coordinamento delle lotte e di elaborare una proposta politica in grado di portare a sintesi le differenti istanze che emergono dalle tante e variegate vertenze che si sviluppano nei territori. Da questo punto di vista è fondamentale la capacità di ricondurre le tante contraddizioni presenti nella nostra società a quella, centrale, tra capitale e lavoro, avendo presente, pur senza schematismi, che i lavoratori/trici sono il pilastro per la costruzione di un blocco sociale in grado di affrontare quelle contraddizioni e che quindi è fondamentale costruire il proprio intervento politico a partire dai luoghi di lavoro. La lotta contro la base Dal Molin, contro la Tav e per il rafforzamento delle reti ferroviarie metropolitane e dei pendolari, contro gli inceneritori non rappresentano semplicemente movimenti a difesa del territorio ma la critica di un modello di sviluppo capitalistico globale, fondato sullo sfruttamento dei lavoratori, in cui la guerra, la devastazione dell’ambiente, i danni alla salute, lo spreco di risorse, lo stravolgimento speculativo di intere aree metropolitane, la precarietà si congiungono e si completano come tessere di un unico mosaico e sottolineano l’esigenza di un modello alternativo di gestione del potere, anche attraverso la costruzione di nuove forme e istituti di partecipazione popolare.


    Come i movimenti delle donne ci hanno mostrato lungo tutto il ‘900 e ancora oggi, la contraddizione di genere attraversa la contraddizione principale di classe e tutte le altre contraddizioni della società capitalistica. Per questo è necessario sviluppare la critica femminista alle strutture e alla cultura del patriarcato, che permangono e sostengono la società capitalistica, nella consapevolezza che nel nostro tempo la lotta per il socialismo e il comunismo può ritrovare la sua carica originaria di liberazione integrale solo se è capace di assumere dentro il proprio orizzonte anche le problematiche poste dal movimento femminista. Risulta fondamentale approfondire l’analisi del nesso produzione/riproduzione. La gestione della riproduzione è parte essenziale della divisione sessuale del lavoro. Il lavoro di cura e ri-produzione continua a non trovare riconoscimento e ad essere compiuto quasi esclusivamente dalle donne: massa di lavoro non retribuito che le donne continuano a svolgere nelle famiglie o che viene esternalizzato alle donne immigrate. Attività di cura e lavoro domestico non pagato costituiscono una stampella importante per la sostenibilità del sistema.



    La guerra e l’imperialismo


    L’altro grande tema su cui rilanciare l’iniziativa del partito, della sinistra alternativa e dei movimenti è quello della lotta contro la guerra. Le nuove minacce che gravano a livello internazionale fanno della questione della pace uno dei terreni prioritari di intervento e di mobilitazione di massa. Il principale ostacolo al movimento per la liberazione dei popoli e alla lotta mondiale per il socialismo deriva oggi dal predominio economico, politico e militare delle grandi potenze imperialiste, in primo luogo gli Usa. Indebolire questo predominio e la politica di guerra su cui si regge è la condizione primaria (certo non l’unica) per consentire alle lotte dei popoli e all’umanità intera di aprirsi la via verso la pace e trasformazioni di tipo socialista. Da qui deriva non solo il valore in sé del movimento contro la guerra, contro il riarmo, contro la Nato, contro la presenza di armi nucleari e basi militari straniere sul territorio nazionale, ma anche la sua connessione con la questione sociale e con la lotta per il socialismo e il comunismo.

    Il contesto mondiale agli inizi del XXI secolo è fortemente dinamico. La Storia non si è fermata dopo la crisi del 1989. E se è vero che nei paesi a capitalismo sviluppato, dove si concentra ancora buona parte della ricchezza mondiale, le spinte moderate e di destra sono oggi prevalenti, nella gran parte dei paesi e delle regioni del pianeta cresce l’insofferenza per un mondo unipolare a egemonia americana che sembrava prevalere dopo il crollo dell’Urss. Si calcola che tra alcuni decenni l’incidenza economica complessiva di paesi emergenti come India, Russia, Cina, Brasile, Sudafrica potrebbe eguagliare e poi superare quella di Usa, Ue, Giappone. Per non parlare dell’importanza del processo di liberazione dal giogo imperialistico in corso in America Latina, nel “cortile” di casa degli Usa.



    Gli Stati Uniti, di fronte alla propria crisi economica, a un debito estero che è il maggiore del mondo, all’emergere di nuove potenze che ne minacciano il primato mondiale; di fronte all’emergere di un mondo multipolare in cui più forti si fanno le spinte verso processi di emancipazione e di liberazione di interi popoli e continenti, percepiscono il rischio di un declino della loro egemonia planetaria. E scelgono la via della guerra, del riarmo e del primato militare per tentare di vincere con le armi quella competizione che stanno perdendo in campo economico. Da qui nascono le guerre dell’ultimo ventennio: Yugoslavia, primo e secondo conflitto in Iraq, Afghanistan, Libano. Da qui le ricorrenti minacce di guerra all’Iran e in altre zone calde del mondo, quelle all’indipendenza e alla sovranità di paesi come Cuba e Venezuela; le politiche di riarmo nucleare, convenzionale, spaziale; infine il sostegno alla politica aggressiva di Israele in Medio Oriente. E allo stesso tempo di qui germinano politiche economiche che aumentano gli squilibri nei Paesi in via di sviluppo, dove vive la grande maggioranza della popolazione del pianeta, stimolano le delocalizzazioni produttive nei paesi a basso costo del lavoro e l’immigrazione di lavoratori/trici nei paesi industrializzati, in una logica di competitività tra poveri che alimenta risposte difensive tra i lavoratori e li espone all’influenza di partiti interclassisti e reazionari come la Lega.



    Grazie al movimento mondiale contro la guerra e all’opposizione di un vasto schieramento internazionale (ivi compresa una parte dell’opinione pubblica Usa), la politica di Bush manifesta segni di crisi. A ciò ha contribuito in maniera importante la capacità di resistenza del popolo irakeno contro l’occupazione militare (così come quelle del popolo palestinese e del popolo libanese contro l’aggressione israeliana), che ha tenuto impantanato sul terreno il potentissimo esercito americano non consentendogli la vittoria. Proprio la resistenza di questi popoli all’aggressione violenta dell’imperialismo ripropone la validità del diritto democratico alla resistenza. E pertanto è necessario sviluppare concrete iniziative di solidarietà con quei popoli come avvenne – sia pure in un contesto molto diverso – durante la guerra del Vietnam, pur in un quadro di autonomia politica dalle forze reazionarie che agiscono talvolta nell’ambito di quei movimenti di resistenza.



    L’Italia e la Ue subalterne all’alleanza con gli Usa



    Vi sono molte buone ragioni per criticare la politica italiana di questi anni in materia di pace e di guerra: la guerra in Afghanistan, l’ampliamento della base militare di Vicenza, l’accordo di cooperazione militare con Israele, l’accordo di cooperazione per lo scudo spaziale (avallato da Prodi senza neppure passare al vaglio del Parlamento e dello stesso Consiglio dei Ministri), la politica nei confronti del Kossovo, il sostegno alla Nato e alla sua politica di espansione ad Est. E sulla politica internazionale è prevedibile che il nuovo governo Berlusconi – in un contesto presumibilmente bipartisan – peggiorerà ulteriormente le cose. Come già si vede in Libano, dove la presenza del contingente italiano rischia di essere definitivamente trasformata in forza apertamente filo-israeliana e ostile alla resistenza libanese. Mentre in Italia si afferma un clima culturale bipartisan per cui ogni iniziativa di boicottaggio della politica israeliana viene immediatamente tacciata di “antisemitismo”. In particolare la decisione di accettare l’ampliamento della base di Vicenza è stata particolarmente grave, rivelando – al dunque – una sostanziale continuità tra centro-destra e centro-sinistra, nel quadro di una politica estera piegata alle esigenze strategiche dell’alleanza con gli Usa.

    Perciò da qui può e deve ripartire il movimento contro la guerra nel nostro paese, con il pieno appoggio al movimento No-Dal Molin, per un rilancio complessivo di tutto il movimento contro le basi militari straniere e la presenza di armi nucleari in Italia, per rimettere in discussione la presenza della Nato in Italia, per il ritiro dei contingenti militari italiani coinvolti in scenari di guerra, per la riduzione delle spese militari.



    E’ stato un errore illudersi, come si ipotizzò al Congresso di Venezia, che i segni di crisi della politica di Bush potessero indurre settori della borghesia italiana ed europea a collocarsi su un terreno più avanzato, disponibili e “permeabili” ad un ridimensionamento del loro approccio liberista e filoamericano. Al contrario, la crisi dell’oltranzismo della presidenza Bush, la possibile ascesa di un candidato “democratico” alla presidenza Usa, la vittoria di Sarkozy in Francia e di Berlusconi in Italia, la politica di grande coalizione in Germania, rafforzano i presupposti di una ritrovata solidarietà tra Usa e Ue. Ciò non cancella i fattori durevoli di competizione economica tra i due principali poli del capitalismo mondiale, ma certamente elimina un certo europeismo superficiale e acritico, in voga anche in alcuni settori della sinistra europea, che fino a pochi anni fa scommetteva sull’Unione Europea come forza portatrice nel breve-medio periodo di potenzialità progressive sullo scenario mondiale e continentale e polemizzava con l’ ”euroscetticismo di sinistra”. Oggi quelle tesi vengono cancellate dallo sviluppo degli eventi e ciò che emerge è una UE che va sempre più a destra, e una social-liberal-democrazia europea (in Italia il Pd) che a quelle tendenze più o meno prontamente si adegua. Ciò trova conferma anche nella scelta recente dei principali governi dell’Unione Europea che, ignorando la bocciatura della Costituzione europea in Francia e Olanda, ripropongono un nuovo Trattato Ue che ne ricalca i tratti essenziali (neo-liberisti ed euro-atlantici), rifiutandosi peraltro di sottoporlo al responso di referendum popolari. In ogni caso unilateralismo o multilateralismo Usa-Ue restano oggettivamente variabili interne allo scontro intercapitalistico tra opzioni “democratiche” o “conservatrici”, volte a comporre le contraddizioni del capitalismo globalizzato. Per questo va rilanciata la lotta coordinata con altre forze europee contro la Costituzione europea e le politiche liberiste e antidemocratiche della Ue. I comunisti devono elaborare una proposta politica che sia in grado di inquadrare le lotte dei lavoratori/trici e dei movimenti contro la guerra e il neoliberismo che si sviluppano a livello nazionale, nel contesto mondiale, lavorando sul terreno delle relazioni internazionali e delle alleanze, per sviluppare iniziative di lotta coordinate.



    Del resto, nella nostra lotta non siamo soli, in Europa e nel mondo. Partiti e movimenti di ispirazione comunista e anticapitalista - con basi di massa - operano in Paesi in cui vivono oltre i 2/3 della popolazione mondiale, in ogni continente. Sappiamo che il fronte mondiale di lotta contro la guerra, contro l’imperialismo e il neoliberismo, “per un altro mondo possibile”, è uno schieramento plurale, attraversato da grandi diversità politiche, ideologiche, religiose, storiche e culturali. Pur tutelando nostra autonomia, operiamo nel contesto europeo e mondiale con una filosofia volta alla costruzione delle più larghe convergenze, su obiettivi comuni e condivisi, senza pregiudiziali ideologiche. In questo quadro auspichiamo il massimo di unità e convergenze possibili innanzitutto tra i comunisti e con le forze della sinistra anticapitalista e di classe che nella lotta contro le politiche neoliberiste e di guerra, contro il capitalismo e l’imperialismo, tengono aperta la prospettiva storica più generale della costruzione di una società di ispirazione socialista, alternativa al capitalismo. Anche per questo non è più eludibile l’esigenza di un nuovo internazionalismo, aprendo il confronto, l’elaborazione strategica e l’impegno per ricostruire un coordinamento delle lotte contro la guerra e il neoliberismo, contro il capitalismo e l’imperialismo.

    Una piattaforma di opposizione a tutte le politiche neoliberiste e di guerra


    Un grande partito comunista e una sinistra anticapitalista larga si costruiscono in primo luogo elaborando campagne politiche e sociali in grado tradurre in lotte e rivendicazioni pratiche, comprensibili per i ceti popolari, le considerazioni fin qui svolte. Da subito e concluso il congresso nazionale, è necessario praticare l’opposizione al governo delle destre con una precisa piattaforma di lotta che preveda:


    Nei posti di lavoro: una campagna che chieda aumenti salariali e un rilancio della previdenza pubblica, a scapito dei profitti e delle rendite e non della spesa sociale; che dica no allo svuotamento del contratto nazionale voluto da Confindustria e anticipato dal recente accordo tra Cgil Cisl Uil; che rivendichi un intervento severo contro le morti bianche e a tutela della sicurezza sul lavoro, il rafforzamento del ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza e l’incremento dei ruoli ispettivi; che punti a una significativa riduzione del lavoro precario; che miri a bloccare le privatizzazioni e le esternalizzazioni, a rilanciare l’intervento pubblico (a partire dalla difesa dei beni comuni) e il controllo dei lavoratori/trici sull’organizzazione del lavoro, sulla contrattazione, sulle politiche aziendali e sui diritti democratici di rappresentanza, sugli strumenti di sostegno dell’occupazione e dei percorsi professionali femminili.


    Sui territori e nei quartieri: un intervento nei movimenti, a partire da Vicenza e dalla Val di Susa, che sappia legare la difesa dell’ambiente al controllo sulla produzione e sulle politiche economiche (vedi la questione rifiuti) e alla lotta contro la guerra; che dica no alle privatizzazioni e a infrastrutture inutili e costosissime ad esclusivo beneficio delle imprese, allo smantellamento dei servizi e dei presidi pubblici attuato in questi anni da governi nazionali e locali, a partire dalla sanità, dai servizi sociali e da quelli educativi; che sottolinei la necessità di un controllo sui prezzi e sulle tariffe per risolvere il problema “della quarta settimana” e del diritto alla casa come diritto ad una vita dignitosa per tutte le persone.


    Tra i giovani: un impegno per difendere l’istruzione come un bene sociale collettivo, contro una scuola ed una università di classe, la mercificazione della cultura e della socialità; contro la precarietà e per la difesa del diritto al lavoro e alla casa dall’arroganza di imprese e gruppi bancari; contro le discriminazioni legate all’orientamento sessuale, il moralismo borghese e il riaffacciarsi di interventi contro il diritto all’autodeterminazione delle donne a partire dalla 194; difendendo i diritti civili, non in contrapposizione a quelli sociali ma cogliendone il nesso intrinseco.


    Tra i migranti: affermazione dei diritti di cittadinanza e della pari dignità degli immigrati con un approccio di classe (fondato sull’unità tra lavoratori/trici autoctoni e stranieri), che superi una logica meramente caritatevole; rispettando le provenienze, ma senza cedimenti a culture e pratiche oppressive, in una prospettiva di emancipazione da esse; per gli italiani all’estero, una politica concreta diretta al loro pieno riconoscimento come cittadini italiani all’insegna dell’identità, sostenendo il potenziamento delle reti consolari, dell’associazionismo, dei mezzi di informazione e comunicazione.


    Nella società: una lotta senza se e senza ma contro la guerra e l’imperialismo occidentale e a sostegno dei popoli oppressi; contro l’aumento della spesa militare a danno di quella sociale; contro ogni supporto alla costruzione di un polo imperialistico europeo “progressista” in alternativa agli Usa, di cui le politiche economiche e sociali della Ue rappresentano uno degli aspetti; contro tutti gli effetti della globalizzazione capitalistica: guerra, povertà, malattia, global warming e devastazione ambientale, sfruttamento e concorrenza tra lavoratori, mercificazione dei corpi. E’ necessario, inoltre, riprendere la battaglia culturale per reintrodurre il sistema proporzionale (senza soglie di sbarramento) e rilanciare la Costituzione contro le “riforme costituzionali” bipartisan che Pdl e Pd annunciano per stabilizzare il bipartitismo maggioritario e presidenzialista all’americana e per introdurre il federalismo leghista. Altresì occorre arginare il dilagante revisionismo storico che ormai non tocca più solo la Resistenza (con l’equiparazione fra i partigiani e i cosiddetti “ragazzi di Salò”), ma anche il ’68, il femminismo ed ogni movimento di emancipazione e liberazione del ‘900. E’ indispensabile il rilancio dell’antifascismo non come un glorioso retaggio del passato ma come battaglia politica e sociale per affermare l’attualità dei suoi valori in tutti i campi, dal ripudio della guerra alla difesa della libertà e dei diritti dei lavoratori.


    L’organizzazione del partito e il suo insediamento sociale


    Un partito capace di costruire organizzazione e iniziativa sociale deve però rivedere le sue stesse modalità di funzionamento interno, rivelatesi profondamente inadeguate e non da ora. La sconfitta della Sinistra Arcobaleno, i rischi di demoralizzazione e di riflusso che essa porta con sé, si collocano sullo sfondo di una crisi profonda che da tempo cova nel partito. In contrasto con le stesse indicazioni scaturite dalla Conferenza di organizzazione di Carrara, la situazione ha continuato ad essere caratterizzata da una crisi di militanza, da un forte calo dell’iniziativa sociale e del radicamento, in particolare nei luoghi di lavoro, da una tendenza all’appiattimento istituzionale, di adattamento alle logiche della governabilità e da fenomeni di burocratizzazione e di leaderismo, di separatezza e di autoreferenzialità dei gruppi dirigenti.

    Gli iscritti continuano a calare e il turnover ha ormai superato la cifra astronomica di mezzo milione. Il che, su un partito di circa 90.000 iscritti, segnala un indice preoccupante di instabilità politica, organizzativa, ideologica. Gran parte dei circoli territoriali esiste solo sulla carta o vive in condizioni di coma profondo; persino molte Federazioni si trovano in grande difficoltà, abbandonate a se stesse, senza risorse economiche in grado di assicurare la loro sopravvivenza. E questo è avvenuto nonostante le enormi risorse derivanti dal finanziamento pubblico, che sono state destinate in gran parte a potenziare l’apparato e la struttura centrale del partito.

    Tutto ciò si è accompagnato a un forte deficit di democrazia, con l’insorgere di preoccupanti fenomeni di autoritarismo e di risposta burocratica all’emergere del dissenso, considerato non di rado come elemento di disturbo da tenere sotto controllo ed emarginare: una sorta di incapacità di vivere la dialettica interna come ricchezza e opportunità per tutto il partito. Un partito comunista in realtà presuppone una gestione collegiale e pluralista. Tutti hanno diritto di concorrere all’elaborazione, alla gestione e alla verifica della linea del Partito e alla sua direzione politica.

    Questo tipo di involuzione è stata complementare e funzionale al processo di snaturamento dell’identità e del carattere comunista del partito, al prevalere di una concezione di “partito leggero” che ne ha enfatizzato la vocazione meramente elettoralistica e istituzionalista, con tutte le implicazioni negative conseguenti (a partire dalla costituzione in alcuni casi di comitati elettorali a sostegno di questa o di quella candidatura), specie nel momento in cui l’opzione di governo è diventata pervasiva.


    La sconfitta del 13 e 14 aprile deve costituire uno spartiacque anche in tema di organizzazione del Partito. Serve una radicale discontinuità. E’ necessario formare gruppi dirigenti selezionati sulla base delle competenze, dell’esperienza, dell’impegno nei luoghi di lavoro e nei movimenti di lotta, non in base alla fedeltà a chi dirige il Partito. Va contrastato il cumulo di cariche e di incarichi, favorendo la distribuzione e la rotazione delle cariche. La dimensione istituzionale va considerata un terreno di impegno, non quello preferenziale. I privilegi legati alla collocazione politica e istituzionale, presenti anche nel Prc, vanno combattuti, a partire da un intervento sulle retribuzioni di esponenti istituzionali e funzionari di Partito, in nome di un’effettiva “alterità” dei comunisti rispetto alle consuetudini da “casta” che caratterizzano in generale il mondo della politica. In questo senso una riflessione specifica andrebbe aperta anche sull’utilizzo del funzionariato, in termini di verifica e di rotazione. La pratica del governismo e l’attenzione esasperata alle vicende istituzionali e amministrative, anche a livello locale, ha costituito la base per l’involuzione degenerativa del partito, per alimentare il distacco fra il ceto politico-istituzionale formatosi anche nel Prc e la base militante. Per cambiare radicalmente questa situazione, al centro della discussione e dell’azione del partito va rimesso l’intervento nella lotta di classe, nei luoghi di lavoro, nel sindacato, nelle scuole e nelle università, nei movimenti e nei quartieri popolari. Il partito comunista che vogliamo rifondare dovrà riorganizzarsi nel radicamento nei posti di lavoro e in tutti i luoghi del conflitto sociale, attraverso il rafforzamento dei circoli esistenti e la costruzione di nuovi circoli e collettivi che sappiano diventare riferimento avanzato di tutti i soggetti vittime delle contraddizioni del capitalismo.


    In particolare, nelle grandi città e nelle realtà metropolitane (con particolare attenzione ai grandi insediamenti popolari), che sono i luoghi dove si sviluppano le grandi e stridenti contraddizioni sociali del capitalismo e che sono destinate a produrre i principali movimenti di lotta e di opinione in grado di trascinare il conflitto sociale su tutto il territorio nazionale, bisogna concentrare lo sforzo organizzativo per dotare il partito di nuovi strumenti forti, efficaci, di elaborazione e di azione. Un forte impegno dovrà essere sviluppato per rilanciare e ricostruire le strutture di partito tra la nostra emigrazione in Europa e nel mondo, anche per l’importanza internazionalista di queste esperienze di lotta a fianco di altri partiti e movimenti comunisti e di sinistra alternativa.


    La crescita e la formazione politica e culturale dei militanti – specie di quelli più giovani – è per il Partito un patrimonio di primaria importanza, carico di futuro. L’elaborazione di una politica culturale, l’intervento tra gli intellettuali (e i lavoratori/trici intellettuali), che rappresenta uno dei tanti terreni abbandonati dalla sinistra e dai comunisti in questi anni, è uno strumento di egemonia e di contrapposizione ai “valori” del capitalismo che non può essere abbandonato al Pd né tanto meno alla destra. L’innalzamento del livello culturale e politico di tutto il partito può inoltre contribuire, assai più delle esortazioni, a potenziare la sua democrazia interna (“l’informazione è potere”) e a superare logiche interne di appartenenza, legate spesso più a vecchie esperienze e collocazioni che non a un confronto di merito sulle problematiche del presente, che ha bisogno invece di una dialettica libera e non cristallizzata. La destra è oggi vincente anche perché sa colmare, proponendosi come una forza d’ordine e decisionista, il vuoto prodotto dalle debolezze, politiche e culturali, della sinistra. Occorre rispondere alla sua protervia conservatrice e reazionaria attraverso la ricostruzione di un pensiero forte, fondato sull’attualizzazione del marxismo alle contraddizioni del mondo di oggi. Occorre investire soprattutto nell’opera di formazione culturale e politica di giovani, donne e lavoratori, senza di che ogni discorso (o regola) sul superamento delle discriminazioni di classe e di genere e sul rafforzamento della presenza femminile, giovanile e operaia nella vita del partito è destinato a rimanere sostanzialmente lettera morta.


    Insomma un partito comunista, fortemente organizzato e radicato nella società, nel mondo del lavoro, nei movimenti di lotta, oggi è ancora uno strumento indispensabile per combattere il sistema capitalistico e gli effetti devastanti ed anche inediti che esso dispiega in ogni campo e in ogni articolazione della nostra società.

  2. #2
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    vorrei evidenziare un passaggio importante, questo

    Ma è del tutto evidente che, tanto più dopo una sconfitta elettorale di queste proporzioni, salvare Rifondazione Comunista non è in sé sufficiente. Si salva ciò che resta del patrimonio importante del Prc, di militanza, di esperienze e di capacità di costruire lotte e movimenti, solo se si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un più forte partito comunista con basi di massa, nel quadro di un più ampio processo di unità della sinistra anticapitalista. La rifondazione/ricostruzione di un partito comunista deve anche porsi l’obiettivo di superare la diaspora comunista, riaggregando le tante forze interessate, ma ancora disperse, con un percorso che metta al centro i contenuti, le pratiche sociali comuni, una critica al governismo e un progetto di chiara alternativa al Pd, condizioni indispensabili per garantire uno sbocco positivo a questo processo. Un partito comunista è necessario, anche se non sufficiente, per riaprire una nuova stagione dei movimenti e del conflitto sociale, per costruire una lunga fase di lotta e di opposizione (vera, non “costruttiva”) a tutte le politiche neoliberiste e di guerra, sia che vengano dalla destra sia che vengano dal Pd. Il che significa anche promuovere nel partito una verifica rigorosa della nostra partecipazione alle giunte locali, che in futuro non potrà più essere una regola, in relazione ai contenuti programmatici e ai nostri referenti sociali, assumendo come orientamento prioritario per l’azione dei rappresentanti del partito nelle istituzioni locali la capacità di rispondere alle domande sociali, a partire dalle sollecitazioni che provengono dai conflitti e di favorire lo sviluppo di più estesi momenti di mobilitazione e di partecipazione popolare.


    Noi pensiamo che un partito comunista non si proclami, che non si riduca ad un simbolo o a un nome, ma si costruisca, come uno strumento al servizio dei lavoratori/trici e dei movimenti, nel vivo delle lotte contro il capitalismo e i suoi effetti in tutti i campi. C’è sempre più bisogno di una forza politica che diventi - prima possibile - la parte più avanzata del più vasto schieramento di resistenza e di opposizione al governo Berlusconi, ma che contemporaneamente si ponga in alternativa al Partito Democratico e alla logica bipolare/bipartitica dell’alternanza in cui si tenta di forzare la dialettica politica.



    Una grande forza comunista per rilanciare la sinistra e i movimenti


    Per poter ricostruire è necessario interrogarsi su cos’è rimasto a sinistra del Pd dopo la catastrofe elettorale. La disfatta della Sinistra Arcobaleno ha prodotto anche la sua frantumazione in direzioni diverse e opposte. Il Pdci ha manifestato la sua disponibilità a convergere in una costituente comunista con il Prc e tutti i comunisti disponibili. I Verdi appaiono divisi in tre tronconi, chi va verso il Pd, chi verso un nuovo soggetto ecologista da presentare alle prossime europee e amministrative, mentre solo un’esigua minoranza rimane legata all’ipotesi di soggetto-partito unico della sinistra. Sd è sempre più attratta dalle sirene del Pd e accentua la sua identità socialista e governista. Dopo la catastrofe, la parte della Sinistra Arcobaleno disponibile a trasformare questa coalizione elettorale in un nuovo soggetto politico o in una “federazione” è assolutamente minoritaria, quasi del tutto inesistente. Fuori dalla Sinistra Arcobaleno vi è lo Sdi, anch’esso sconfitto dalle urne e destinato ad essere assorbito dal Pd, due formazioni comuniste ed anticapitaliste, Pcl e Sinistra Critica, che assieme alle elezioni politiche hanno ottenuto l’1%, e un variegato e disperso arcipelago di forze e movimenti antagonisti.


    A sinistra del Pd, dopo la devastazione elettorale, ciò che è necessario e possibile fare è ricostruire due paralleli processi di ricomposizione unitaria. Il primo fra le forze che esplicitamente si richiamano al comunismo e al marxismo, per la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista ed anticapitalista che per dimensioni e coerenza possa essere credibile per ampi strati di lavoratori e lavoratrici. Questa è la condizione affinché si avvii, con qualche possibilità di successo, anche il secondo contemporaneo processo di ricomposizione, sulla base di lotte e contenuti comuni, di una sinistra anticapitalistica e di alternativa più ampia. Altrimenti il rischio è che dopo la drammatica sconfitta elettorale si determini un pericolosissimo processo centrifugo di disgregazione dei comunisti e della sinistra, in presenza di una destra pericolosa al governo e di un’opposizione parlamentare più disponibile che mai a mediare con Berlusconi.


    Sappiamo che la sinistra anticapitalista è più ampia dei soli comunisti e sappiamo che le forme concrete di impegno a sinistra vanno ben oltre quelle rappresentate dall’appartenenza ad un partito. Movimenti, reti, comitati, collettivi, associazioni, militanza sindacale, vertenze territoriali e ambientali: molti sono i modi in cui si fa politica oggi a sinistra. Pensiamo solo a cos’è il No Dal Molin a Vicenza o il No Tav in Val di Susa. Ma se non si rilancia la rifondazione/ricostruzione di un partito comunista, più forte e più grande di ciò che è l’attuale Rifondazione, con una massa critica sufficiente, in grado di stare nei movimenti e nelle lotte per costruire un blocco sociale antagonista e prospettare un progetto di società alternativa, il rischio è che queste realtà si disperdano e siano sconfitte. Non c’è bisogno di alcuna cessione di sovranità, com’è implicito nella proposta di “federazione”, ma della capacità di costruzione paziente dell’unità possibile di tutte le forze di volta in volta disponibili, sulla base di contenuti e di pratiche sociali condivise.

  3. #3
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  4. #4
    per il centro-sinistra
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