Dopo il tonfo rovinoso di Alitalia (della quale speriamo di scrivere al più presto l’ultima parola sulla vicenda), attendiamoci altre catastrofi del tutto simili. Anche perché sembra di tornare ai decenni segnati da uno statalismo forsennato e da un sindacalismo ottuso. All’indomani del boom realizzato negli anni Cinquanta grazie agli “istinti animali” del capitalismo italiano, il Paese si è progressivamente chiuso su se stesso proprio nel momento in cui l’Italia costruiva al proprio interno una vasto arcipelago di kolchoz industriali affidati a manager di partito. È allora che l’Italia inizia a declinare, accartocciandosi in un sistema di relazioni che toglie ogni spazio alla concorrenza e alla corsa verso il profitto puro, ottenuto tramite la soddisfazione del consumatore.

Com’è noto, un personaggio cruciale della nostra storia quale fu Pietro Nenni, più volte ministro e anche vicepremier, avrebbe voluto lasciare in mani ai privati solo le botteghe dei barbieri. E se non si è giunti a tanto è pur vero che l’espansione di complessi produttivi come l’Iri e l’Efim ha per decenni caratterizzato lo scenario industriale e gli ingarbugliati legami tra una politica desiderosa di mettere le mani sull’economia e un’impresa ben felice di costruirsi solide rendite, grazie ai collegamenti con il denaro pubblico e i meccanismi della regolazione. Quel socialismo retorico e confusionario non è del tutto scomparso. Non soltanto perché troppi politici e imprenditori vedono nelle connessioni tra Stato e mercato la migliore opportunità per accrescere il potere (gli uni) e ottenere extraprofitti in assenza di competitori (gli altri). Per non parlare del sogno di un ordine economico controllato da pochi illuminati pianificatori e presuntuosi ingegneri del futuro. Ma chi volesse sposare una tesi tutta neomarxiana e basata interamente sugli interessi, non comprenderebbe quanto è avvenuto davvero e qual è ancora oggi la situazione.

L’Europa, in generale, e in modo particolare l’Italia, in effetti, conoscono nella loro cultura una forte attrazione per un’economia di tipo mercantilista (o colbertista che sia), e tendono a leggere le relazioni tra imprese soltanto entro un quadro geopolitico fatto di scontri tra blocchi. Nella cultura anche accademica di un’Italia molto spaventata di fronte a ogni novità, e timorosa nei riguardi del futuro, è radicata la convinzione che un sistema decisionale centrato sullo Stato nazionale possa salvaguardare valori essenziali. Quando politici di lungo corso e tra loro assai diversi come il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e Paolo Cirino Pomicino proclamano senza pudore «il primato della politica», è proprio questo modo di intendere le relazioni tra Stato ed economia (e la subordinazione della seconda alla prima) che essi vogliono difendere.

Prima o poi i nodi verranno al pettine, com’è avvenuto con Alitalia: e questo è consolante. Ma purtroppo non saremo nelle migliori condizioni per reagire, perché ancora non sappiamo guardare nel modo giusto la realtà. Come nel caso ancora aperto di questa Alitalia in via di putrefazione: a causa di ossessioni ideologiche del tutto ingiustificate si cercherà fino all’ultimo istante di non accettare lo sconquasso e quindi si continuerà a mettere le mani nelle tasche degli italiani per dare ancora qualche mese e infine qualche giorno a un’impresa pubblica che è agonizzante.

Non è colpa della destra né della sinistra: hanno sbagliato tutti i fronti, perché è l’Italia intera che fino a oggi ha rigettato le logiche di mercato. Perfino quando negli anni Novanta si è operata una massiccia privatizzazione di parti del settore pubblico, non soltanto lo si è fatto a favore degli amici, ma per giunta controvoglia. Obbligati a fare cassa e contrastare in qualche modo il dissesto del bilancio pubblico, si è deciso di dare la Telecom ai “capitani coraggiosi” e le autostrade ai Benetton. Se prendiamo per esempio il caso delle telecomunicazioni, il fatto che non ci si sia posti il problema di quale statuto attribuire alla rete e di come favorire una vera concorrenza, non è soltanto la conseguenza di intrallazzi, ma anche di un deficit culturale. Perché quando si è privatizzato lo si è fatto senza convinzione: esattamente come si prende una medicina amara.

Questa vocazione statalista emerge chiaramente anche dal fatto che ben pochi in Italia paiono consapevoli, per esempio, della necessità di aprire un mercato come quello postale. Dato che i conti di Poste Italiane sono a posto, nessuno vede il problema. E nessuno neppure è informato del fatto che per i servizi di posta entro i 50 grammi di peso il gruppo di Stato gode di un vero monopolio. Ma siccome la società produce profitti e gli italiani pagano un conto salatissimo sostanzialmente senza accorgersene, Poste Italiane non è un problema. E poco importa come sia gestita o quanto ci danneggi. Così, mentre la Rai delle mille inefficienze è già travolta da nuove tempeste, la prossima bomba a orologeria saranno le Ferrovie, e anche nella prospettiva di tale azienda è importante che la chiusura della vicenda Alitalia non sia indecorosa. Nel 2007 il gruppo ha registrato una perdita superiore ai 400 milioni di euro (e la quasi totalità del buco è da addebitarsi a Trenitalia).

Altri settori vanno un poco meglio, semplicemente perché quelle aziende pubbliche si trovano in contesti maggiormente esposti alla concorrenza. Oppure perché la quota in mano allo Stato si è ridotta. È questo il caso dell’Enel, dell’Eni o di Finmeccanica. Ma è evidente che pure in questi casi il legame incestuoso tra Stato ed economia, tra partiti e affari, è destinato a produrre in futuro molti frutti velenosi.
C’è bisogno di coraggio: entro il nuovo governo e anche tra i responsabili delle imprese di Stato. Ma c’è soprattutto bisogno di una svolta morale e culturale in favore della responsabilità e del profitto, e contro ogni forma di protezionismo e parassitismo.

Da Liberal, 23 maggio 2008

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