Caro direttore,

Se non puoi vincerli, unisciti a loro. E' una regola antica quanto il mondo, ma l'euroburocrazia ancora non l'ha capita. I dati raccolti ieri su Libero Mercato da Piergiorgio Liberati sono impressionanti. Le emissioni italiane sono oggi del 12 per cento superiori a quelle del 1990 a fronte di un target di riduzione al 2012 del 6,5 per cento. Di più: il trend è in crescita, poichè - a differenza di altri paesi europei - l'Italia ha dato una stretta ai suoi consumi ben prima del 1990, non per virtù ma in ragione della fiscalità predatoria sull'energia. Sebbene possano esservi ancora significativi margini di risparmio - in particolare sui motori elettrici - essi sono difficilmente concretizzabili nel breve termine, poichè richiedono interventi capillari su una molteplicità di piccoli soggetti industriali. Quello che gli anglosassoni chiamano il "low hanging fruit", insomma, l'abbiamo già colto. Questo non vuol dire che sia per noi impossibile raggiungere gli obiettivi che ci sono stati imposti. Significa soltanto che sarà molto costoso, probabilmente piú di quanto gli italiani siano disposti a pagare e, in ogni caso, più del necessario. Cioè, i costi saranno superiori ai benefici ambientali, tanto più che gli uni sono certi, gli altri dubbi.

Del resto, se si allarga lo sguardo all'Europa la situazione, certo più rosea della nostra, non è tuttavia molto migliore. Le emissioni europee non sono in crescita, ma neppure in via di effettiva riduzione. I settori coperti dall'Emissions Trading Scheme - quello che doveva essere il silver bullet comunitario - hanno osservato un aumento delle loro emissioni tra il 2006 e il 2007. Anche in questo caso, la musica non cambia: raggiungere i target imporrà un impatto enorme al tessuto economico europeo, senza contare le mutazioni strutturali innestate su un mercato interno ancora fragile dal nuovo set di incentivi. Poichè lo sforzo è immenso, vale la pena quantomeno di chiedersi se, per così dire, il gioco valga la candela. La risposta é un secco no. L'Europa è responsabile di meno del 20 per cento delle emissioni globali. Un dimezzamento delle nostre emissioni - scenario ben più che irrealistico - porterebbe dunque a un abbattimento di quelle globali di meno del 10 per cento. Nel frattempo, però, il mondo si muoverà. Nello scenario base dell'Agenzia internazionale dell'energia, il consumo globale di energia primaria aumenterà, al 2030, del 55 per cento, e sarà imputabile per i due terzi alle economie emergenti (Cina e India in testa). Le emissioni andranno al traino. L'Ue, sotto questo profilo, é condannata a una progressiva marginalizzazione. Quindi, la fatica europea rischia di essere votata a un ineluttabile fallimento. Qualunque sforzo noi faremo, sará più che bilanciato dalla crescita delle emissioni altrove. Al danno si aggiunge la beffa: poiché le politiche climatiche europee si traducono in un aggravio della fattura energetica, le imprese energivore saranno incentivate a migrare nei paesi a minor costo dell'energia. Risultato: poiché lì la produzione di energia si basa su tecnologie meno efficienti e più inquinanti di quelle europee, a parità di energia consumata si potrebbe assistere a una riduzione delle emissioni locali in Europa, e un aumento più che proporzionale di quelle nei paesi emergenti. In quel caso, ne patirebbero tanto l'economia europea quanto l'atmosfera.

Questo rischio - il cosiddetto "carbon leakage" - non è sfuggito alla Commissione europea, che ha tentato, a modo suo, di mettervi una pezza. La proposta di direttiva sulla riduzione delle CO2 prevede la possibilità di riconoscere agevolazioni alle industrie energy-intensive che vedano minacciata la loro posizione sui mercati globali, oppure che siano sul punto di delocalizzare. Questa è una soluzione barocca e inefficiente a un problema tutto creato dalle politiche europee stesse: che aggiunge ulteriori distorsioni sui mercati europei, crea incertezza, e finisce per sacrificare l'obiettivo ambientale alla tutela dei posti di lavoro. Si tratta di una visibile incoerenza da parte di chi si è affannato a spiegare che, se non ci muoviamo al più presto, il mondo sarà spacciato, i ghiacci si scioglieranno, i mari s'alzeranno e il cielo cadrà su di noi.

Non che le alternative non ci siano. La chiave è proprio il gap tecnologico che divide paesi come la Cina e l'India dall'Europa. Se fosse possibile accelerare i processi di trasferimento tecnologico, si potrebbero ottenere dei grandissimi risparmi sulle emissioni future di questi colossi, senza danneggiare le nostre imprese, anzi offrendo loro un'opportunità di business. Il luogo chiave per negoziare su questi punti non è la kermesse climatica dele Nazioni unite, ma la Wto. A cui non bisogna chiedere più regole per fermare la circolazione delle merci, ma meno regole e più chiare per favorire una virtuosa forma di interdipendenza. Solo perseguendo una più spinta integrazione economica tra Occidente e Oriente - cioè allineando i reciproci interessi - si potranno coniugare le esigenze dell'economia con quelle dell'ambiente.

da Libero Mercato, sabato 31 maggio 2008

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