di Alberto Burgio

Qualcuno, anche nel Partito, ama rappresentare il nostro dibattito congressuale come una faida. E fa perciò largo dispendio di accuse e caricature. Non è bello ma non meraviglia. Anche questo è un portato della crisi. E’ tuttavia un peccato, per una ragione ben precisa: lo scambio di accuse oscura quanto di più interessante c’è in questo confronto.
Io sono tra quanti ritengono che il principale tema politico del Congresso sia: salvare o sciogliere Rifondazione Comunista? Trovo perciò molto discutibile (anche se credo di comprenderne le ragioni) che cerchi di rimuovere questo tema proprio chi, prima del disastro del 14 aprile (e persino dopo), si è mosso con determinazione lungo l’”irreversibile” percorso del “superamento” del Partito, salvo poi vedersi costretto a frenare dalla disfatta elettorale. Penso però che questo tema, indubbiamente cruciale, non esaurisca la discussione congressuale e forse non ne costituisca nemmeno il cuore.
Benché possa sorprendere, l’essenziale è il confronto tra diverse culture politiche. Proprio per questo la polemica dei sedicenti “innovatori” contro i cosiddetti “identitari” (cioè tra chi attribuisce a se stesso il monopolio dell’innovazione per affibbiare agli altri la patente di conservatori intenti alla difesa di “simboli e bandiere”), questa polemica, già sperimentata in occasione della Bolognina, non è soltanto futile. E’ anche autolesionista. Poiché impedisce di vedere come l’aspetto nobile di questa nostra discussione consista precisamente nel suo coinvolgere problematiche cruciali nel travaglio di una sinistra sconfitta anche perché incerta e fragile sul terreno della propria cultura politica. Suggerirei pertanto a Nichi Vendola di rinunciare a battute che fanno torto alla sua sensibilità. Non ci sono tra noi “mini-culture”: ci sono culture in parte diverse tra loro. Ed è un bene che esse si confrontino, poiché da questa drammatica sconfitta si potrà uscire soltanto discutendo senza arroganza, evitando di irridere le posizioni degli avversari o di chi semplicemente la pensa in modo un po’ diverso.
Vorrei fare, telegraficamente, due esempi di queste differenze di cultura politica, limitandomi - per ragioni di spazio - alle prime due mozioni (chiedo scusa per ciò ai firmatari delle altre, con cui pure mi interesserebbe discutere).
La mozione Vendola avversa la tesi della centralità di un determinato terreno di conflitto e nega quindi che si possa “ancora” puntare su una “contraddizione principale”. Non c’è di che scandalizzarsi. Intere culture critiche si sono sviluppate sulla base della teoria della simmetria tra le contraddizioni e della loro reciproca autonomia.
Sta di fatto che (con buona pace di chi ritiene le prime due mozioni “sovrapponibili”) tale posizione è antitetica a quella sostenuta nella mozione Acerbo, secondo la quale «il progetto della rifondazione comunista» si rifà a «un filone politico qualificato dal tema della rivoluzione, intesa come superamento del modo di produzione capitalistico». Qui, con tutta evidenza, si ribadisce la centralità della contraddizione capitale-lavoro e si insiste sulla funzione decisiva del conflitto di classe (la nozione di “classe” rinviando alla divisione sociale e internazionale del lavoro): non certo per negare la rilevanza e la relativa autonomia dei diversi terreni di conflitto (genere, diritti civili, ambiente, istituzioni, guerra ecc.), ma per affermare la necessità di un organico quadro di riferimento teorico e pratico, la cui coerenza complessiva è assicurata precisamente dalla funzione sovraordinatrice del modo di produzione dominante. Non si tratta - come potrebbe sembrare - di astrazioni, ma di una concreta opzione politica, che impone di riservare al conflitto sociale e di classe più attenzione di quanta non ne abbia forse ricevuto in questi anni.
L’altro esempio (connesso al primo) riguarda la grande questione dell’egemonia e della coscienza di classe. La mozione Vendola dichiara disperso il nesso tra “condizione sociale” e “adesione politica”, e con ciò sembra ritenere non più attuale la battaglia per costruire l’egemonia su basi di classe. Proprio questa battaglia costituisce invece il criterio-guida nella concezione dell’opposizione alle destre prospettata nella mozione Acerbo, che propone al Partito di concentrare i propri sforzi per ricostruire la connessione tra orientamento politico e condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari. Collocandosi decisamente nel solco della ricerca teorica di Gramsci e dello stesso Marx (se è vero che un tema centrale del Manifesto del partito comunista è precisamente la trasformazione dei “proletari” in “comunisti”).
Come si vede, è in corso tra noi un dibattito importante. Che dice come in tutti questi anni dentro Rifondazione Comunista abbiano vissuto varie culture politiche, tra le quali è bene si sviluppi nel Congresso un confronto franco e leale. Di queste cose stiamo discutendo in realtà. A guardar bene, infatti, anche le diverse idee su che cosa fare del nostro Partito e su come costruire l’unità a sinistra sono strettamente legate a opzioni teoriche diverse: alle differenze di cultura politica tra chi continua a pensare in termini di lotta di classe e di impegno rivoluzionario per superare il capitalismo, e chi imposta altrimenti i temi del conflitto e della trasformazione.

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