Tempi duri per i vincitori. Mancini, dopo la vittoria dell'ultimo scudetto, dovrà trovarsi un'altra panchina; il cinema italiano, trionfante sulla Croisette, rischia di veder sparire quegli incentivi approvati solo pochi mesi fa con l'ultima legge finanziaria. Come ha scritto sul Riformista del 31 maggio Michele Anselmi, con un tratto di penna Tremonti ha abrogato i commi dal 325 al 334 dell'art. 1 della legge n. 244 del 2007, e ridotto gli stanziamenti del Fondo unico per lo spettacolo. Dunque: stralciati parte degli sgravi fiscali per il settore e diminuiti i soldi per finanziare direttamente nuove opere. Una notizia cattiva ed una buona. Sì, perché gli aiuti statali dovrebbero prendere sempre più la forma delle incentivazioni di natura fiscale e sempre meno quella della erogazione di denaro pubblico destinato alla produzione (e non solo) di pellicole italiane. Dai più, l'intervento dello Stato viene ritenuto necessario per gli alti costi che comporta la realizzazione del prodotto filmico. Ma, questi alti costi sono anche la conseguenza dell'elevata tassazione che grava sulle imprese del comparto cinema. Detassare, quindi, significa ridurre i costi per girare e fare arrivare nelle sale un film. Inoltre, vuol dire offrire a tutti le medesime opportunità, senza alcun meccanismo di selettività. Cosa che invece avviene con i soldi del Fus, i quali, attraverso apposite commissioni di esperti, vengono indirizzati alle opere ritenute più meritevoli. È vero, nel caso dei film presentati al Festival di Cannes il finanziamento dello Stato è andato a pellicole che hanno ben figurato, e che probabilmente avranno un buon andamento anche al botteghino. Sbaglia però l'ex ministro Rutelli a dire che senza l'intervento pubblico i film di Sorrentino e di Garrone non si sarebbero mai realizzati. Probabilmente avrebbero cercato i soldi altrove. Sicuramente, se fossero state già in vigore misure come il tax credit o il tax shelter la ricerca dei finanziamenti privati sarebbe stata più facile. Ovvio che questo balletto sulle agevolazioni fiscali (approvate, abrogate e reintrodotte?) non rende facile la vita per chi deve investire nel settore. Si chiede certezza e si ottiene l'esatto contrario. Come è possibile programmare investimenti in queste condizioni?

La legge Urbani ha sicuramente il merito di aver reso più efficiente il sistema dei finanziamenti pubblici. Ma non è il sistema migliore per sostenere il cinema italiano. Infatti, ciò che lo Stato prende con la tassazione cerca di ridarlo ai progetti ritenuti più meritevoli. In sostanza, si fa carico del compito pedagogico (degno del defunto Minculpop) di dirottare i fondi, in maniera del tutto discrezionale, a quelle opere che per qualche motivo vengono scelte. Certo, i finanziamenti non sono a fondo perduto e prevedono la restituzione di una parte della somma ricevuta; inoltre, non coprono mai l'intero costo del film. Da qualche tempo, però, si sono alzate voci che chiedono l'abolizione totale dei contributi statali. Luca Barbareschi lo va chiedendo con una certa continuità. E così pure il regista Renzo Martinelli. Addirittura un insospettabile come Mimmo Calopresti ha esternato pubblicamente di non apprezzare i film “garantiti” («Penso che perché un film abbia successo se lo deve meritare, non essere protetto dallo Stato. La battaglia è dentro il cinema»). Basta sussidi allora. Sì, invece, a regole fiscali (certe) che rendano più agevoli economicamente gli investimenti nel cinema. Anche film d'autore (e Gomorra lo sta dimostrando) possono portare tanta gente nelle sale e fare incassi importanti. Pure nel cinema si può passare da uno Stato che tassa e spende ad uno che detassa e lascia che a spendere siano i privati. Il sostegno dello Stato lo si può dare facendogli fare un passo indietro. Ovviamente, per arrivare a tanto, occorre che sia d'accordo anche il divo Giulio (Tremonti).

Da Il Riformista, 4 giugno 2008

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