L'amore secondo Toni Negri

intervista a Toni Negri di Chiara Pastorini

Nelle sue ultime opere, tra cui Moltitudine, Lei parla di amore come dell’unico fine per cui si debba combattere, o meglio, come di ciò che è in grado di sostenere il potere della moltitudine. In che senso?
Il concetto politico di amore da me impiegato ha origine nella filosofia di Spinoza. L’amore, egli afferma, deriva dalla cupiditas, dal desiderio che fa vivere; questo, a sua volta, esiste prima sotto forma di conatus di riproduzione, cioè d’impulso sensibile e di sforzo corporeo di vivere e di unirsi agli altri nella costruzione del comune. Il legame tra conatus-cupiditas e amor può essere esplicitato in questo modo: quando il conatus è accompagnato dalla coscienza di sé diventa cupiditas e quando questa, incontrandosi con altri enti finiti, potenzia il suo grado di perfezione esprimendosi come gioia, essa diviene amor. L’amore è insomma qualche cosa di razionale e socializzante, che costruisce nomi comuni e istituzioni. L’amore mette insieme cose e parole per costruire concetti, e, lungi dall’essere un motore individualizzante, avvicina tra loro i concetti per dare origine a forme di vita e a pratiche di convivenza comune.


Questo concetto politico di amore si lega in qualche modo a una dimensione teologica religiosa?
Credo di sì, se la religione è intesa come un legame che si stabilisce tra gli uomini. Quasi sempre, però, quando si parla di religione si fa riferimento a una dimensione trascendente, ci si affida a una proiezione ontologica assoluta, al di fuori dell’orizzonte della vita e dell’umano. Di contro, l’amore consente di cogliere l’insieme di passioni, affetti, funzioni razionali e concetti all’interno della sfera naturale umana e non su un piano eteronomo trascendente, da cui probabilmente è opportuno prendere le distanze per evitare fanatismi e superstizione.


Una domanda allora, forse superflua: è credente?
No, sono ateo. Rispetto in ogni caso la religione, soprattutto in quelle forme laicizzate e generose che ho conosciuto, ad esempio, nel Sud d’Italia, oppure tra i contadini veneti o, ancora, in America latina (la teologia della liberazione è stata per me un’esperienza d’importanza enorme).


Rimanendo alle sue ultime opere, uno dei principali concetti di cui Lei si serve per descrivere la situazione globale attuale è appunto quello di “impero”. Che cosa intende?
Con ”impero” intendo la forma politica che governa la globalizzazione economica e sociale determinatasi con la fine del dualismo politico della Guerra fredda. Abbiamo allora assistito alla creazione di un mercato unificato, capitalistico e regolato da norme di divisione del lavoro, che si estende sull’intero globo: insomma, alla vittoria del neoliberismo.
Le istituzioni intervenute a mediare questo nuovo assetto mondiale sono di diverso tipo: in primo luogo di tipo giuridico, monetario e commerciale (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, organizzazioni per gli scambi commerciali), con capacità normativa forte, ma settorialmente limitata; in secondo luogo, di tipo politico (l’ONU e gli strumenti transitori di accordo e di organizzazione tra diversi Stati-nazione); in terzo luogo di tipo civile (le ONG); da ultimo di tipo economico (le organizzazioni transnazionali, che possono anche talora confondersi con le ONG). In questo reticolato ordinato e strutturato su scala mondiale, si assiste alla crisi dello Stato-nazione. È un fenomeno profondo e irreversibile. I giuristi parlano, nell’ambito del diritto pubblico, di “costituzionalismo senza Stato”. Paradosso? No, è quanto l’esperienza ci presenta.


Si può parlare allora di un Impero senza centro e senza territorio, in altri termini, ubiquitario?
In realtà, all’interno di questo fenomeno di globalizzazione, che si manifesta come un processo aperto e che indubbiamente si rappresenta come una transizione, si è affermata una forte volontà di prendere il potere per dominare e dirigere questa trasformazione: c’è stato un colpo di Stato sull’Impero. Mi riferisco al ruolo giocato dagli USA neo-conservatori, in particolare durante la seconda amministrazione Bush, quando si è manifestata una precisa volontà di restaurare la sovranità americana sul globo.
Questo colpo di Stato ha evidentemente fallito il suo obiettivo, sia nella guerra irakena sia, più in generale, nella sua politica contro i cosiddetti Stati canaglia. Sembra, di conseguenza, che ora ci si stia muovendo verso un assestamento continentale con l’ingresso di nuovi protagonisti nella storia mondiale: l’America latina, la Cina, la Russia, l’India e tanti altri Paesi. Quanto all’Europa, da semplice appendice militare degli USA, sembra essersi mossa nella direzione di utilizzare la propria enorme capacità produttiva e culturale e la potenza di una moneta in grado di far saltare il predominio del dollaro. Vedremo!


Il potere di cui ci si vuole impossessare all’interno dell’Impero, facendo riferimento alla nozione foucaultiana di biopolitico da Lei spesso impiegata, è definibile nei termini di biopotere?
Quando si parla di biopolitico si intende un dispositivo per cui, in seguito alla trasformazione del lavoro e della produzione, il comando diventa un tessuto di controllo generalizzato della vita. A partire dalla nascita del liberalismo, come ci insegna Michel Foucault, il comando non si esplicita più semplicemente attraverso le forme per cui passa lo sfruttamento del lavoro produttivo, ma si dà come analisi e controllo delle diverse forme di vita. Questo controllo investe la circolazione generale del valore, non solo di tipo economico, ma anche etico, sociale, ludico etc. È fuor di dubbio che la struttura imperiale tenda fortemente all’integrazione della vita nel comando politico.
Questa volontà di dominazione è finalizzata principalmente alla creazione di profitto economico e tutte le forme attraverso le quali la vita si svolge devono essere per così dire “messe al lavoro”. Un solo esempio: il caso della sanità. Fino a qualche decennio fa era impensabile la riduzione attuale delle operazioni sanitarie a degli atti di tipo economico. Oggi tutti gli ospedali, a Pechino come a New York, a Roma come a Mosca, vengono invece fatti funzionare sulla base di criteri di impresa.
Il processo di trasformazione imperiale si lega all’apparizione di nuove forme di lavoro?
Si. In particolare, è necessario far riferimento al lavoro immateriale, o cognitivo. Questo è definibile come il lavoro in cui prevale l’elemento mentale-culturale sugli elementi materiali e di addestramento dei sensi. Il lavoro immateriale, utilizzando uno strumento tecnico-materiale (ad esempio, il computer) di solito in rete, si definisce come lavoro intellettuale e insieme come lavoro socializzato-comunicativo. Talora ci si illude di poter definire questo tipo di lavoro come “libero”, in realtà anch’esso è salarizzato e si riduce, per così dire, a lavoro “operaio”. Tuttavia, al di là di questa riduzione, emergono importanti e decisivi elementi di differenza. In realtà, in ogni tipo di lavoro, c’è sempre stata una componente cognitiva: nessun operaio è mai stato semplicemente “mani callose”, si è sempre anche costituito come forza intellettuale. Tuttavia, qualsiasi seria analisi del lavoro deve riconoscere che, prima, il lavoro (nella sua materialità) era assunto nella sua astrazione, cioè quantificato nella sua totalità o in unità discrete, che era ripetibile, che era calcolato su unità di tempo prefissate. Oggi, paradossalmente, il lavoro produttivo (immateriale) è invece sempre più concreto, nel senso che esso vuole singolarizzare un bagaglio di conoscenze nell’atto del lavoro. Ricordo, ad esempio, durante le mie prime esperienze come sociologo qui a Parigi, che, già quarant’anni fa, nelle officine dei TGV di Saint Denis non c’erano più operai tradizionali, ma solamente tecnici che “auscultavano” il treno come fossero medici.
Le vecchie leggi di regolazione del lavoro, basate su criteri di astrazione e controllo dei tempi, sono quindi venute meno. Non è concepibile, in altre parole, racchiudere il lavoro attuale (che ha una figura singolare) in limiti di tempo che ne definiscano il valore: se si lavora a un progetto, ad esempio, questo può occupare mentalmente il soggetto molto più a lungo delle ore impiegate per la sua realizzazione. Il 3X8 (8 ore di lavoro, 8 ore di tempo libero, 8 ore di sonno), caratteristico della giornata lavorativa tipo, salta. Venendo meno l’orario della giornata di lavoro, è venuta meno anche la contrattualità classica, sindacale, e ciò lascia spazio a maggiori flessibilità (nel tempo) e mobilità (nello spazio) lavorativa: si può lavorare a casa, in macchina o di notte. Naturalmente, queste attuali forme di lavoro debbono essere attraversate da una nuova lotta di classe per combattere l’imporsi di nuove forme di divisione, sfruttamento e precarizzazione del lavoro.


In questo nuovo quadro globalizzato del lavoro è ancora possibile parlare di proletariato?
Si tratta solo di una questione terminologica. Io insisto piuttosto sulla sostanza. Una volta, quando parlavamo di proletariato, intendevamo una classe operaia generalmente composta da uomini, di razza bianca, più o meno razionalmente omogenei, che lavorava nell’industria, per lo più “con le mani”. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a un insieme di lavoratori eterogeneo per genere (la femminilizzazione del lavoro è un elemento centrale di questo nuovo assetto lavorativo) e per razza.
Ci sono poi ampie fasce della popolazione mondiale, ai margini, o anche all’interno dei Paesi più sviluppati, che pongono problemi di integrazione con la cosiddetta classe operaia centrale. Per tutte queste ragioni preferisco parlare
di moltitudine piuttosto che di proletariato. Questo concetto raccoglie elementi tra loro eterogenei della storia dello sfruttamento e della soggettivazione della forza lavoro, che, se da una par-
te sono spesso riflesso di sofferenza umana su scala globale, dall’altra contengono forze di innovazione e di liberazione enormi.
L’insieme della moltitudine è l’insieme delle soggettività che si oppongono alle forze dell’Impero cercando di organizzarsi tra loro per la gestione del comune.


Presentandosi come una pluralità di singolarità eterogenee tra loro e, allo stesso tempo, come un insieme che deve organizzarsi per gestire il comune, il concetto di moltitudine non presenta una difficoltà intrinseca?
Come in tutti i fenomeni di associazione anche nella moltitudine si ha sempre l’alternativa tra l’agire insieme per il comune e la disgregazione. È chiaro che il comune non è altro che la realizzazione di un’associazione che rende i singoli più forti. In questo senso, l’esempio del linguaggio è formidabile: ogni intervento singolare nella dimensione linguistica costruisce e arricchisce il comune. In questo processo di associazione, dunque, c’è la creazione di un surplus che va a vantaggio di tutti. D’altra parte, invece, il rapporto con il (bio)potere, cioè con le forze del sovrano, blocca o distrugge le tensioni verso l’associazione e la crescita del comune, riducendole al privato e all’individuale.
Si parlava prima di amore: sicuramente in questo processo di comunitarizzazione sono presenti elementi di spontaneità amorosa (così come è spontaneo il volgersi alla difesa dei più deboli in un gruppo familiare), ma accanto a questi ci sono poi forze di blocco, di recessione e di comando unilaterale che vanno nella direzione opposta. Siccome la spontaneità non è semplicemente naturalità, ma è anche volontà e razionalità, la moltitudine va organizzata, ma ovviamente in un modo che ne assecondi la forma amorosa e libera (altrimenti si rischia il fallimento come è avvenuto, ad esempio, nel socialismo reale).


Una delle svolte più significative rispetto al passato degli attuali movimenti di sinistra è l’incorporazione di una coscienza pacifista e non violenta. Penso soprattutto ai movimenti riuniti sotto l’etichetta alter global o no global, dove il ricorso o la giustificazione della violenza appartengono a una frangia minoritaria. E mi riferisco anche alle manifestazioni pacifiste che in tutto il globo hanno cercato di scongiurare la guerra in Iraq: si è trattato del più grande movimento di protesta contro la guerra della storia. È ancora efficace e giustificabile secondo Lei l’uso della violenza come strumento politico?
Diciamo subito che non ho mai considerato il pacifismo come non violento. La tradizione pacifista non vuole certo creare la violenza, ma sa difendere il movimento e conquistare effettivamente la pace. Le grandi lotte gandhiane sono state un esercizio di forza immenso: milioni di persone hanno bloccato la produzione e con i loro corpi hanno resistito ai massacri dei colonialisti inglesi.
La violenza va distrutta attraverso istituzioni di pace e non di guerra, ma questo non significa necessariamente senza armi. Prendiamo un esempio molto significativo: l’esodo del popolo ebraico dall’Egitto. Se in testa c’è Mosè che porta un ideale di pace, dietro c’è una retroguardia gestita da Aronne che difende il popolo esodante con le armi. La difesa della pace è fondamentale per la costruzione di un’etica non bellicosa, ma neppure disarmata.


Pensa che questi movimenti di sinistra (altermondialisti, no global) abbiano un progetto politico valido?
No, penso che siano in crisi. I movimenti, da quello di Seattle nel ’99 fino a quello di Rostock nel 2007, al di là di una fase di resistenza e di presa di coscienza molto importante sul ruolo imperiale degli USA, non sono riusciti a far seguire alla fase distruttiva della protesta una fase costruttiva. Oggi stiamo pagando questa impasse con una fase di recessione dei movimenti.
È la prima volta, dagli anni ‘70, che sono un po’ pessimista... Anche se il mio pessimismo è un “pessimismo della volontà” che è poi sempre sostenuto da un “ottimismo della ragione”! Sono infatti convinto che all’interno di questo Impero e di questa globalizzazione tutti i giochi siano aperti.


In questo panorama globalizzato, pensa che abbia ancora un senso la classica divisione del politico in destra e sinistra?
No, la dicotomia destra/sinistra, nei termini della rappresentanza politica, non ha più alcun senso. La democrazia parlamentare, così come la conosciamo noi, ha completamente annullato il senso di questa differenza, nonostante tenti disperatamente di ricostruirlo attraverso vari bipolarismi o altre forme fittizie. La crisi della democrazia dei partiti risale ormai all’inizio del Novecento, non a caso nel momento in cui le organizzazioni operaie cominciano a diventare egemoni sul terreno sociale e sempre più pericolose per le classi dominanti. Da quel momento, e in particolare dopo la Rivoluzione russa, le classi dominanti non possono più permettersi il gioco della democrazia: potrebbe diventare occasione di redistribuzione della ricchezza, della trasformazione della proprietà e delle forme di civiltà. È subito dopo il ’68, nei primi anni ’70, che il potere capitalistico stabilisce la teoria dei “limiti della democrazia”. In questi ultimi trent’anni abbiamo assistito alla deriva di queste pratiche teoriche.


Nella sua vita ha unito la riflessione filosofica all’attività militante e all’impegno politico. In questi ultimi anni si sta dedicando anche al teatro come autore di diverse pièce. Come si articolano queste diverse aspirazioni?
La mia vocazione è sempre stata di tipo politico, ma in termini filosofici. Quasi mai ho fatto politica nel vero senso della parola. A parte un’esperienza come segretario di una federazione veneta socialista di sinistra quando non avevo ancora trent’anni e l’impegno in Potere operaio intorno ai primi anni ’70 (in una forma comunque molto teorica), in genere il mio impegno politico è sempre stato mediato dalla ricerca.
Per quanto riguarda il teatro, invece, ho iniziato a dedicarmici nel ’99, appena uscito di prigione (per la seconda volta). Allora, per qualche anno non sono stato nella condizione di potermi muovere, quindi dovevo fingermi, inventarmi l’esperienza reale. Quale migliore terreno di quello teatrale? Tanto più che, ritornando sul rapporto tra filosofia e teatro, sono sempre stato convinto che il linguaggio filosofico sia linguaggio dialogico, lontano da qualsiasi forma di pensiero che si avviti su se stessa nel tentativo di raffinare il concetto. Il raffinamento del concetto avviene attraverso la dialettica intesa come parola, come retorica, come confronto con le altre parole. Ora, il teatro ha la capacità di trasformare il linguaggio filosofico di ricerca in linguaggio dialogico. La struttura teatrale si basa sempre su almeno due voci, che naturalmente possono essere rappresentate anche solo da me e dalla mia coscienza. Mi sono dunque divertito ad applicare questo strumento teatrale-filosofico a fenomeni di tipo politico.
Ho scritto in tutto quattro pièce, di cui l’ultima, Settanta, in collaborazione. Le altre tre sono: Sciame, che, attraverso la storia di un kamikaze che si veste e si spoglia dell’esplosivo, narra la scoperta di un soggetto politico nuovo, la moltitudine; L’uomo piegato, che, narrando la storia (vera, tra l’altro) di un uomo che si piega in due al momento della chiamata alle armi nel ’40, costituisce un discorso sulla pace; e, infine, Il Citerone, una lettura delle Baccanti di Euripide come di una storia di migranti che entrano in conflitto con l’ordine prestabilito della città in cui giungono. E vincono.


Se chiude gli occhi e cerca di immaginare l’Italia fra quarant’anni, che cosa vede?
È veramente molto difficile chiudere gli occhi, quasi quanto prevedere che cosa succederà. Spero soltanto che il meccanismo di autodistruzione a cui questa società sembra affidarsi abbia fine. In ogni caso, due ipotesi possibili: la prima è che se questo processo non avrà un termine, diverremo un Paese del Terzo mondo all’interno della nuova strutturazione globale; la seconda ipotesi prevede una sommossa degli spiriti, e porta con sé qualche, molta speranza. Ma è più probabile che ci (o, meglio, vi) attenda un nuovo Seicento.

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