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    Predefinito UMANESIMO NAZIONALISTA ITALIANO

    .....Noi, tuttavia, preferiamo distinguere in complesso la concezione linguistica medievale da quella dell'umanesimo, in quanto i tratti caratteristici della prima hanno la loro indubbia espressione essenziale nella scolastica. È certo, comunque, che in senso lato la concezione linguistica dell'umanesimo, dai suoi esordi ellenistico-romani fino ad includere lo sviluppo neo-europeo dell'umanesimo rinascimentale, può esser vista sincronicamente all'epoca della «scienza di scuola» legata al fatto linguistico (sulla base d'una «religione del libro» e di una «letteratura formativa» laica canonizzata) — e ciò non solo nell'Occidente cristiano, ma anche e non meno nell'ambito bizantino, islamico, induista, buddista e confuciano. Tutta questa epoca tradizionalistica dellaa storia umana, che fa seguito all'erompere creativo del «tempo assiale», sarebbe da contrapporre, come si è già spiegato (vedi supra, p. 180 s., sull'epoca della «topica») alla situazione linguistica dell'era moderna, tecnico-scientifica e d'altronde consapevolmente «creativa» 3. Nelle pagine che .seguono faremo uso di questa possibilità di delimitazione, per render comprensibile quel fenomeno caratteristico che si ebbe nell'epoca successiva al 1700 e che si può definire come soffocamento o addirittura dissolvimento del concetto umanistico di lingua ad opera del «concetto operativo» di lingua giustificato nominalisticamente ovvero matematicamente e del creativo «concetto del linguaggio come rivelazione» alimentato dalla mistica del Logos. Nel quadro della nostra ricerca, che intende trattare di quell'epoca che va dal 1300 al 1700, vale a dire del prepararsi e del sorgere, dalla costellazione del tardo Medio Evo, di quella filosofia e di quella scienza moderne del linguaggio che emergono a partire dal 1700, conviene tuttavia, e in primo luogo, far vedere come, fin dal 1300, l'umanesimo linguistico, insieme all'occamismo e alla mistica del Logos, provoca in Occidente un mutamento della concezione linguistica medievale in senso stretto e può contribuire alla fondazione spirituale dell'era moderna muovendo dall'idea di lingua. A ciò si aggiunga che all'apparire dell'umanesimo rinascimentale italiano e al suo influsso su scala europea si occompagna in modo singolare l'evento della scoperta teorica e della prima formazione normativa delle madrilingue neo-europee.
    È qui, cioè nella affinità, pur ricca di tensioni, con la in-stauratio della madrelingua compiuta da Dante e con la grande letteratura italiana nazionale che con lui ha inizio, che a me sembra consistere fin dall'inizio la novità dell'umanesimo rinascimentale italiano rispetto alla concezione linguistica del Medio Evo. Anche se in tutti i singoli tratti della concezione linguistica dell'umanesimo italiano può esser accertata una prosecuzione — anzi un incremento e un ampliamento considerevoli — dei topoi, conosciuti anche nel Medio Evo, della grammatica e della retorica romane, è solo dal Petrarca in poi che è consentito parlare d'un ravvivamento e d'un riassetto nazionali dell'ideologia linguistica romana.
    In verità quest'ultima era riscontrabile anche nel Medio Evo, e lo era in quanto la concezione, già documentata in Cicerone, della lingua latina come stampo e canale della civiltà umana e in particolare d'una letteratura formativa canonizzata, fu innovata ed ecclesiasticamente sancita dai Padri della Chiesa nel più vasto quadro delle tre lingue sacre della cristiana religione del libro. Ma questa ideologia linguistica «romano-cattolica» fu per i popoli barbarici non romani del mondo medievale un «Vorgut autentativo» così come lo furono anche i contenuti, estranei a quei popoli, delle culture antiche; essa era stabilita dalla situazione d'una cultura derivata e acquisita; non corrispondeva ad una scoperta della propria madrelingua, al contrario di quanto era avvenuto per i fondatori dell'umanesimo romano nella cerchia di Scipione il giovane ed, ancora, di Cicerone. Pertanto l'ideologia ecclesiastica della latinità come «stampo e canale non rappresenta affatto un'esperienza linguistica propria dell'uomo medievale, nemmeno se la s'intende come l'intuitiva riscoperta delle scaturigini clas¬siche del proprio senso della vita, così come avverrà per gli Italiani, da Petrarca in poi. Il Medio Evo aveva ricevuto la
    lingua latina (grammatica^. ) già compiutamente formata, insieme ai suoi contenuti, in un modo tale che, ben lungi da una esperienza vitale di storia d'individui o di popoli, sembrava offrire piuttosto la chiave della struttura logica, generalmente valida, del mondo, cosi come anche la sua capacità d'espressione rappresentava l'immagine del mondo obbligatoria, vincolante per tutti i popoli.
    Per questi motivi — nonostante ogni normatività della topica dell'umanesimo linguistico romano anche nel Medio Evo — a me sembra che la peculiarità della situazione linguistica medievale sia evidenziata nell 'impresa linguistica della scolastica, cioè nel tentativo in grande stile d'aprire una via alla struttura ontologica della realtà per mezzo d'una «semiotica metalogica» (Bochenski) sotto forma di teoria dell'analogia o teoria della supposizione, ovvero in una «grammatica speculativa», che muove dalla struttura linguistica del latino (cfr. supra, cap. II).

    Proprio nel momento in cui il tentativo scolastico di una ontologia giustificata dalla logica linguistica passava, nel segno del nominalismo, alla critica del suo proprio punto di partenza linguistico, aprendo cosi la via (da Ockham a Bacone! ) ad una scienza sperimentale tradizionalmente linguistico-critica, giustificata da un modo di conoscenza presunternente alalico, l'umanesimo italiano si rifaceva nuovamente a quello stesso Boezio che, ricostruendo a suo modo la logica aristotelica in base ad una riflessione di natura linguistica, aveva dato avvio alla dottrina scolastica delle proprietates terminorum. Ma l'umanesimo ha di mira non questo Boezio, bensì l'ultimo romano che (vedi supra, p. 174 s.), prima dell'invasione della barbarie, abbia restaurato ancora per una volta il programma di Cicerone, quello di trasporre i contenuti della letteratura greca in forma latina. Ed anche quest'ultima, l'umanesimo italiano l'intende non come struttura generalmente valida in senso logico della natura estra-umana, ma la riscopre bensì come peculiarissima eredità nazionale, come forma di vita [/B]ROMANO-ITALIANA[B], a cui è tuttavia vincolata la pretesa d'una forma umano-universale della civiltà in assoluto, cioè semplicemente Vhuma-nitas. È per questo che la concezione linguistica dell'umanesimo italiano è in antitesi con la scolastica, che aveva riferito la forma linguistica all'ontologia estra-umana, astorica, eternistica nel senso inteso dall'Aristotele degli Arabi. 'Alla latinità universale sul piano logico, verificabile su quello naturale-ontologico, si contrappone la latinità universale sul piano programmatico-culturale, verificabile su quello umano-storico-salvifico'.
    In questa contrapposizione, a dirla modernamente, «an-tropologico-culturale» alla scolastica interessata alle scienze della natura (in particolare a\Vaverroismo di Padova, ma pure soccamismo di Parigi) si rivela l'uno aspetto dell'assetto storico dell'umanesimo rinascimentale; è in base ad esso che vanno intesi certi importanti avvii ad una filosofia filologica della cultura e ad una fondazione delle scienze uma-nistiche in C. Salutati, G. Manetti, L. Valla, A. Poliziano5 e infine, a gran distanza di tempo, in G. B. Vico (vedi infra, cap. XII, particolarmente p. 417 s.). Più importante ancora, come nuovo inizio linguistico, a differenza d'ogni umanesimo linguistico medievale, è però l'impostazione «[B]estremamente nazionalistica» del Rinascimento. In grazia di essa è possibile vedere, insieme al rianimarsi dell'ideologia linguistica romana fin da principio accompagnato dalla scoperta della madre lingua e dal sorgere in Italia d'una grande letteratura nazionale in volgare, quanto stretto sia stato, e per molto tempo, il rapporto con questa altra scaturigine, anch'essa italiana, dell'idea moderna di lingua. A voler caricare le tinte, si potrebbe dire che l'umanesimo italiano è una seconda scoperta della madrelingua, una fondazione culturale alternativa, che fu possibile solo in Italia, dove la latinità poteva esser rivissuta, almeno dalle persone colte, oltre tutto anche come forma linguistica nazionale. Quindi l'umanesimo linguistico italiano del Rinascimento, a parte ogni prosecuzione d'una programmatica formativa antico-medievale, ben deve aver accolto in sé le spinte provenienti da una nuova situazione storico-reale. Di ciò avremo da tenere particolare conto nel prosieguo.
    Seguiamo anzitutto il ricollegarsi degli Italiani all'ideolo-gia linguistica romana.
    Francesco Petrarca, che, come dice il Toffanin, era ritenuto «padre e maestro» dal Boccaccio e fondatore della casta degli umanisti» , aveva avuto in giovinezza l'esperienza vitale che lo condusse poi alla creazione della nuova ideologia linguistica; ne riferisce egli stesso:

    «A quell'età io non potevo intendere ancora nulla; solo una certa quale dolcezza e armonia delle parole ('verborum dulcedo quaedam et sonoritas') m'avvinceva in guisa tale che quanto di diverso io leggessi o udissi m'appariva roco, ruvido e disarmonico»

    In altro luogo egli dice: «Laddove si tratti di cose terrene, se-gnatamente dell'eloquenza, confesso d'ammirar Cicerone al di sopra degli altri filosofi che mai abbiano scritto; e non solo d'ammirarlo, ma d'imitarlo bensì, mentre di solito mi dò la pena, al contrario, di non imitar troppo gli altri. . .»9.
    «Ah, se mai mi fosse possibile e lecito definire cattolico . . . Cice-rone!» suona un significativo desiderio petrarchesco; in tal caso i cristiani «non sentirebbero prediche, non dico più vere e sante, ma certo più dolci e armoniose» .
    L'esperienza vitale che il Petrarca fa di Cicerone così è giudicata da Walter Rùegg: «Petrarca è il primo (naturalmente delle epoche successive all'antica) che abbia rivissuto nella forma linguistica, nella parola, l'esperienza vitale umana decisiva, il primo per il quale stile ed uomo s'identificano, il primo che sente profondamente, sebbene inconsapevolmente, nella lingua di Cicerone l'ideale formativo e umano retorico-antico, specialmente ciceroniano, secondo cui per la parola l'uomo si distingue dalla bestia e solo curando la parola si fa veramente uomo, e poi ne crea l'ideale formativo che di fatto si propagherà in tutta Europa» .
    L'ideologia romana dell'oratore-filosofo (v. supra) rinasce, nel Petrarca, a nuova vita: 'Nihil est aliud eloquentia quam copiose loquens sapientid . È nel senso dell'ideologia suddetta che il Petrarca ha spiegato più volte lo stretto rapporto di reciprocità esistente fra sermo ed animus, per cui appare assai più imperiosa che nei suoi modelli antico-romani la necessità d'una giustificazione nei confronti d'una radicale interiorità antioratoria.


    tratto da
    Karl Otto Apel - l'idea di lingua nella tradizione dell'umanesimo da Dante a Vico - edizioni il mulino
    Ultima modifica di acchiappaignoranti; 20-04-10 alle 00:14
    furono i riti italici ad entrare in grecia, e non viceversa.

    Platone, "libro delle leggi"

 

 

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