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Discussione: Stalingrado

  1. #11
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    Predefinito Rif: Stalingrado

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  2. #12
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    Predefinito Rif: Stalingrado

    Dal libro di Domenico Losurdo , Stalin, Storia e critica di una leggenda nera pagine 23-36

    La Grande guerra patriottica e le «invenzioni» di Chruscév


    A partire da Stalingrado e dalla disfatta inflitta al Terzo Reich (ad una potenza che pareva invincibile), Stalin aveva acquisito enorme prestigio in tutto il mondo. E, non a caso, su questo punto Chruscév si sofferma in modo particolare. Egli descrive in termini catastrofici l'impreparazione militare dell'Unione Sovietica, il cui esercito, in alcuni casi, sarebbe stato sprovvisto persino dell'armamento più elementare. Direttamente contrapposto è il quadro emergente da uno studio che sembra pervenire dagli ambienti della Bundeswehr e che comunque fa largo uso dei suoi archivi militari. Vi si parla della «molteplice superiorità dell'Armata rossa in carri armati, aerei e pezzi d'artiglieria»; d'altro canto, «la capacità industriale dell'Unione Sovietica aveva raggiunto dimensioni tali da poter procurare alle forze armate sovietiche un armamento pressoché inimmaginabile». Esso cresce a ritmi sempre più serrati man mano che ci si avvicina all'operazione Barbarossa. Un dato è particolarmente eloquente: se nel 1940 l'Unione Sovietica produceva 358 carri armati del tipo più avanzato, nettamente superiori a quelli a disposizione degli altri eserciti, nel primo semestre dell'anno successivo ne produceva 1.503 . A loro volta, i documenti provenienti dagli archivi russi dimostrano che, almeno nei due anni immediatamente precedenti l'aggressione del Terzo Reich, Stalin è letteralmente ossessionato dal problema dell'«incremento quantitativo» e del «miglioramento qualitativo dell'intero apparato militare». Alcuni dati sono di per sé eloquenti: se nel primo piano quinquennale ammontano al 5,4% delle spese statali complessive, nel 1941 gli stanziamenti per la difesa salgono al 43,4%; «nel settembre 1939, su ordine di Stalin il Politbjuro prese la decisione di costruire entro il 1941 nove nuove fabbriche per la produzione di aerei»; al momento dell'invasione hitleriana «l'industria aveva prodotto 2.700 aerei moderni e 4.300 carri armati». A giudicare da questi dati, tutto si può dire, tranne che l'URSS sia giunta impreparata al tragico appuntamento con la guerra.
    D'altro canto, già un decennio fa una storica statunitense ha inferto un duro colpo al mito del crollo e della fuga dalle sue responsabilità da parte del dirigente sovietico subito dopo l'inizio dell'invasione nazista: «per quanto scosso, il giorno dell'attacco Stalin indisse una riunione di undici ore con capi di partito, di governo e militari, e nei giorni successivi fece lo stesso». Ma ora abbiamo a disposizione il registro dei visitatori dell'ufficio di Stalin al Cremlino, scoperto agli inizi degli anni novanta: risulta che sin dalle ore immediatamente successive all'aggressione il leader sovietico si impegna in una fittissima rete di incontri e iniziative per organizzare la resistenza. Sono giorni e notti caratterizzati da un'«attività [ ... ] estenuante», ma ordinata. In ogni caso, «l'intero episodio [raccontato da Chruscév] è totalmente inventato», questa «storia è falsa». In realtà sin dagli inizi dell'operazione Barbarossa, Stalin non solo prende le decisioni più impegnative, impartendo disposizioni per lo spostamento della popolazione e degli impianti industriali dalla zona del fronte, ma «controlla tutto in modo minuzioso, dalla grandezza e dalla forma delle baionette sino agli autori e ai titoli degli articoli della "Pravda"». Non c'è traccia né di panico né di isteria. Leggiamo la nota di diario e la testimonianza di Dimitrov: «Alle 7 di mattina mi hanno chiamato con urgenza al Cremlino. La Germania ha attaccato l'URSS. E' iniziata la guerra [ ... ]. Sorprendente calma, fermezza, sicurezza in Stalin e in tutti gli altri». Ancora di più colpisce la chiarezza di idee. Non si tratta solo di procedere alla «mobilitazione generale delle nostre forze». È necessario anche definire il quadro politico. Sì, «solo i comunisti possono vincere i fascisti», ponendo fine all'ascesa apparentemente irresistibile del Terzo Reich, ma non bisogna perdere di vista la reale natura del conflitto: “I partiti [comunisti] sviluppano sul posto un movimento in difesa dell'URSS. Non porre la questione della rivoluzione socialista. Il popolo sovietico combatte una guerra patriottica contro la Germania fascista. Il problema è la disfatta del fascismo, che ha asservito una serie di popoli e tenta di asservire anche altri popoli».
    La strategia politica che avrebbe presieduto alla Grande guerra patriottica è ben delineata. Già alcuni mesi prima Stalin aveva sottolineato che, all'espansionismo dispiegato dal Terzo Reich «all'insegna dell'asservimento, della sottomissione degli altri popoli», questi rispondevano con giuste guerre di resistenza e liberazione nazionale. D'altro canto, a coloro che scolasticamente contrapponevano patriottismo e internazionalismo, l'Internazionale comunista aveva provveduto a rispondere ancora una volta già prima dell'aggressione hitleriana, come risulta dalla nota di diario di Dimitrov del 12 maggio 1941:
    Bisogna sviluppare l'idea che coniuga un sano nazionalismo, correttamente inteso, con l'internazionalismo proletario. L'internazionalismo proletario deve poggiare su questo nazionalismo nei singoli paesi [... ]. Tra il nazionalismo correttamente inteso e l'internazionalismo proletario non c'è e non può esserci contraddizione. Il cosmopolitismo senza patria, che nega il sentimento nazionale e l'idea di patria, non ha nulla da spartire con l'internazionalismo proletario.
    Ben lungi dall'essere una reazione improvvisata e disperata alla situazione venutasi a creare con lo scatenamento dell'operazione Barbarossa, la strategia della Grande guerra patriottica esprimeva un orientamento teorico maturato da tempo e di carattere generale: l'internazionalismo e la causa internazionale dell'emancipazione dei popoli avanzavano con-cretamente sull'onda delle guerre di liberazione nazionale, rese necessarie dalla pretesa di Hitler di riprendere e radicalizzare la tradizione coloniale, assoggettando e schiavizzando in primo luogo le presunte razze servili dell'Europa orientale. Sono i motivi ripresi nei discorsi e nelle di-chiarazioni pronunciati da Stalin nel corso della guerra: essi costituirono «significative pietre miliari nella chiarificazione della strategia militare sovietica e dei suoi obbiettivi politici e giocarono un ruolo importante nel rafforzare il morale popolare»; ed essi assunsero un rilievo anche internazionale, come osservava contrariato Goebbels a proposito dell'appello radio del 3 luglio 1941, che «suscita enorme ammirazione in Inghilterra e negli USA».



    Una serie di campagne di disinformazione e l'operazione Barbarossa


    Persino sul piano della condotta militare vera e propria il Rapporto segreto ha smarrito ogni credibilità. Secondo Chruscév, incurante degli «avvertimenti» che da più parti gli provenivano circa l'imminenza dell'invasione, Stalin va irresponsabilmente incontro allo sbaraglio. Che dire di questa accusa? Intanto, anche le informazioni provenienti da un paese amico possono risultare errate: ad esempio, il 17 giugno 1942 Franklin Delano Roosevelt mette in guardia Stalin contro un imminente attacco giapponese, che poi non si verifica. Soprattutto, alla vigilia dell'aggressione hitleriana l'URSS è costretta a districarsi tra gigantesche manovre di diversione e di disinformazione. Il Terzo Reich s'impegna massicciamente a far credere che l'ammassamento di truppe a est miri solo a camuffare l'imminente balzo al di là della Manica, e ciò appare tanto più credibile dopo la conquista dell'isola di Creta. «L'intero apparato statale e militare è mobilitato», annota compiaciuto Goebbels sul suo diario (31 maggio 1941), per inscenare la «prima grande ondata mimetizzatrice» dell'operazione Barbarossa. Ecco allora che «14 divisioni sono trasportate a ovest»; per di più, tutte le truppe schierate sul fronte occidentale sono messe in stato di massima allerta. Circa due settimane dopo l'edizione berlinese del "Vólkischer Beobachter" pubblica un articolo che addita l'occupazione di Creta come modello per la progettata resa dei conti con l'Inghilterra: poche ore dopo il giornale è sequestrato al fine di dare l'impressione che sia stato maldestramente tradito un segreto di enorme importanza. Tre giorni dopo (14 giugno) Goebbels annota sul suo diario: «Le radio inglesi dichiarano già che il nostro spiegamento contro la Russia è solo un bluff, dietro il quale cercavamo di nascondere i nostri preparativi per l'invasione [dell'Inghilterra]». A questa campagna di disinformazione se ne aggiungeva da parte della Germania un'altra: venivano fatte circolare voci, secondo cui il dispiegamento militare a est si proponeva di fare pressioni sull'URSS, eventualmente col ricorso ad un ultimatum, perché Stalin accettasse di ridefinire le clausole del patto tedesco-sovietico e si impegnasse ad esportare in maggiore quantità i cereali, il petrolio e il carbone di cui aveva bisogno il Terzo Reich coinvolto in una guerra che non accennava a concludersi. Si mirava cioè a far credere che la crisi fosse solubile con nuove trattative e con qualche concessione supplementare da parte di Mosca. A questa conclusione pervenivano in Gran Bretagna i servizi d'informazione dell'esercito e i vertici militari che ancora il 22 maggio avvertivano il Gabinetto di guerra: «Hitler non ha ancora deciso se perseguire i suoi obbiettivi [in direzione dell'URSS] con la persuasione o con la forza delle armi». Il 14 giugno Goebbels annota soddisfatto sul suo diario: «In generale si crede ancora ad un bluff ovvero a un tentativo di ricatto».
    Non bisogna sottovalutare neppure la campagna di disinformazione inscenata sul versante opposto e iniziata già due anni prima: nel novembre 1939, la stampa francese pubblica un fantomatico discorso (pronunciato dinanzi al Politbjuro il 19 agosto di quello stesso anno) in cui Stalin avrebbe esposto un piano per indebolire l'Europa, stimolando al suo interno una guerra fratricida, e poi sovietizzarla. Non ci sono dubbi: si tratta di un falso, che mirava a far saltare il patto di non aggressione tedesco-sovietico e a indirizzare verso est la furia espansionistica del Terzo Reich. Secondo una diffusa leggenda storiografica, alla vigilia dell'aggressione hitleriana, il governo di Londra avrebbe ripetutamente e disinteressatamente messo in guardia Stalin, il quale però, da buon dittatore, si sarebbe fidato solo del suo omologo berlinese. In realtà, se da un lato comunica a Mosca le informazioni relative all'operazione Barbarossa, dall'altro la Gran Bretagna diffonde voci su un imminente attacco dell'URSS contro la Germania o i territori da essa occupati. Evidente e comprensibile è l'interesse a rendere inevitabile o far precipitare il più rapidamente possibile il conflitto tedesco-sovietico.
    Interviene poi il misterioso volo in Inghilterra di Rudolf Hess, chiaramente animato dalla speranza di ricostituire l'unità dell'Occidente nella lotta contro il bolscevismo, conferendo così concretezza al programma enunciato dal Mein Kampf di alleanza e solidarietà dei popoli germanici nella loro missione civilizzatrice. Gli agenti sovietici all'estero informano il Cremlino che il numero due del regime nazista ha preso la sua iniziativa in pieno accordo col Führer. D'altro canto, personalità di un certo rilievo del Terzo Reich hanno continuato sino all'ultimo a sostenere la tesi secondo la quale Hess aveva agito su incoraggiamento di Hitler. Questi in ogni caso sente il bisogno di inviare immediatamente a Roma il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentrop al fine di fugare in Mussolini qualsiasi sospetto che la Germania stia tramando una pace separata con la Gran Bretagna. Ovviamente, ancora più forte è la preoccupazione da questo colpo di scena suscitata a Mosca, tanto più che ad alimentarla ulteriormente provvede l'atteggiamento del governo britannico: esso non sfrutta la «cattura del vice Führer» al fine di conseguire «il massimo profitto propagandistico, cosa che sia Hitler sia Goebbels si attendevano impauriti»; anzi, l'interrogatorio di Hess – riferisce da Londra a Stalin l'ambasciatore Ivan Majskij – è affidato ad un fautore della politica di appeasement. Mentre lasciano la porta aperta ad un riavvicinamento anglosovietico, i servizi segreti di Sua Maestà si impegnano a diffondere le voci, che ormai dilagano, di un'imminente pace separata tra Londra e Berlino; tutto ciò al fine di accrescere la pressione sull'Unione Sovietica (che forse avrebbe cercato di prevenire la paventata saldatura dell'alleanza tra Gran Bretagna e Terzo Reich con un attacco preventivo dell'Armata rossa contro la Wehrmacht) e di rafforzare comunque la capacità contrattuale dell'Inghilterra .
    Ben si comprendono la cautela e la diffidenza del Cremlino: era in agguato il pericolo di una riedizione di Monaco su scala ben più larga e ben più tragica. Si può altresì ipotizzare che la seconda campagna di disinformazione inscenata dal Terzo Reich abbia giocato un ruolo. Stando almeno alla trascrizione rinvenuta negli archivi del partito comunista sovietico, pur dando per scontato il coinvolgimento a breve termine dell'URSS nel conflitto, nel discorso rivolto il 5 maggio 1941 ai licenziandi dell'Accademia militare Stalin sottolineava come storicamente la Germania avesse conseguito la vittoria quando era stata impegnata su un solo fronte, mentre aveva subito la sconfitta allorché era stata costretta a combattere contemporaneamente a est e a ovest. Ecco, Stalin potrebbe aver sottovalutato la sicumera con cui Hitler era pronto ad aggredire l'URSS. D'altro canto, egli ben sapeva che una precipitosa mobilitazione totale avrebbe fornito al Terzo Reich su un piatto d'argento il casus belli, com'era avvenuto allo scoppio della Prima guerra mondiale. C'è comunque un punto fermo: pur muovendosi con circospezione in una situazione assai aggrovigliata, il leader sovietico procede a una «accelerazione dei preparativi di guerra». In effetti, «tra maggio e giugno sono richiamati 800.000 riservisti, a metà maggio 28 divisioni sono dislocate nei distretti occidentali dell'Unione Sovietica», mentre procedo¬no a ritmo serrato i lavori di fortificazione delle frontiere e di camuffamento degli obiettivi militari più sensibili. «Nella notte tra 21 e il 22 giugno questa vasta forza è messa in allarme e chiamata a prepararsi per un attacco di sorpresa da parte dei tedeschi».
    Per screditare Stalin, Chruscév insiste sulle spettacolari vittorie iniziali dell'esercito invasore, ma sorvola sulle previsioni a suo tempo formulate in Occidente. Dopo lo smembramento della Cecoslovacchia e l'ingresso a Praga della Wehrmacht, lord Halifax aveva continuato a respingere l'idea di un riavvicinamento dell'Inghilterra all'URSS facendo ricorso a questo argomento: non aveva senso allearsi con un paese le cui forze armate erano «insignificanti». Alla vigilia dell'operazione Barbarossa o al momento del suo scatenamento i servizi segreti britannici avevano calcolato che l'Unione Sovietica sarebbe stata «liquidata in 8-10 settimane»; a loro volta, i consiglieri del segretario di Stato americano (Henry L. Stimson) avevano previsto il 23 giugno che tutto si sarebbe concluso in un periodo di tempo tra uno e tre mesi. Peraltro, la fulminea penetrazione in profondità della Wehrmacht – osserva ai giorni nostri un illustre studioso di storia militare – si spiega agevolmente con la geografia:
    L'estensione del fronte – 1.800 miglia – e la scarsità di ostacoli naturali offrivano al¬l'aggressore immensi vantaggi per l'infiltrazione e la manovra. Nonostante le dimensioni colossali dell'Armata rossa, il rapporto tra le sue forze e lo spazio era così sfavorevole che le unità meccanizzate tedesche potevano trovare agevolmente le occasioni di manovre indirette alle spalle del loro avversario. Inoltre, le città largamente distanziate e dove convergevano strade e ferrovie offrivano all'aggressore la possibilità di puntare su obiettivi alternativi, mettendo il nemico nella difficile situazione di dover indovinare la reale direzione di marcia e di dover affrontare un dilemma dopo l'altro.



    Il rapido delinearsi del fallimento della guerra-lampo


    Non bisogna lasciarsi abbagliare dalle apparenze: a ben guardare, il progetto del Terzo Reich di rinnovare a est il trionfale Blitzkrieg realizzato a ovest comincia a rivelarsi problematico già nelle prime settimane del gigantesco scontro. A tale proposito risultano illuminanti i diari di Joseph Goebbels. All'immediata vigilia dell'aggressione egli sottolinea l'irresistibilità dell'imminente attacco tedesco, «senza dubbio il più poderoso che la storia abbia mai conosciuto»; nessuno potrà seriamente contrastare il «più forte schieramento della storia universale». E dunque: «Siamo dinanzi ad una marcia trionfale senza precedenti. Considero la forza militare dei russi molto bassa, ancora più bassa di quanto la consideri il Fuhrer. Se c'era e se c'è un'azione sicura, è questa». In realtà non è inferiore la sicumera di Hitler, che qualche mese prima con un diplomatico bulgaro così si era espresso a proposito dell'esercito sovietico: è solo una «barzelletta».
    Sennonché, sin dall'inizio gli invasori si imbattono, nonostante tutto, in spiacevoli sorprese: «Il 25 giugno, in occasione del primo raid su Mosca, la difesa antiaerea si rivela di una tale efficacia che da quel momento la Luftwaffe è costretta a limitarsi a raids notturni a ranghi ridotti». Bastano dieci giorni di guerra perché comincino a cadere in crisi le certezze della vigilia. Il 2 luglio Goebbels annota nel suo diario: «Nel complesso, si combatte molto duramente e ostinatamente. Non si può in alcun modo parlare di passeggiata. Il regime rosso ha mobilitato il popolo». Gli avvenimenti incalzano e l'umore dei dirigenti nazisti muta in modo radicale, come emerge sempre dal diario di Goebbels.
    24 luglio:
    Non possiamo nutrire alcun dubbio sul fatto che il regime bolscevico, che esiste da quasi un quarto di secolo, ha lasciato profonde tracce nei popoli dell'Unione Sovietica [ ... ]. Sarebbe dunque giusto mettere con grande chiarezza in evidenza, dinanzi al popolo tedesco, la durezza della lotta che si svolge a est. Bisogna dire alla nazione che questa operazione è molto difficile, ma che possiamo superarla e che la supereremo.
    1° agosto:
    Nel quartier generale del Führer apertamente si ammette anche che ci si è un po' sbagliati nella valutazione della forza militare sovietica. I bolscevichi rivelano una resistenza maggiore di quella che supponessimo; soprattutto i mezzi materiali a loro disposizione sono maggiori di quanto pensassimo.
    19 agosto:
    Il Fuhrer è intimamente molto irritato con se stesso per il fatto di essersi lasciato ingannare sino a tal punto sul potenziale dei bolscevichi dai rapporti [degli agenti tedeschi inviati] dall'Unione Sovietica. Soprattutto la sua sottovalutazione dei carri armati e dell'aviazione del nemico ci ha creato molti problemi. Egli ne ha sofferto molto. Si tratta di una grave crisi [.. Messe a confronto, le campagne condotte sinora erano quasi passeggiate [ ... ]. Per quanto riguarda l'ovest il Führer non ha alcun motivo di preoccupazione [.. Col rigore e con l'oggettività di noi tedeschi abbiamo sempre sopravvalutato il nemico, con l'eccezione in questo caso dei bolscevichi.
    16 settembre:
    Abbiamo calcolato il potenziale dei bolscevichi in modo del tutto errato.
    Gli studiosi di strategia militare sottolineano le difficoltà impreviste in cui in Unione Sovietica subito si imbatte una macchina da guerra poderosa, sperimentata e circonfusa dal mito dell'invincibilità. E' «particolarmente significativa per l'esito della guerra orientale la battaglia di Smolensk della seconda metà di luglio del 1941 (finora rimasta nella ricerca ampiamente coperta dall'ombra di altri accadimenti)» . L'osservazione è di un illustre storico tedesco, che riporta poi queste eloquenti note di diario stese dal generale Fedor von Bock il 20 e il 26 luglio:
    Il nemico vuole riconquistare Smolensk ad ogni costo e vi fa giungere sempre nuove forze. L'ipotesi espressa da qualche parte che il nemico agisca senza un piano non trova riscontro nei fatti [ ... ]. Si constata che i russi hanno portato a termine intorno al fronte da me costruito in avanti un nuovo compatto spiegamento di forze. In molti punti essi tentano di passare all'attacco. Sorprendente per un avversario che ha su¬bito simili colpi; deve possedere una quantità incredibile di materiale, infatti le nostre truppe lamentano ancora adesso il forte effetto dell'artiglieria nemica.
    Ancora più inquieto e anzi decisamente pessimista è l'ammiraglio Wilhelm Canaris, dirigente del controspionaggio, che, parlando col generale von Bock il 17 luglio, commenta: «Vedo nero su nero».
    Non solo l'esercito sovietico non è allo sbando neppure nei primi giorni e nelle prime settimane dell'attacco e anzi oppone «tenace resistenza», ma esso risulta ben guidato, come rivela fra l'altro la «risolutezza di Stalin di arrestare l'avanzata tedesca nel punto per lui determinante». I risultati di questa accorta guida militare si rivelano anche sul piano diplomatico: è proprio perché «impressionato dall'ostinato scontro nell'area di Smolensk» che il Giappone, lì presente con osservatori, decide di respingere la richiesta del Terzo Reich di partecipazione alla guerra contro l'Unione Sovietica. L'analisi dello storico tedesco fieramente anticomunista è confermata in pieno da studiosi russi sull'onda del Rapporto Chruscév distintisi quali campioni della lotta contro lo "stalinismo": «I piani del Blitzkrieg [tedesco] erano già naufragati alla metà di luglio». In questo contesto non appare formale l'omaggio che il 14 agosto 1941 Churchill e F. D. Roosevelt rendono alla «splendida difesa» dell'esercito sovietico. Anche al di fuori dei circoli diplomatici e governativi, in Gran Bretagna – ci informa una nota di diario di Beatrice Webb – cittadini ordinari e persino di orientamento conservatore mostrano «vivo interesse per il coraggio e per l'iniziativa sorprendenti e per il magnifico equipaggiamento delle forze dell'Armata rossa, per l'unico Stato sovrano in grado di contrastare la potenza pressoché mitica della Germania di Hitler». Nella stessa Germania, già tre settimane dopo l'inizio dell'operazione Barbarossa, cominciano a circolare voci che mettono radicalmente in dubbio la versione trionfalistica del regime. È quello che emerge dal diario di un eminente intellettuale tedesco di origine ebraica: a quanto pare, ad est «subiremmo perdite immense, avremmo sottovalutato la forza di resistenza dei russi», i quali «sarebbero inesauribili in uomini e materiale bellico».
    A lungo letta come espressione di insipienza politico-militare o addirittura di cieca fiducia nei confronti del Terzo Reich, la condotta estremamente cauta di Stalin nelle settimane che precedono lo scoppio delle ostilità appare ora in una luce del tutto diversa: «II concentramento delle forze della Wehrmacht lungo il confine con l'URSS, la violazione dello spazio aereo sovietico e numerose altre provocazioni avevano un unico scopo: attirare il grosso dell'Armata rossa il più vicino possibile al confine. Hitler intendeva vincere la guerra in una singola gigantesca battaglia». A sentirsi attratti dalla trappola sono persino valorosi generali che, in previsione dell'irruzione del nemico, premono per un massiccio spostamento di truppe alla frontiera: «Stalin respinse categoricamente la richiesta, insistendo sulla necessità di mantenere riserve di vasta scala a
    considerevole distanza dalla linea del fronte». Più tardi, avendo preso visione dei piani strategici degli ideatori dell'operazione Barbarossa, il maresciallo Georgij K. Zukov ha riconosciuto la saggezza della linea adottata da Stalin: «Il comando di Hitler contava su uno spostamento del grosso delle nostre forze al confine con l'intenzione di circondarlo e distruggerlo».
    In effetti, nei mesi che precedono l'invasione dell'URSS, discutendo coi suoi generali, il Führer osserva: «Problema dello spazio russo. L'ampiezza infinita dello spazio rende necessaria la concentrazione in punti decisivi». Più tardi, ad operazione Barbarossa già iniziata, in una conversazione egli chiarisce ulteriormente il suo pensiero: «Nella storia mondiale ci sono state sinora solo tre battaglie di annientamento: Canne, Sedan e Tannenberg. Possiamo essere orgogliosi per il fatto che due di esse sono state vittoriosamente combattute da eserciti tedeschi». Sennonché, per la Germania si rivela sempre più elusiva la terza e più grandiosa battaglia decisiva di accerchiamento e annientamento agognata da Hitler, il quale una settimana dopo è costretto a riconoscere che l'operazione Barbarossa aveva seriamente sottovalutato il nemico: «la preparazione bellica dei russi dev'essere considerata fantastica». Trasparente è qui il desiderio del giocatore d'azzardo di giustificare il fallimento delle sue previsioni. E, tuttavia, a conclusioni non dissimili giunge lo studioso inglese di strategia militare già citato: il motivo della disfatta dei francesi risiede «non nella quantità o qualità del loro materiale bensì nella loro dottrina militare»; per di più, agisce rovinosamente lo schieramento troppo avanzato dell'esercito, che «compromette gravemente la sua duttilità strategica»; un errore simile era stato commesso anche dalla Polonia, favorito «dalla fierezza nazionale e dalla fiducia eccessiva dei militari». Nulla di tutto ciò si verifica in Unione Sovietica.
    Più importante delle singole battaglie è il quadro d'assieme: «II sistema staliniano riuscì a mobilitare l'immensa maggioranza della popolazione e la quasi totalità delle risorse»; in particolare, «straordinaria» fu la «capacità dei sovietici», in una situazione così difficile come quella venutasi a creare nei primi mesi di guerra, «di evacuare e poi di riconvertire per la produzione militare un numero considerevole di industrie». Sì, «messo in piedi due giorni dopo l'invasione tedesca, il Comitato per l'evacuazione riuscì a spostare a est 1.500 grandi imprese indu¬striali, al termine di operazioni titaniche di una grande complessità logistica». Peraltro, questo processo di dislocazione era già iniziato nelle settimane o nei mesi che precedono l'aggressione hitleriana, a conferma ulteriore del carattere fantasioso dell'accusa lanciata da Chruscév.
    C'è di più. Il gruppo dirigente sovietico aveva in qualche modo intuito le modalità della guerra, che si andava profilando all'orizzonte, già al momento in cui aveva promosso l'industrializzazione del paese: con una radicale svolta rispetto alla situazione precedente, esso aveva identificato «un punto focale nella Russia asiatica», lontano e al riparo dai presumibili aggressori. In effetti, su ciò Stalin aveva insistito ripetutamente e vigorosamente. 31 gennaio 1931: s'imponeva la «creazione di un'industria nuova e ben attrezzata negli Urali, in Siberia, nel Kazachastan». Pochi anni dopo, il Rapporto pronunciato il 26 gennaio 1934 al XVII Congresso del Pcus aveva richiamato compiaciuto l'attenzione sul poderoso sviluppo industriale che nel frattempo si era verificato «in Asia centrale, nel Kazachastan, nelle Repubbliche dei Buriati, dei Tatari e dei Baschiri, negli Urali, nella Siberia orientale e occidentale, nell'Estremo Oriente ecc.». Le implicazioni di tutto ciò non erano sfuggite a Trockij che qualche anno dopo, nell'analizzare i pericoli di guerra e il grado di preparazione dell'Unione Sovietica e nel sottolineare i risultati conseguiti dall'«economia pianificata» in ambito «militare», aveva osservato: «L'industrializzazione delle regioni remote, principalmente della Siberia, conferisce alle distese delle steppe e delle foreste un'importanza nuova». Solo ora i grandi spazi assumevano tutto il loro valore e rendevano più problematica che mai la guerra-lampo tradizionalmente agognata e preparata dallo stato maggiore tedesco.
    È proprio sul terreno dell'apparato industriale edificato in previsione della guerra che il Terzo Reich è costretto a registrare le sorprese più amare, come emerge da due commenti di Hitler. 29 novembre 1941: «Com'è possibile che un popolo così primitivo possa raggiungere simili traguardi tecnici in così poco tempo?». 26 agosto 1942: «Per quanto riguarda la Russia, è incontestabile che Stalin ha elevato il tenore di vita. Il popolo russo non soffriva la fame [al momento dello scatenamento dell'operazione Barbarossa]. Nel complesso occorre riconoscere: sono state costruite officine dell'importanza delle Hermann Goering Werke là dove fino a due anni fa non esistevano che villaggi sconosciuti. Troviamo linee ferroviarie che non sono indicate sulle carte».
    A questo punto conviene dare la parola a tre studiosi fra loro assai diversi (l'uno russo e gli altri due occidentali). Il primo, che ha a suo tempo diretto l'Istituto sovietico di storia militare e che ha condiviso l'antistalinismo militante degli anni di Gorbacev, sembra ispirato dall'intenzione di riprendere e radicalizzare la requisitoria del Rapporto Chruscév. E, tuttavia, dai risultati stessi della sua ricerca egli si sente costretto a formulare un giudizio assai più sfumato: senza essere uno specialista e tanto meno il genio dipinto dalla propaganda ufficiale, già negli anni che precedono lo scoppio della guerra Stalin si occupa intensamente dei problemi della difesa, dell'industria della difesa e dell'economia di guerra nel suo complesso. Sì, sul piano strettamente militare, solo attraverso tentativi ed errori anche gravi e «grazie alla dura prassi della quotidiana vita militare», egli «apprende gradualmente i principi della strategia» In altri campi, però, il suo pensiero si rivela «più sviluppato di quello di molti leader militari sovietici». Grazie anche alla lunga pratica di gestione del potere politico, Stalin non perde mai di vista il ruolo centrale dell'economia di guerra, e contribuisce a rafforzare la resistenza dell'URSS col trasferimento verso l'interno delle industrie belliche: «è pressoché impossibile sopravvalutare l'importanza di questa impresa». Grande attenzione il leader sovietico presta infine alla dimensione politico-morale della guerra. In questo campo egli «aveva idee del tutto fuori del comune», come dimostra la decisione «coraggiosa e lungimirante», presa nonostante lo scetticismo dei suoi collaboratori, di effettuare la parata militare di celebrazione dell'anniversario della Rivoluzione d'ottobre il 7 novembre 1941, in una Mosca assediata e incalzata dal nemico nazista. In sintesi, si può dire che rispetto ai militari di carriera e alla cerchia dei suoi collaboratori in generale, «Stalin mostra un pensiero più universale». Ed è un pensiero – si può aggiungere – che non trascura neppure gli aspetti più minuti della vita e del morale dei soldati: informato del fatto che essi erano rimasti senza sigarette, grazie anche alla sua capacità di disbrigare «un enorme carico di lavoro», «nel momento cruciale della battaglia di Stalingrado, egli [Stalin] trovò il tempo di chiamare al telefono Akaki Mgeladze, capo del partito dell'Abhasia, la regione di coltivazione del tabacco: “I nostri soldati non hanno più la possibilità di fumare! Senza sigarette il fronte non regge! "».
    Nell'apprezzamento positivo di Stalin quale leader militare ancora oltre si spingono due autori occidentali. Se Chruscév insiste sui travolgenti successi iniziali della Wehrmacht, il primo dei due studiosi cui qui faccio riferimento esprime questo medesimo dato di fatto con un linguaggio assai diverso: non è stupefacente che «la più grande invasione nella storia militare» abbia conseguito iniziali successi; la riscossa dell'Armata rossa dopo i colpi devastanti dell'invasione tedesca nel giugno 1941 fu «la più grande impresa d'armi che il mondo avesse mai visto». Il secondo studioso, docente in un'accademia militare statunitense, a partire dalla comprensione del conflitto nella prospettiva della lunga durata e dall'attenzione riservata alle retrovie come al fronte e alla dimensione economica e politica come a quella più propriamente militare della guerra, parla di Stalin come di un «grande stratega», anzi come del «primo vero stratega del ventesimo secolo». È un giudizio complessivo che trova pienamente consenziente anche l'altro studioso occidentale qui citato, la cui tesi di fondo, sintetizzata nel risvolto di copertina, individua in Stalin il «più grande leader militare del ventesimo secolo». Si possono ovviamente discutere o sfumare questi giudizi così lusinghieri; resta il fatto che, almeno per quanto riguarda il tema della guerra, il quadro tracciato da Chruscév ha perso qualsiasi credibilità.
    Tanto più che, al momento della prova, l'URSS si rivela assai preparata anche da un altro essenziale punto di vista. Ridiamo la parola a Goebbels che, nello spiegare le impreviste difficoltà dell'operazione Barbarossa, oltre che al potenziale bellico del nemico, rinvia anche ad un altro fattore:
    Ai nostri uomini di fiducia e alle nostre spie era pressocché impossibile di penetrare all'interno dell'Unione Sovietica. Essi non potevano acquisire un quadro preciso. I bolscevichi si sono direttamente impegnati a trarci in inganno. Di tutta una serie di armi da loro possedute, soprattutto di armi pesanti, non abbiamo avuto alcuna idea. Esattamente il contrario di quello che si è verificato in Francia, dove sapevamo in pratica tutto e non potevamo in alcun modo esser sorpresi.
    Ultima modifica di Murru; 04-07-11 alle 19:41

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    Predefinito Re: Rif: Stalingrado

    Citazione Originariamente Scritto da Murru Visualizza Messaggio
    La grande vittoria dei popoli sovietici sul nazifascismo

    Il 22 giugno 1941 iniziava l’attacco della Germania nazista all’ Unione Sovietica

    di Aldo Calcidese

    “Unione Sovietica, se insieme raccogliessimo
    tutto il sangue che hai versato nella lotta,
    tutto quello che hai dato, come una madre, al mondo
    perché la libertà agonizzante riavesse vita,
    un nuovo oceano noi avremmo,
    di tutti il più grande,
    di tutti il più profondo.”
    (Pablo Neruda – Canto generale – ed. Accademia, secondo volume, pag.125)

    Alle 3,30 del 22 giugno, l’esercito tedesco iniziava l’attacco al territorio sovietico.

    Dopo i primi successi, l’euforia dei capi nazisti era tale che il generale Halder scrisse nel suo diario. “Non è esagerato dire che il 'Feldzug' contro la Russia è stato vinto in 14 giorni”.

    Ma in realtà già dal mese di luglio si era visto che l’esercito sovietico, malgrado le gravi perdite in uomini e materiali, aveva mostrato una resistenza sempre crescente, tanto che il generale Blummentritt scrisse a questo proposito: “Il comportamento delle truppe russe già in questa prima battaglia (per la presa di Minsk) è stato ben diverso da quello dei polacchi e degli Alleati occidentali da noi messi in rotta. Anche se circondati, i russi resistevano e combattevano”. Arriveranno presto, per i tedeschi, le prime sconfitte militari.

    In occidente, si esprimeva grande sorpresa per la capacità di resistenza dell’URSS.

    “Per la prima volta, i tedeschi sono stati affrontati da un esercito addestrato non per la guerra del 1918, ma per la guerra del 1941”, scriveva George Fielding Eliot il 29 luglio 1941. Ed aggiungeva che l’URSS usava “posizioni difensive di grande profondità, saldamente tenute ovunque, camuffamenti di notevole abilità a protezione dell’artiglieria russa dagli attacchi aerei, unità mobili di contrattacco contro le colonne dei panzer tedeschi ed un’aviazione che sostiene completamente le truppe a terra”.

    Il 30 settembre, i nazisti iniziavano l’offensiva che aveva come obiettivo l’occupazione di Mosca. Mosca fu bombardata dall’aviazione tedesca, una parte dell’amministrazione fu evacuata. Ma Stalin decise di rimanere a Mosca e di organizzare la tradizionale parata militare del 7 novembre sulla Piazza Rossa. Questo fu un segnale di grande significato per tutto il popolo, la dimostrazione che la direzione del partito e dello stato sovietico credevano nella vittoria. Stalin pronunciò un discorso che venne diffuso in tutto il paese:

    “Il nemico è alle porte di Leningrado e di Mosca. Contava sul fatto che al primo colpo il nostro esercito si sarebbe disperso e il nostro paese si sarebbe messo in ginocchio. Ma il nemico si è dolorosamente sbagliato. Il nostro paese, tutto il nostro paese ha formato un unico campo militare per assicurare, d’intesa col nostro esercito e con la nostra flotta, la sconfitta degli invasori tedeschi…Si può dubitare che noi possiamo e dobbiamo vincere gli invasori tedeschi? Il nemico non è così forte come lo rappresentano certi intellettuali impauriti. Il diavolo non è poi così nero come lo si dipinge…Compagni soldati e marinai rossi, comandanti e lavoratori politici, partigiani e partigiane! Il mondo intero vede in voi una forza capace di annientare le orde di invasione dei banditi tedeschi. I popoli asserviti dell’Europa, caduti sotto il giogo tedesco, vi guardano come loro liberatori.
    Una grande missione liberatrice vi è trasmessa. Siate dunque degni di questa grande missione. Che la bandiera vittoriosa del grande Lenin vi raduni sotto le sue pieghe.”
    (Stalin, Oeuvres, tomo XVI, ed. NBE, 1975, p.38)

    Il 25 novembre, alcune unità tedesche penetrarono nella periferia sud di Mosca. Ma il 5 dicembre l’attacco venne contenuto.

    Dopo avere consultato tutti i comandanti, Stalin decise una grande controffensiva.

    Il 6 dicembre il generale Zukov passò all’attacco, lanciando sette armate e due corpi di cavalleria, cento divisioni in tutto, con soldati ben equipaggiati e addestrati a combattere a temperature bassissime e con la neve alta.

    Il colpo sferrato da Zukov con un imponente schieramento di truppe, artiglieria, carri armati, cavalleria e aviazione – schieramento di cui i capi nazisti non erano assolutamente a conoscenza – fu talmente sconvolgente che l’esercito tedesco, battuto e in ritirata, fu sul punto di disintegrarsi completamente.

    “Il mito dell’invincibilità dell’esercito tedesco era stato infranto”, scriverà poi il generale Halder. I nazisti dovettero fare i conti anche con qualcosa che non avevano ancora sperimentato, se non episodicamente: la lotta partigiana. Il movimento partigiano assunse fin dall’inizio della guerra una grande ampiezza. Gli stessi occupanti riconobbero il legame indissolubile esistente tra i partigiani sovietici e il popolo.

    “I reparti partigiani – scrisse l’ex ufficiale hitleriano Middweldorf – trovavano dappertutto un appoggio nascosto o persino palese presso la popolazione civile.”

    Dimensioni particolarmente rilevanti raggiunse l’attività sabotatrice nelle regioni della steppa dell’Ucraina. Minatori ed operai metallurgici del Donbass riuscirono a sabotare il lavoro con tale maestria che i tedeschi non riuscirono ad ottenere nel Donbass né una regolare estrazione di carbone né una regolare produzione di metallo. Furono costretti a trasportare il carbone in Ucraina dall’Europa occidentale.

    In attesa del “secondo fronte”

    La nuova situazione sul fronte sovietico-tedesco, mutata a favore dell’URSS, creava le premesse per una disfatta della Germania nazista. Era però indispensabile che l’offensiva dell’Esercito Rosso venisse sostenuta dalle truppe alleate con un’azione contro la Germania che partisse da occidente.

    Il governo sovietico nell’autunno del 1941 rivolse al governo inglese la richiesta di aprire un secondo fronte in Europa. Nel suo messaggio di risposta, Churchill dichiarò che non vi era alcuna possibilità di aprire il secondo fronte perché l’Inghilterra non disponeva delle truppe e degli armamenti necessari.

    In realtà, l’Inghilterra si trovava in stato di guerra con la Germania dal 1939. Le sue riserve erano tanto più consistenti in quanto in due anni il comando inglese non aveva intrapreso alcuna grande offensiva. Come viene detto da Churchill nelle sue Memorie, all’inizio di settembre del 1941 nelle isole britanniche c’erano più di due milioni di soldati più 1.500.000 uomini che facevano parte delle formazioni territoriali di difesa. Nell’autunno del 1941 33 divisioni erano già mobilitate e comprendevano numerose unità di rinforzo. La produzione dell’industria bellica inglese era notevole. Per alcuni tipi di armamenti, a cominciare dagli aeroplani, superava quella tedesca. La marina militare della Gran Bretagna aveva grandi possibilità di intervento. Molti statisti inglesi riconoscevano questa situazione.

    Lord Beaverbrook, tornato nell’ottobre del 1941 da Mosca, scrisse:

    “E’ assurdo affermare che noi non possiamo fare nulla per la Russia.
    Lo possiamo, se ci decidiamo a sacrificare i progetti a lunga scadenza e una concezione bellica che, pur continuando ad essere accarezzata, è definitivamente invecchiata.”

    Anche il capo di Stato maggiore statunitense Marshall riconobbe che gli Stati Uniti erano in grado di aprire il secondo fronte.

    “Per essere sinceri, va detto che disponiamo di truppe bene addestrate, di scorte di armamenti, di una buona aviazione e di divisioni corazzate”.

    Ma perché gli anglo-americani non vollero aprire il secondo fronte in Europa né nel 1942 né nel 1943? Lo spiega molto bene Klement Gottwald, che fu prima segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e poi presidente della Repubblica:

    “E quando l’Unione Sovietica e le potenze occidentali combattevano ormai insieme contro la Germania hitleriana finirono forse, almeno allora, gli intrighi antisovietici? Non finirono neppure allora! E’ a tutti nota la storia del cosiddetto secondo fronte. L’Unione Sovietica sanguinava da innumerevoli ferite; essa impegnava e incatenava la grande maggioranza delle forze armate tedesche, dando all’Inghilterra e agli Stati Uniti la possibilità di prepararsi seriamente all’ulteriore condotta della guerra.

    E quando questa preparazione fu, secondo ogni umana previsione, ultimata, l’Unione Sovietica chiese che venisse aperto il secondo fronte in occidente.

    Gli argomenti dell’Unione Sovietica e la voce dei popoli di tutti i paesi furono così forti che gli esponenti dei paesi occidentali si impegnarono ad aprire a occidente il secondo fronte entro un certo termine. Si impegnarono una prima volta e non fecero niente. Si impegnarono una seconda volta e ancora non fecero niente. Solo più tardi, quando l’ulteriore inattività non era ormai più tollerabile, organizzarono il “secondo fronte” nell’Africa settentrionale e in Italia, un “secondo fronte” che non stornò dal fronte sovietico-tedesco neanche una divisione germanica. Perché i signori occidentali organizzarono un surrogato di secondo fronte nell’Africa settentrionale?

    Dal sud essi speravano di poter arrivare ai Balcani e all’Europa centrale prima dell’esercito sovietico e di assicurare in questo modo queste regioni al capitalismo.

    Comunque gli strateghi di Churchill erano certi che alla fine della seconda guerra mondiale avrebbero incontrato al tavolo delle trattative una Unione Sovietica dissanguata, indebolita, impotente. In secondo luogo si aspettavano che i paesi liberati dall’Unione Sovietica sarebbero tornati al capitalismo e nelle braccia degli imperialisti. Non avvenne né la prima né la seconda cosa. Solo chi sia irrimediabilmente ottuso può pensare sul serio che queste nazioni, che nel corso di una sola generazione avevano subito due bagni d sangue, potessero auspicare un puro e semplice ritorno alla situazione d’anteguerra. Potevano auspicare ciò tanto meno in quanto negli anni precedenti alla guerra e in quelli della guerra avevano visto chiaramente l’infamia, la doppiezza e l’incapacità delle classi prima dominanti e in quanto erano stati anche traditi dagli imperialisti occidentali.”

    (Klement Gottwald, La Cecoslovacchia verso il socialismo, edizioni Rinascita, Roma, 1952, pp.299-301)

    Non solo. Gli imperialisti anglo-americani volevano approfittare della situazione esistente nel fronte sovietico-tedesco per creare basi militari nei principali centri economici e strategici dell’URSS.

    Churchill inviò una nota al Comando congiunto anglo-americano, nella quale chiedeva che non si facesse sfuggire l’occasione per un’invasione del Caucaso. Soltanto una cosa lo preoccupava: che fare di questi piani se l’offensiva tedesca del 1942 dovesse fallire.

    (W.Churchill, The Second World War, vol.4, p. 514)


    Stalingrado e la vittoria dell’Armata Rossa

    Tutto il peso della guerra contro il nazifascismo in Europa rimane così sulle spalle dell’Unione Sovietica, almeno fino al giugno del 1944 quando, spaventati dalla travolgente avanzata dell’Armata Rossa verso Berlino, gli anglo-americani si decidono a sbarcare in Normandia.

    La svolta della guerra avviene a Stalingrado.

    “I tedeschi effettuano 1500-2000 incursioni al giorno, scaricando sulla città quotidianamente dalle 6 alle 8 mila bombe. Gli infami assassini hanno distrutto, incendiato interi quartieri, hanno messo fuori servizio decine di aziende. Ma la città continua a vivere, lavorare e combattere. Martoriata, carbonizzata ma irremovibile, resiste all’assalto del nemico ed infligge agli hitleriani colpi mortali, dissanguando l’armata tedesca. La fama della sua fermezza e della sua tenacia nella lotta contro il nemico si è diffusa in tutto il paese e in tutto il mondo. I combattenti di Stalingrado hanno già eliminato più di 175.000 tedeschi occupanti…Tutto il paese è accorso in aiuto di Stalingrado. Lotteremo per la nostra città sino all’ultima goccia di sangue.”
    (dal comunicato del Comitato regionale del Partito Comunista bolscevico dell’URSS sulla situazione di Stalingrado)

    E giunse il momento di passare da un’eroica resistenza a una potente controffensiva, una controffensiva devastante per l’aggressore nazista.
    Le unità corazzate sovietiche erano riuscite a realizzare l’accerchiamento delle forze nemiche presso Stalingrado.
    Nella morsa gigantesca vennero a trovarsi più di 300.000 uomini.
    Il 31 gennaio 1943 il grosso delle truppe tedesche aveva cessato la resistenza. Il generale Von Paulus alfine non potè che accettare l’ultima proposta di resa dei sovietici, dopo avere respinto le due precedenti.

    Dopo la guerra, in opere storiche pubblicate nell’ Europa occidentale e negli Stati Uniti, si è cercato di sminuire l’importanza della battaglia di Stalingrado. Anche il generale Marshall, ex-capo di Stato maggiore dell’esercito degli Stati Uniti, in un rapporto al presidente Roosevelt, scrisse: “ la crisi della guerra è iniziata a Stalingrado e a El Alamein.” Questa affermazione non è corretta, dal momento che sul fronte sovietico-tedesco i nazifascisti avevano, nell’autunno del 1942, 226 divisioni, mentre nell’Africa settentrionale avevano – al momento della battaglia di El Alamein – solo dodici divisioni, di cui otto italiane. Dopo Stalingrado, l’Armata Rossa assume la direzione delle operazioni militari fino a varcare, nel 1945, le frontiere della Germania.

    Va ricordato che i dirigenti nazisti erano al corrente dei piani antisovietici dei governanti anglo-americani e si adoperarono per aiutarli. Infatti il comando tedesco a un certo punto cessò la resistenza ad ovest ed aprì il fronte perché potessero avanzare le truppe angloamericane.

    L’ammiraglio nazista Donitz, che successe a Hitler dopo il suicidio del dittatore nazista, dichiarò a un gruppo di ufficiali tedeschi: “Dobbiamo marciare a fianco delle potenze occidentali e cooperare con esse nei territori occupati dell’ovest, perché solo in collaborazione con esse potremo in futuro strappare terra ai russi.”
    (The Times, 17.8.1948)

    Il governo sovietico rifiutò di accettare la legittimità di un accordo che si era realizzato a Reims, e che prevedeva la resa delle armate naziste agli eserciti angloamericani. L’Unione Sovietica esigette che l’atto di capitolazione si firmasse a Berlino. I governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna furono costretti ad accettare questa richiesta.

    Quale fu il segreto della grande vittoria dei popoli sovietici sul nazifascismo?

    Indubbiamente, il tanto criticato patto Molotov-Ribbentrop concesse all’Unione Sovietica due anni di tempo prezioso per prepararsi alla guerra contro la Germania e questo tempo fu sfruttato molto bene se è vero quello che scrive il maresciallo Zukov nelle sue Memorie:

    “Le consegne militari effettuate tra il 1° gennaio 1939 e il 22 giugno 1941 erano enormi. L’artiglieria ricevette 92.578 pezzi. Nuovi mortai da 82 e 120 millimetri furono introdotti poco prima della guerra. La Forza Aerea ricevette 17.745 aerei da combattimento, di cui 3.719 nuovi modelli. Le misure prese dal 1939 al 1941 hanno creato le condizioni richieste per ottenere rapidamente la superiorità qualitativa e quantitativa.”
    (Jukov, Memoires, tomo II, Ed. Fayard, Paris, 1970, p. 296)

    Sui motivi che resero possibile la vittoria sul nazifascismo, Zukov aggiunge:

    “Un’industria sviluppata, un’agricoltura collettivizzata, l’istruzione pubblica estesa a tutta la popolazione, l’unità della nazione, la potenza dello Stato socialista, il livello elevato di patriottismo del popolo, la direzione che, attraverso il Partito, era pronta a realizzare l’unità tra il fronte e le retrovie, tutto questo insieme di fattori fu la causa prima della grande vittoria che doveva coronare la nostra lotta contro il fascismo. Il solo fatto che l’industria sovietica avesse potuto produrre una quantità colossale di armamenti…prova che le basi dell’economia, dal punto di vista militare, erano state poste nel modo dovuto e che erano solide…In tutto ciò che era essenziale e fondamentale, il Partito e il popolo hanno saputo preparare la difesa della patria.”
    (Jukov, op. cit. pp. 335-337)


    Il ruolo di Stalin

    Diversi esponenti della borghesia, anche della borghesia reazionaria come Winston Churchill, hanno riconosciuto le grandi capacità militari di Stalin come Comandante in capo dell’ Armata Rossa. Churchill, pur essendo un anticomunista e un nemico dichiarato dell’Unione Sovietica, parlando di Stalin disse:

    “ Rispetto questo grande ed eccellente uomo…Assai pochi erano nel mondo coloro che potevano comprendere, in così pochi minuti, le questioni con le quali ci arrabattavamo da mesi. Egli aveva afferrato tutto in un lampo” (citato da Enver Hoxha nell’articolo “ Nel centenario della nascita di Giuseppe Stalin” del 1979)

    Solo un gruppetto di revisionisti ha tentato di realizzare una ”missione impossibile”: quella di separare il nome di Stalin dalla grande epopea dei popoli sovietici , cercando di dimostrare che i successi furono realizzati senza la partecipazione di Stalin o addirittura “malgrado i gravi errori” di Stalin.

    Nikita Chruscev inventò la favola secondo cui – dopo l’aggressione nazista – Stalin sarebbe “scomparso” per tre settimane, lasciando il Partito e l’esercito senza direttive.

    Nelle sue Memorie, il maresciallo Zukov lo smentisce ricordando che Stalin, appena informato dell’attacco tedesco, gli ordinò di convocare l’Ufficio Politico per le 4,30. Nella stessa giornata del 22, Stalin prese decisioni di notevole importanza.

    “Verso le 13 del 22 giugno Stalin mi chiamò: i nostri comandanti di fronte non hanno esperienza sufficiente per dirigere operazioni militari, in molti sono palesemente disorientati. L’Ufficio Politico ha deciso di inviarvi sul fronte Sud-Ovest in qualità di rappresentante della Stavka (Quartier Generale). Sul fronte Ovest invieremo il maresciallo Saposnikov e il maresciallo Kulik.”
    Dopo il 22 giugno 1941 e per tutta la durata della guerra, Giuseppe Stalin assicurò la ferma direzione del paese, della guerra e delle nostre relazioni internazionali.”
    (Jukov, op. cit. pp.354, 395, 396)

    Nikita Chruscev ha affermato anche:

    “Il potere accumulato nelle mani di un solo uomo, Stalin, comportò delle gravi conseguenze nella grande guerra patriottica. Stalin agisce per tutti, non conta su nessuno, non chiede il parere a nessuno”

    Il generale d’armata Stemenko, che lavorò presso lo Stato maggiore generale, afferma:

    “Devo dire che Stalin non decideva e nemmeno amava decidere da solo sulle questioni importanti della guerra. Capiva perfettamente la necessità del lavoro collettivo in questo campo così complesso, riconosceva le persone autorevoli nell’uno o nell’altro problema militare, teneva conto della loro opinione e riconosceva a ciascuno la sua competenza.”
    (Chtèmenko, L’Etat Major general soviètique en guerre, Ed. du Progrès, Moscou, 1978, tomo II, p.319)

    Vasilevskij, che fu aiutante di Zukov e, successivamente, egli stesso capo di Stato maggiore e lavorò con Stalin per tutta la durata della guerra, scrive:

    “Per la preparazione dell’una o dell’altra decisione di ordine operativo o per l’esame di altri problemi importanti, Stalin faceva venire delle personalità responsabili che avevano un rapporto diretto con la questione esaminata…Questo lavoro spesso impegnava diversi giorni, durante i quali Stalin aveva degli incontri con i comandanti e i membri dei consigli militari dei fronti…L’Ufficio Politico, la Direzione delle Forze Armate si appoggiavano sempre sulla ragione collettiva. Ecco perché le decisioni strategiche prese dal comando supremo ed elaborate collettivamente rispondevano sempre, in generale, alla situazione concreta al fronte.”
    (Vassilevski, La cause de toute une vie, Ed. du Progrès, Moscou, 1975, pp.34-36)

    E il maresciallo Zukov ricorda:

    “Il lavoro della Stavka si metteva in pratica, di regola, sotto il segno dell’organizzazione, della calma. Ognuno poteva esprimere la propria opinione. Giuseppe Stalin si rivolgeva a tutti nello stesso modo, con un tono severo e abbastanza ufficiale. Quando gli si faceva un rapporto con piena cognizione di causa, sapeva ascoltare. Occorre dire, cosa di cui mi sono convinto durante i lunghi anni della guerra, che Giuseppe Stalin non era affatto un uomo a cui non si poteva parlare dei problemi difficili, con cui non si poteva discutere e perfino difendere energicamente il proprio punto di vista. Se alcuni affermano il contrario, direi semplicemente che le loro asserzioni sono false.”
    (Jukov, op.cit., p.415)

    Tutte le menzogne di Chruscev servivano in realtà a giustificare la svolta di 180 gradi che i revisionisti intendevano imporre alla politica sovietica.

    Una cosa però è certa: mentre oggi i nomi di Chruscev, di Mikojan e degli altri revisionisti che organizzarono il colpo di stato del 1956 promuovendo la cosiddetta destalinizzazione sono ormai finiti nella spazzatura della storia, e nessuno si ricorda più di loro, il nome di Stalin rimane e rimarrà sempre indissolubilmente legato ai grandi successi dell’edificazione socialista in URSS e alla grande vittoria dell’Armata Rossa e dei popoli sovietici sul nazifascismo.


    La grande vittoria dei popoli sovietici sul nazifascismo

    La parte in corsivo è certamente quella che preferisco, lo ammetto.

 

 
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