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    Wink Filosofia eurosiberiana: l'idea nominalista

    L'idea nominalista. Fondamenti di un atteggiamento verso la vita

    Di Alain de Benoist - Numero 7 del 01/07/1981

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    Ogni teoria nominalista postula che le idee non sono vere se non in quanto incarnate, cioè vissute. Non è questa solo una questione di etica (mettere d'accordo le proprie idee e i propri atti), ma una affermazione di portata molto più generale: non c'è verità al di fuori di ciò che è incarnato; il che, per noi, equivale a dire che non c'è realtà al di fuori del reale. Il nostro "anti-intellettualismo" deriva da questa convinzione che la vita vale sempre più dell'idea che ce ne si fa; che c'è preminenza dell'anima sullo spirito, del carattere sull'intelligenza, della sensibilità sull'intelletto, dell'immagine sul concetto, del mito sulla dottrina.

    Parimenti, è impossibile dimostrare in astratto che un comportamento è preferibile ad un altro. Qualsiasi comportamento può essere preferibile secondo il sistema di valori e i criteri di apprezzamento ai quali ci si riferisce, coscientemente o incoscientemente (se la morte è giudicata peggio di qualsiasi cosa, val meglio disertare che andare a battersi; se invece il disonore è giudicato peggio che la morte, è vero il contrario). Non si può mai dimostrare in assoluto la verità dei postulati sui quali si costruisce un sistema di valori. La si dimostra soltanto a partire da quei postulati, ed a favore esclusivamente di coloro che li ammettono. La scienza stessa non sfugge alla regola: l'errore di un Jacques Monod quando parla di "etica della conoscenza" è di non vedere che non è evidente per tutti che un enunciato scientifico debba essere preferito ad un altro. È qui che bisogna rompere con il positivismo (le cui qualità critiche ci sembrano per altro indiscutibili): la prospettiva scientifica non è che una prospettiva tra le altre; la ragione ha un ruolo puramente strumentale: non è un valore in sé, ma uno strumento.


    Due concezioni della storia

    Prima di esaminare a quale sistema di valori noi scegliamo di far riferimento, e in quale maniera operiamo la nostra scelta, appare necessario fare un breve richiamo teorico in due campi della nostra visione del mondo: filosofia della storia e concezione/percezione dell'universo.

    - La storia come non-senso

    Nel divenire dell'Europa, due grandi concezioni della storia non hanno cessato di affiancarsi e di affrontarsi, sotto forme peraltro molteplici: la storia "lineare" e la storia "ciclica". La concezione "lineare" della storia appare nello spazio-tempo europeo con il giudeocristianesimo. Essa pone il divenire storico come una linea che collega uno stato antestorico (paradiso originale, giardino dell'Eden) a uno stato poststorico (instaurazione del regno di Dio in terra). La struttura di questo schema è stata descritta parecchie volte. Un tempo, l'uomo viveva in perfetta armonia con il Creatore. Ma un giorno, commise un errore (il peccato originale ereditario); fu espulso allora dal paradiso e entrò nella storia, in questa "valle di lacrime", dove è obbligato a "guadagnarsi il pane con il sudore della fronte". Tuttavia, grazie alla Buona Novella, che costituisce la venuta del Messia (Gesù nel sistema cristiano) sulla terra, può ormai fare la "buona scelta" e assicurare la sua salvezza (individuale) per l'eternità. Alla fine dei tempi, dopo 1'Armageddon finale, i buoni e i cattivi saranno definitivamente separati gli uni dagli altri. Lo stato post-storico restaurerà lo stato antestorico, e sarà la fine della storia: la storia si richiuderà, si riassorbirà, come una parentesi.

    Strutturalmente parlando, questo schema, riportato sulla terra sostituendo l'al di qua all'al di là, si ritrova esattamente nella teoria marxista [alias]:un tempo l'uomo viveva felice nel comunismo originale, ma un giorno commise un errore. Fu la divisione del lavoro, che determinò il sorgere della proprietà privata, l'appropriazione dei mezzi di produzione, la dominazione dell'uomo sull'uomo, la nascita delle classi. L'uomo entrò nella storia, una storia caratterizzata dal conflitto, dai rapporti d'autorità, ecc., e di cui la "lotta delle classi" costituisce il motore essenziale. Però, ad un certo momento del divenire storico, la classe più sfruttata prende coscienza della sua condizione e, quindi, sì istituisce in Messia collettivo dell'umanità. L'uomo può ormai fare la "buona scelta" e operare per il più rapido compimento della lotta intrapresa. Alla fine dei tempi, dopo la "lotta finale", i buoni e i cattivi saranno definitivamente separati gli uni dagli altri. La società senza classi restituirà - con in più l'abbondanza - le condizioni felici del comunismo originale. Le istituzioni deperiranno, lo Stato diverrà inutile. Sarà la fine della Storia.

    Un importante correttivo a questa teoria della storia è stato apportato da certi filosofi neomarxisti, specificatamente dai membri della scuola di Fran­coforte [alias] , e anche, in una certa misura, dall'ultimo Freud [alias] (cfr. Il disagio della civiltà). In quest'ottica, la concezione degli inizi della storia resta sensibilmente la stessa, ma un dubbio sempre più grande si fa strada sulle possibilità del suo compimento. Si pone allora come principio che il male è sempre destinato a riprodursi, che non si sfuggirà mai ai rapporti d'autorità e di dominazione. Ma non se ne conclude tuttavia che questo "male", che forma la trama di ogni realtà sociale, non è forse così cattivo come si era voluto dire. Proprio al contrario, si afferma che in queste condizioni, la sola possibilità per l'uomo di non "aggiungere male al male", è di continuare a riferirsi all'idea di una fine della storia, anche e soprattutto se si sa che questa non può mai arrivare. È questa attesa messianica che è considerata, in se stessa, come operante e feconda. L'attitudine che deriva logicamente da questa visione delle cose è un ipercriticismo di principio; si tratta di opporre un perpetuo "no" ai pericoli che racchiude ogni "sì". Ritroviamo un'attitudine similare nei "neomonoteisti" del tipo di Bernard-Henri Lévy (La barbarie dal volto umano, Il testamento di Dio).

    Mentre la teoria marxista "ortodossa" riproduce, sotto una forma laica, la teoria cristiana della storia, si può dire che la teoria neomarxista o freudo-marxista riproduce più strettamente quella del giudaismo classico. Nella prospettiva del giudaismo, il peccato originale non è visto sotto l'angolazione " meccanica " della dottrina cristiana (le Scritture non esigono penitenza per un'eredità gravata di peccato, nè ci sono credenze capaci di per se stesse di procurare la salvezza). D'altra parte il Messia non è ancora venuto (Gesù è un impostore). Al limite, si dubita persino che venga mai; ma la sua attesa, di per se stessa, è operante e feconda ("Questo Messia che non viene mai", scrive Robert Aron, "ma di cui la sola attesa, sebbene eternamente delusa, è efficace e necessaria", Le judaisme, Buchet-Chastel, 1977).

    Si dirà della concezione lineare della storia, per riassumere, che essa permea la storia di un carattere unidimensionale, di una necessità (ineluttabile: è impensabile che la storia non si svolga, messe da parte tutte le contingenze e gli accidenti, secondo la "Rivelazione" che l'uomo ne ha avuto - nella Bibbia o nel Capitale) e di una finalità. La storia acquista così un senso, nelle due accezioni del termine: essa ha un significato, va dunque in una certa direzione. Di conseguenza, la libertà dell'uomo è strettamente limitata: l'uomo non è libero di fare della storia ciò che vuole, non ha che la scelta di accettare la rivelazione che gli è fatta coni mezzi della più alta autorità possibile in rapporto al sistema (“Dio" nello schema giudeo-cristiano, la "scienza sociale” nello schema marxista). D'altra parte, il passato, il presente e il futuro sono percepiti come radicalmente distinti l'uno dall'altro: il passato (all'interno della storia) è ciò che non ritornerà mai più; il futuro, ciò che non è ancora mai avvenuto; il presente è un punto su di una linea, di cui si conosce l'inizio e la fine, pur ignorandone la durata. C'è unidimensionalità del tempo storico.

    Contrariamente alla concezione lineare, la concezione ciclica della storia è una concezione autoctona europea. Essa appare comune a tutta l'antichità europea precristiana ed è indotta dall'osservazione del mondo-così-come-è: spettacolo di un certo numero di alternanze (le stagioni), di connessioni (le generazioni), di ripetizioni-nella-differenza e di differenze-nella-ripetizione (non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua; il sole si leva ogni mattina e, allo stesso tempo, non è mai esattamente lo stesso sole). Si basa sull'intuizione di una armonia possibile, riposante sulla regolarità dei cicli e la conciliazione dei contrari. Questa idea è forse da ricollegare alla percezione di un paesaggio fondamentalmente variato (Renan oppone lo "psichismo della foresta" allo "psichismo del deserto", che induce la nozione d'assoluto: "il deserto è monoteista"). In questa concezione la storia non ha né inizio né fine. Essa è semplicemente il teatro di un certo numero di ripetizioni analogiche, che bisogna, secondo le scuole, prendere più o meno alla lettera. Questa "permanenza dei cieli" dà alla storia il suo statuto ontologico: un'ontologia che non è più esteriore o trascendente in rapporto al divenire degli uomini, ma che con questo si confonde.

    Noi ci situeremo nella prospettiva tracciata da questa concezione ciclica della storia, ma apportandole, sulla scia di Nietzsche, un'importante correzione. Se la si osserva da vicino, la concezione ciclica tradizionale resta in effetti in un certo senso lineare. L'immagine alla quale fa riferimento è quella di una linea disposta in circolo. Certo, le "estremità" di questa linea si toccano (e, in conseguenza di ciò, tendono a scomparire), ma, all'interno del circolo, gli avvenimenti continuano a svolgersi in un ordine immutabile. Come le stagioni si susseguono sempre nel medesimo ordine, i cicli, anche loro, si svolgono secondo uno schema inesorabile. Negli assertori moderni della teoria tradizionale dei cicli (Julius Evola, Rene Guénon), la nostra epoca corrisponde così a un periodo di fine del cielo (Kali-yuga indiano, "età del lupo" della mitologia nordica). La nostra libertà nei suoi riguardi ne risulta pertanto limitata, con tutti i rischi che derivano logicamente nella pratica da una simile analisi: smobilitazione, o politica del tanto peggio tanto meglio. In un celebre passo di Così parlò Zarathustra, Nietzsche sostituisce a questa concezione ciclica della storia una concezione decisamente sferica - il "circolo" sussiste, ma la "linea" scompare - equivalente a un'affermazione radicale del non-senso della storia e a una rottura tanto con la necessità inerente alla concezione lineare quanto con la necessità inerente ad ogni speculazione meccanica sulle "età della umanità" (da Esiodo [alias] a Guénon).

    Si vede subito in cosa il circolo e la sfera si rassomigliano e in cosa differiscono: la sfera possiede una dimensione supplementare, può in ogni momento ruotare in tutti i sensi. Parallelamente, nella concezione generale che vi si ricollega, la storia può in ogni momento svolgersi in qualsiasi direzione, alla condizione che una volontà abbastanza forte le imprima il movimento e tenuto conto, ben inteso, dei processi di cui è teatro. La storia non ha un senso: essa non ha che quello che le danno coloro che la fanno. Essa non " agisce " l'uomo, se non in quanto è "agita" da lui per prima.

    Le conseguenze per ciò che concerne la libertà dell'uomo sono evidenti (ci ritorneremo più avanti). Inoltre passato, presente, futuro non sono più punti distinti su di una linea provvista di una sola dimensione, ma al contrario prospettive che coincidono in completa attualità. Il passato. ricordiamolo, non è mai percepito come tale se non in quanto inscritto nel presente (gli avvenimenti ai quali si riferisce non sono "passati" che nel presente: quando si svolgevano, erano presenti). Accade la medesima cosa per il futuro. Così ogni attualità è non un punto, ma un crocevia: ogni istante presente attualizza la totalità del passato e potenzializza la totalità del futuro. C'è tridimensionalità del tempo storico. La questione se si può o no far "rivivere il passato" diviene caduca: il passato-concepito-come-passato rivive sempre nel presente; è una delle prospettive grazie alle quali l'uomo può elaborare dei progetti e forgiarsi un destino.


    - Il mondo come caos

    Come non percepiamo, globalmente parlando, alcun "senso nella storia", così non rinveniamo alcun "senso" nell'organizzazione e nella configurazione del mondo. Noi rifiutiamo ogni determinismo, sia esso "spaziale" o "temporale". Ci separiamo dunque qui dai sostenitori di un "ordine naturale", che credono che l'"ordine" di cui il mondo circostante sembra far mostra non sia che una parte di un ordine più vasto, la cui esistenza, apprensibile per il tramite della ragione, rinvierebbe a un creatore nello stesso modo in cui un meccanismo "rinvia" al suo meccanico.

    Man mano che noi sviluppiamo le nostre conoscenze sui popoli della terra, constatiamo una relatività generale, sia nel campo dei costumi, delle usanze, della morale, dei fondamenti del diritto, dei canoni estetici, degli atteggiamenti davanti al sacro, delle concezioni del divino, ecc.. Non esiste uomo in sé, non ci sono che culture aventi ognuna le proprie leggi. E’ qui che può articolarsi una concezione positiva della tolleranza, che non è una "permissività" priva di sostanza, ma semplicemente il riconoscere (e il desiderio di veder perpetuarsi) la diversità del mondo.

    Questa diversità è una buona cosa. Ogni autentica ricchezza si basa sulla diversità. La diversità del mondo sta nel fatto che ogni popolo, ogni cultura ha le sue norme, dal momento che ognuna costituisce una struttura autosufficiente, vale a dire un insieme di cui non si può modificare il concatenamento ìn qualche punto senza che questa modificazione non si ripercuota in tutte le parti. E' a questo punto che deve articolarsi anche una critica radicale dell'universalismo, la cui fonte storica maggiore noi individuiamo nel monoteismo. L'idea di un Dio unico implica quella di una Verità unica, assoluta. Gli uomini devono sottomettersi a questa verità perché è la verità-in-sè; quelli che non vi si sottomettono sono nell'"errore", e quelli che sono nella verità hanno il diritto di strappare gli altri dall'errore, all'occorrenza con qualsiasi mezzo, con in più la buona coscienza. Per il suo carattere instrinsecamente universalista, il monoteismo produce tendenzialmente il riduzionismo (ogni conoscenza è finalmente ricondotta all'unità) e I'egualiuarismo (gli uomini sono uguali davanti a Dio: godono di una "ragione" oggettiva sganciata darle contingenze che permette loro di discernere la " verità " e così salvarsi), sia che gli adepti delle credenze monoteiste mettano o meno i loro principi in pratica, sia che ne deducano o meno delle conclusioni nell'ordine delle cose terrestri. Nello stesso senso, e inversamente, il nominalismo, cioè il rifiuto degli "universali", costituisce allo stesso tempo il fondamento della tolleranza positiva, dell'antiuniversalismo e dell'antiegualitarismo, poiché esiste un legame logico fra il riconoscimento della diversità fondamentale degli esseri e il riconoscimento dell'ineguaglianza - ogni differenza è in qualche modo valorizzante - che ne deriva nell'ambito delle cose concrete.

    L'"ordine" che constatiamo intorno a noi, infatti, non è altro che quello che noi stessi vi mettiamo, il più delle volte senza neppure rendercene conto. Siamo prigionieri di una "illusione ottica" dovuta alle strutture ordinatrici e classificatrici del nostro spirito: abbiamo la tendenza ad interpretare come "dati da tutti i tempi" i collegamenti logici che si stabiliscono per comodità di ragionamento fra fatti, serie di fatti, circostanze, etc. In realtà, non esiste una "logica" esteriore all'uomo più di quanto non esistano "frontiere naturali predestinate”. L'uomo è un animale donatore di senso: una volta che ha messo senso nelle cose, tende a credere che quello vi sia sempre stato. Parimenti, abbiamo intimo la tendenza ad interpretare serie fattuali, di per sé assolutamente neutre, in termini di teleologia, di finalità. Piazziamo la necessità là dove si potrebbe mettere altrettanto bene il caso, senza accorgerci che, in ultima analisi, caso e necessità sono una sola e medesima cosa (cfr. Clément Rosset, citando Malcolm Lowry: tutto ciò che accade avviene somehow anyhow “comunque in qualche modo”; dal fatto che le cose sono inevitabilmente come sono, e non altrimenti, non si può far derivare l'idea che la loro esistenza risponda a una intenzione prestabilita). “Al centro del cosmo, il potere non è più sovrano, ma anonimo” dice Ernst Jünger. Globalmente parlando, il mondo in sé è caos. Infine non bisogna dimenticare che le leggi “naturali” che noi rileviamo nel mondo-intorno-a-noi hanno un carattere sempre contingente.

    Per definizione, ogni enunciato scientifico è rivedibile. Le leggi naturali sono ripetizioni probabilistiche di circostanze che una eccezione potrà sempre, per principio, falsificare (cfr. Popper [alias]). Esse non valgono, in altre parole, che per condizioni date. Da due secoli, non abbiamo smesso di scoprire che leggi che noi pensavamo "universali" avevano in realtà una validità circoscritta a condizioni particolari. Questa evidenza ha dapprima riguardato campi come quello della fisica, della chimica, etc. Ha finito per coinvolgere tutte le sfere del pensiero: gli enunciati matematici, le proposizioni generali della logica, o non sono sempre dimostrabili (cfr. Gödel), o sono semplici tautologie. Sappiamo che ciò che vale per la macrofisica non vale per la microfisica (dalla teoria della relatività alla teoria dei quanti). Sappiamo anche che gli strumenti di misura non fanno che affinare la soggettività delle nostre percezioni, senza per altro renderle obbiettive. Sappiamo infine che il solo fatto della nostra presenza nell'universo influisce sulla percezione che ne abbiamo: la presenza dell'osservatore modifica la configurazione dei paesaggi osservati (principio di Korbzybsky: la carta geografica non è mai tutta la carta, come minimo non considera infatti colui che la consulta). Dalla esistenza relativa di leggi hic et nunc, non si può mai dedurre l'esistenza universale di leggi assolute.


    - Una cosa non vale l'altra

    La nostra posizione di principio è dunque chiaramente nominalista ed esistenzialista. A partire da ciò si pone un problema fondamentale: su quali criteri si può edificare un sistema di valori, una volta che si sono rifiutati gli "universali" e il valore assoluto, la verità unica? E anche: quale è la necessità di tale sistema? E l'obiezione classica di coloro per i quali una posizione nominalista conduce ineluttabilmente a un relativismo generalizzato, inibitore e privativo, a un ipersoggettivismo che si può esprimere con formule del tipo "a ciascuno la sua verità", "tutto vale tutto", "tutto è permesso", ecc.. Ora, ai nostri occhi, non è assolutamente così. E nella misura in cui cerchiamo di porre le basi collettive di un certo atteggiamento davanti alla vita, stimiamo, al contrario, che è rigorosamente necessario identificare un certo numero di criteri che permettano di apprezzare il valore concreto di un'idea o di discriminare fra proposizioni contraddittorie. Questo rifiuto dell'ipersoggettivismo è associato direttamente ad un rifiuto dell'individualismo, articolato intorno a due osservazioni.

    Prima osservazione: l'uomo è inseparabile dalla sua cultura, inseparabile dall'ambito (spaziale) e dall'eredità (temporale) foggiati, messi in forma da questa cultura. L'uomo nasce in primo luogo come erede, diceva Charles Maurras (dopo molti altri). Non vive su Sirio, né su di un'isola deserta, né nell'empireo, bensì hic et nunc: in questa data società. L'uomo non ha dunque la libertà di provenire che da là donde proviene. Nasce con un'eredità specifica, che può assumere o respingere, ma di cui non può fare che sia altra cosa che ciò che è. Questa eredità implica particolarmente un certo numero di valori, e, quindi, di giudizi di valore: a partire da questo solo fatto, non possiamo giudicare questa o quest'altra proposizione nel medesimo modo a seconda che siamo nati nel seno di una cultura piuttosto che di un'altra. Da questa osservazione risulta l'interesse di un'indagine volta a identificare i valori propri della nostra cultura, cosa che, in un'epoca di confusione come quella attuale, implica il "filtrare" la propria eredità. Per sapere ciò che ci appartiene specificamente nel caravanserraglio dei valori che si mischiano e si affrontano oggi, ci è necessario adottare un procedimento genetico, vale a dire rintracciare la genealogia dei valori (cfr. le domande poste da Nietzsche: chi ha introdotto il tale valore? in quale circostanza? chi ne è il beneficiario? quali sono i risultati concreti della sua applicazione?). Questa è la ragione dell'interesse che possiamo avere per il nostro passato più remoto: più ci collochiamo nella lunga durata, più abbiamo possibilità di identificare, nella nostra eredità storica, ciò che è stato aggiunto posticciamente e ciò che ci appartiene originariamente, in proprio. Inoltre, in una prospettiva storica sferica, c'è correlazione naturale tra il "passato" e il "futuro". Questo processo ha ben inteso come preliminare una presa di coscienza positiva della nostra appartenenza e della nostra identità collettiva. Scegliamo di assumere un'eredità, per poterla perpetuare e rifondare: accettiamo di essere ciò che siamo per poter essere più di quanto non siamo stati.


    La variabilità delle norme


    Seconda osservazione: in ogni momento, in ogni società, un soggettivo "funziona" come assoluto. In altre parole, una società non esiste che in rapporto a certe norme. Non c'è alcun esempio storico di società senza norme, ad esclusione, precisamente, delle società in disfacimento. Ciò che qui conta non è tanto il contenuto della norma (che è variabile) quanto l'esistenza stessa della norma (che è costante). Per il fatto che una norma varia, non è per ciò stesso lecito concludere che essa sia facoltativa. E tuttavia il caso comune, se ci si riflette un attimo, del momento attuale - e molti sono gli ideologi che, per una specie di gioco di prestigio, deducono dalla variabilità delle norme l'idea della loro inutilità. Certi neofemministi, per esempio, che sottolineano il fatto che i ruoli sociali maschile-femminile di cui la storia europea ci dona esempio non si ritrovano necessariamente in tutte le culture del globo - cosa che è assolutamente esatta - omettono tuttavia di ricordare che se non si ritrovano quelle norme, se ne rinvengono delle altre: i ruoli sociali maschile-femminile possono variare, ma non vi è alcuna società in cui la differenziazione dei ruoli non esista.


    - Un "soggettivismo eroico"

    Nel corso dei secoli, la prodigiosa efficacia delle norme è venuta dal fatto che queste erano “viste” e percepite come assolute. Esse erano agenti, operanti. nella misura in cui nessuno si interrogava, nessuno pensava ad interrogarsi, sulla ragion d'essere di queste (altrimenti che in una maniera passeggera, immediatamente rimossa dallo spirito del tempo). Ci si comportava in un modo piuttosto che in un altro perché lo si era "sempre fatto", perché quella data cosa "si faceva così, e non altrimenti". Una simile assenza di dubbio a proposito delle norme è caratteristica di una cultura in piena espansione: l'energia fa tacere il dubbio. Al contrario, in una cultura indebolita, in una società in declino, un'immensa ondata di dubbio sommerge lo spirito del pubblico. Di fatto, da circa due secoli - astraiamo dai precedenti - , le norme si manifestano poco a poco per ciò che sono, vale a dire per delle convenzioni - cioè come i risultati di una scelta, ma di una scelta dimenticata. La tradizione, l'azione storica, il gioco degli avvenimenti, il processo di replicazione delle generazioni, hanno, in un dato momento, cristallizzato i costumi e le "leggi" sociali con sufficiente potenza da farli apparire come "naturali", come se fossero esistiti da sempre: la cultura s'è data come natura. In un secondo tempo, il crollo dei miti di fondazione, l'apparizione di ideologie divenute coscienti di se stesse, hanno operato, poco a poco, una critica sulle fondamenta che si è sviluppata rapidamente in tutte le direzioni. Questa critica, eminentemente distruttrice e corrosiva, ha portato alla distruzione completa delle norme e, quindi, alla scomparsa del senso nella vita degli associati e delle possibilità di comunicazione che ne derivano. Un po' per volta, la società, perdendo le proprie norme, s'è sfasciata: il dubbio ha invaso tutto; niente va più da sé; nessuno vede più la "ragione" che ci sarebbe di fare questo o quest'altro; l'autorità non è più avvertita come principio trascendente colui che l'incarna, ma come semplice questione di gendarmi; l'informazione, non trovando più il suo posto in alcun quadro, rinforza il dubbio invece di scongiurarlo; il sapere stesso, invece di essere reso strumento in vista di una azione più efficace, diviene essenzialmente inibitore e paralizzante.

    Si può certo deplorare una tale situazione, ma non si può purtuttavia annullarla. Una norma che si è scoperta come convenzione non "funzionerà" mai più come assoluto - a meno di passare ad un livello superiore di espressione ("Dio è morto": - Dio "muore" dal momento in cui lo si interroga sulla sua "ragione d'essere", e dunque sulla sua "morte possibile"; un dio che si mette in questione non esiste già più - ma resta sempre la possibilità di nuovi dei).

    A partire da qui ci sono due atteggiamenti possibili. II primo, quello che predomina oggi, consiste nel ricusare le norme che non hanno valore assoluto, vale a dire ogni norma (salvo poi in qualche caso finire per ricadere nel sistema della religione rivelata - da cui la posizione di Max Horkeimer, come quella di Bernard-Henri Lévy), per adottare un atteggiamento di critica e di rifiuto sistematici. Ciò non può evidentemente che accelerare il processo di dissoluzione spontanea, il processo di implosione sociale. E allora che si cade nell'ipersoggettivismo: niente vale niente, tutto vale tutto.

    Il secondo atteggiamento, quello a cui ci ricolleghiamo, parte dalle medesime premesse, ma sfocia in una conclusione esattamente inversa. Esso consiste, prendendo atto del fatto che una norma "convenzionale" non è in definitiva altro che una norma creata dall'uomo, nel tentare di suscitare le condizioni in cui delle nuove norme potranno apparire. Non si tratta, più precisamente, di cercare di creare norme benché queste non possano essere mai che "convenzioni", ma al contrario di cercare di crearle con tanta più forza proprio in quanto esse sono necessariamente il risultato dello sforzo umano, in quanto non sono emanate da una qualsiasi divinità, dedotte da un qualsivoglia ordine naturale, o derivate da una qualunque necessità storica.

    La stessa constatazione che porta alcuni ad abbandonare ogni norma - non senza manifestare di passaggio una curiosa "sete d'assoluto delusa" - può così condurre a volerne fondare di nuove. In effetti, se le norme sono convenzioni, e nessuna società può fare a meno di norme, allora non c'è altro comportamento possibile, dal nostro punto di vista, che quello consistente nell'assumere e nell'istituire una certa soggettività collettiva con sufficiente potenza affinché questa sia percepita a sua volta come una norma “naturale”, funzionante come assoluto nella struttura sociale. Una simile impresa esige probabilmente di pervenire ad un livello di coscienza superiore a quello che abbiamo potuto conoscere fino ad ora. Essa non costituisce peraltro la sola risposta possibile alla sfida che la nostra epoca ha lanciato a se stessa, sfida senza altro precedente che quella che un dato tipo di umanità ha conosciuto al momento della rivoluzione neolitica, e alla quale ha segnatamente risposto, nel seno della nostra cultura, la tripartizione indoeuropea, in quanto fonte di una nuova norma "ideologica", religiosa, filosofica e sociale. L'"eroismo" contemporaneo potrebbe consistere in un procedimento "sovrumano" di questo tipo - la creazione di nuove norme in rapporto alla sfida che ci siamo lanciati. Si può dare a questo procedimento il nome di "soggettivismo eroico". E si dirà che un popolo presso cui si producesse una tale fondazione, risolverebbe la crisi attuale, supererebbe sé stesso nel medesimo tempo e si affermerebbe un'altra volta come autosufficiente, vale a dire come causa di se stesso - come creatore di se medesimo.


    L'uomo creatore di se stesso

    Giungiamo così a tutta una concezione dell'uomo, di cui bisogna ricordare i tratti principali. L'uomo è un essere vivente e, in quanto tale, è sottomesso ad un certo numero di costrizioni risultanti dalla sua condizione biologica. Ma non è un essere vivente come gli altri. Differisce dagli altri animali per una maggiore e perpetua malleabilità (stato di neotenia o "giovinezza costante" - la giovinezza corrispondendo al periodo di "apprendistato"). Nell'uomo, il determinismo biologico è puramente negativo. Esso non si esprime che sotto forma di potenzialità. La nostra costituzione non ci "dice" nulla di ciò che faremo; ci "dice" soltanto ciò che non faremo. Nei limiti e nei presupposti della nostra "natura", la nostra libertà resta completa. È tutta qui la differenza tra l'istinto e ciò che presso l'uomo è la pulsione: la pulsione non implica programmazione in rapporto all'oggetto. L'uomo non è libero di essere o di non essere il teatro di un certo numero di pulsioni, ma è libero di scegliere l'oggetto rispetto al quale queste pulsioni si mettono in azione. Se "ereditiamo" un mucchio di mattoni, possiamo con quei mattoni costruire ciò che vogliamo; la sola cosa che non possiamo fare è di trasformare il mattone in ardesia o in marmo. La medesima cosa accade con lo stock genetico. Così, l'uomo può sempre rimettersi in questione. Non è, diviene. È sempre incompiuto. Non è creato una volta per tutte; continua perpetuamente a creare se stesso. E questo il segreto della sua superiorità - ma anche della sua più grande fragilità: può, in ogni momento, perdere la sua umanità come dotarsi di una sovraumanità. E la stessa cosa per le esperienze collettive: a ogni generazione, l'eredità è rimessa in questione. Può sempre, anch'essa, perdersi o superare se stessa.

    L'uomo si costruisce. Edifica se stesso per mezzo di una costrizione esercitata su di sé; prendendosi per suo proprio oggetto, stabilendo al proprio interno delle trame di abitudini (Arnold Gehlen [alias]), fissandosi degli obbiettivi e dei principi legati all'idea che si fa di se stesso. Il superuomo non è un "superman" con dei grossi bicipiti o un alto QI, né "un nuovo stadio dell'evoluzione", ma chi si mette nella situazione "eroica" di autosuperarsi, fondando un nuovo tipo secondo le norme che sono le sue. L'uomo è il "signore delle forme" (Jünger). Mette forma nel mondo come in se stesso: una forma che, prima, fuori di lui e senza di lui, non esisteva. E concepisce questa forma come dotata di senso. Si ritrova qui un'idea esposta all'inizio di questo testo; sono "vere" solo le idee e le forme incarnate - e più c'è incarnazione, più c'è "verità" (ma non è parimenti nemmeno una sacralizzazione della forza, perché ad una forza può sempre opporsene un'altra che troverà le sue fondamenta in un altro sistema di valori e si manifesterà in funzione di un altro disegno; e non è nemmeno un pretesto per accettare in anticipo l'ordine, o il disordine, stabilito, perché precisamente le "verità" non si valgono l'un l'altra).

    E’ perciò "buono" in questa prospettiva ciò che ci permette di costruirci secondo le norme che ci siamo fissate; "cattivo", ciò che ci demolisce rispetto a queste stesse norme. La regola vale per gli individui come per la società. E in funzione delle norme che noi ci siamo fissate, norme legate all'apprendimento dei valori propri alla nostra cultura, che si può, per esempio, sviluppare una critica dell'edonismo (la società "permissiva") contemporaneamente, e per le medesime ragioni, ad una critica dell'ascesi negativa e mortificatrice (la mistica della sofferenza). Nell'azione intrapresa, la gioia nasce dal fatto di raggiungere lo scopo che ci si è fissato - e, allo stesso tempo, di vederne un altro che si scopre all'orizzonte del volere -, non da ciò che procura questo fatto di raggiungere lo scopo. E’ risaputo il proverbio: "La caccia val più della preda". Non significa che si debba disdegnare la preda, ma che bisogna per prima cosa voler cacciare - e che la preda venga, eventualmente, in più. Piacere e dispiacere sono soltanto delle conseguenze. Il piacere, come il dispiacere, s'aggiunge all'azione, non ne è il motivo: ne è l'effetto, non la causa. É qui tutta la differenza tra la volontà e il desiderio: mossi da un desiderio, ne siamo gli schiavi, mentre se la radice dell'azione risiede per prima cosa nel volere (il quale, a sua volta, è causa di se stesso), allora ne siamo i padroni. La "dialettica del signore e dello schiavo" comincia così, "a monte": siamo nello stesso tempo signori e schiavi di noi stessi. Eccellente criterio indicato da Evola: volere soltanto ciò a cui si è anche capaci di rinunciare. In altre parole: si ha il diritto di volere tutto, alla condizione di poterne anche fare a meno.

    La decadenza comincia quando si considera che ciò che era la conseguenza dell'azione può legittimamente divenirne la causa. Dal momento, in effetti, in cui si fa del piacere il valore supremo, si giustifica in anticipo tutto ciò che ne permette l'ottenimento. Non si vuole altro che ottenere cose piacevoli in quantità sempre maggiori (principio del piacere). Alla fine, questa attitudine porta alla distruzione della personalità interiore. Si vede qui quanto la necessità dello sforzo sia distinta dal lavoro, anche se questo ne resta l'istanza più corrente. La "morale" liberale come la "morale" marxista pretende che l'uomo sarà tanto più "libero" quanto sarà meno costretto a lavorare. In realtà, quando anche il lavoro (nel senso più prosaico e contemporaneo del termine) divenisse inutile, sussisterebbe sempre per l'uomo la necessità di costruirsi, di darsi una forma, per mezzo di una volontà di costrizione su di sé generatrice di sforzi.


    L'etica dell'onore


    Costruire se stessi, darsi una forma, ciò può anche significare: passare dallo status di individuo a quello di persona. Tutti sono individui, non tutti sono persone; si conosce la distinzione romana tra animus e anima: la persona è l'individuo che si è dato un'anima. Sarebbe sicuramente ingiusto che tutti gli uomini avessero un'anima; è giusto che alcuni tra loro, al termine della loro autocreazione, giungano a darsene una. Può far ciò solo chi regna come signore su se stesso, chi regna come sovrano sul suo impero interiore. L'onore non è allora nient'altro che la fedeltà alla norma che ci si è data, all'immagine che ci si è fatta di se stessi. Henri de Montherlant osserva che bisogna mantenere anche le promesse che si sono fatte ad un cane, perché ciò che impegna non è il contenuto o l'importanza della promessa o il suo destinatario, ma il fatto di aver promesso. Parimenti, la fedeltà ad una convinzione, ad un'idea, si giustifica per il solo fatto di avervi aderito - all'inizio, niente forzava a questa adesione. Un simile atteggiamento contiene la propria giustificazione: la fedeltà alla norma si giustifica per il fatto che è una norma - e, all'occorrenza, una norma scelta, accettata e voluta. Proverbi dell'Ancien Régime: a) "la nobiltà esige la nobiltà"; b) "nobiltà tace". La giustificazione dell'atteggiamento derivante dalla norma non può essere esteriore a questa; non può risiedere in un interesse (foss'anche metafisico), il che ricusa ogni morale utilitaria.

    Da qui l'importanza dello stile. Esiste un rapporto evidente tra lo stile e la forma. Dare una forma al mondo, darsi una forma, significa contemporaneamente istituire uno stile. E’ per questo che non si può mai separare la lettera dallo spirito, la forma dal fondo, il contenente dal contenuto. "Lo stile, è l'uomo": il modo di fare le cose vale quanto le cose stesse; le questioni di forma non sono mai superflue.

    La morale aristocratica, segnata dal sigillo dell'onore, può definirsi per un criterio costante: la capacità se necessario di agire contro i propri interessi. E’ esattamente il contrario della teoria liberale, secondo cui l'uomo, essenzialmente definito come agente economico, persegue sempre il suo "migliore interesse". Ma non si tratta d'altro canto di cadere nell'ascesi negativa o nell'angelismo: una società normale non si compone solo di eroi; tuttavia è necessario che siano gli eroi a servire da esempio, e non gli altri. Sombart definisce l'"eroe" come qualcuno che cerca costantemente ciò che può dare alla vita, come può arricchire l'esistenza, in opposizione al "borghese", che ricerca continuamente ciò che può ricavare dalla vita, come può arricchire la sua propria esistenza. Lo studio degli atti e delle situazioni eroiche mostra che le ragioni per vivere e le ragioni per morire sono esattamente le stesse - e in questo senso, è normale che in un'epoca in cui non si trovano più ragioni per morire, non si trovi più parimenti senso alla vita. Ad un livello più comune: ammettere che ogni diritto deve avere la propria contropartita nell'ordine dei doveri. Se un uomo ha un diritto, ciò significa che ha anche dei doveri. Più precisamente, se deve esserci parità di diritti, deve esserci anche parità di doveri. Ciò pone il problema di sapere quali sono i doveri che si è in diritto di esigere da ogni uomo - e, contemporaneamente, dà la misura dei diritti che ogni uomo potrebbe rivendicare. Questo principio "funziona" evidentemente nei due sensi: se è vero che chi si impone più doveri deve avere anche più diritti, non si può in compenso imporre molti doveri a chi non ha che pochi diritti. Un diritto non armonizzato con un dovere diviene rapidamente un privilegio (nel senso attualmente assunto da questo termine). Esso è allora avvertito come ingiustizia, ciò che scatena - e legittima - un processo "rivoluzionario" ben noto.

    In una prospettiva nominalista, il tragico nasce dalla chiara percezione di una doppia "contraddizione": in primo luogo fra la nostra piccolezza e la nostra brevità davanti all'immensità e all'infinità del mondo; poi tra il fatto che noi siamo contenuti nel mondo sul piano "materiale" e il fatto che il mondo, pur così immenso, è allo stesso tempo contenuto in noi sul piano "spirituale". Ci rendiamo così conto che, per quanto infimi possiamo essere, siamo nondimeno i soli a poter "far uscire il più dal meno", a poter aggiungere all'universo forme che al di fuori di noi non esisterebbero. Gli Antichi avevano capito molto bene che l'intensità è una forma di "rivincita" sulla brevità; avevano notato anche che l'intensità varia in maniera inversamente proporzionale alla durata (non si vive perpetuamente sulle vette). Il tragico sta allora nella nozione di fatum, di "destino" (da non confondere con la "sorte": il destino è ciò che accadrà, la sorte ciò che è accaduto), nozione che, bisogna ricordare, non porta ad alcun fatalismo, anzi, al contrario. Il sentimento del fatum genera due atteggiamenti precisi: ammettere che può esserci un destino per ognuno di noi, senza vedere nel suo carattere ineluttabile il benché minimo motivo per rinunciare a tentare di cambiarlo se stimiamo che non corrisponda alle norme che ci siamo fissate (è il movente costante della tragedia greca); una volta che si è fatto tutto il possibile secondo la norma che ci si è fissata (e qui, non dimentichiamolo, potere è dovere), non soltanto accettare il corso delle cose quale si è effettivamente prodotto, ma anche volerlo: amor fati.


    Alain de Benoist

    Traduzione dal francese a cura di Gianluca Bertazzoli.

  2. #2
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    molto meglio postare immagini di omini con la kippah e storpiare le parole eh..

  4. #4
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    Cavolo! Se non avessi 3 esami in una settimana lo leggerei! Teniamolo su, così non lo dimentico!

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