Perché il contribuente versa 500 milioni e il Comune non privatizza ciò che possiede?
Contenere la spesa pubblica. Dirlo è una cosa, farlo è un’altra. Il governo ne fa una priorità, ma nello stesso tempo stacca un assegno da 500 milioni al Comune di Roma: quasi quanto due prestiti-ponte per Alitalia, ma con meno clamore. Lo stato delle finanze della capitale è entrato nel dibattito solo per via della liquidazione verbale di Veltroni – come interlocutore, come capo della sua parte politica, come amministratore – da parte di Silvio Berlusconi. Chi ha “fallito”, ha detto il Cavaliere portando in politica un sentire piuttosto comune nel mondo degli affari, dovrebbe ritirarsi.
Il punto però, non sono le responsabilità personali, ma gli incentivi. I creditori non liquidano a cuor leggero un debito con un’impresa, solo perché questa cambia amministratore delegato. Il fatto invece che il Comune di Roma venga aiutato con i 500 milioni previsti dalla manovra triennale è preoccupante, non solo per la Lega. Come possono reggersi, gli incentivi a un comportamento virtuoso in termini di riduzione della spesa, se, davanti al disastro, Pantalone si conferma pronto a pagare? La denuncia politica della presunta e presumibile incapacità amministrativa di Veltroni, peraltro già sanzionata dalla vittoria di Alemanno, serve a poco.
Il nuovo sindaco dichiara che il debito è del 40% più alto di quello che risulta dal bilancio (9,7 anziché 6,9 miliardi di euro, mentre la Ragioneria ne stima 8,15). «Alemanno ha ereditato una situazione catastrofica di cui non è responsabile», ha detto il ministro Calderoli mettendo il timbrino leghista su un provvedimento lontanissimo (anche per il Comune beneficiario) dai sentimenti dei militanti del suo partito. Ma ci si può solo attendere un miracolo, o la manna dal cielo?
Il Comune di Roma ha partecipazioni in 19 società di rilievo. La più nota è Acea, nota anche per i buoni risultati (Ama e Atac, società per lo smaltimento die rifiuti e il trasporto pubblico, debbono la propria notorietà a ragioni di ordine opposto). Acea capitalizza oltre 2,5 miliardi di euro, il Comune ne detiene il 51% per un valore quindi approssimativamente di 1,3 miliardi.
Acea non è l’unica. Fra le altre cose, per citare un fatto tutto sommato curioso, il Comune di Roma possiede anche una compagnia di assicurazione, Adir (I soci sono il Comune, Atac, Ama, la Compagnia trasporti laziali e la Metropolitana di Roma), attiva nei rami auto, vita, salute. A che cosa serve? Le polizze relative ai servizi offerti da altre municipalizzate non possono essere semplicemente “comprate” sul mercato? Dove sta il valore, per il contribuente, nella ben reclamizzata offerta di polizze «a vantaggiose tariffe» ai dipendenti «del Comune di Roma, dell’Ama, dell’Atac, della Met.Ro., del Co.Tra.L. R delle Società a loro collegate»?
Il rubinetto dei trasferimenti agli enti locali non può essere chiuso in men che non si dica, e ci vorrà tempo anche per trovare un modus vivendi per far funzionare l’ancora nebuloso federalismo fiscale.
Ma perché dovrebbe essere lo Stato centrale a dare boccate d’ossigeno, quando il Comune ha a disposizione una bombola ancora piena? La dismissione delle municipalizzate non può essere richiesta imperativamente: però dovrebbe essere nell’ordine delle cose. Dopotutto, l’attenzione è alta, da anni, sul mondo delle piccole Iri locali, meccanismi attraverso i quali il potere produce prebende e benefici, a vantaggio delle proprie clientele. La mancata privatizzazione della più parte di queste realtà non si spiega con l’avvedutezza di evitare la sostituzione di un monopolio pubblico con un privato, privo della mordacchia di un’amministrazione democraticamente eletta. Più semplicemente e meno nobilmente, l'interventismo economico è lo strumento delle peggiori prassi della politica – ricordate lo stupore dei clientes di Mastella accusati di essere tali?
L'insostenibilità del sistema è ormai evidente. I conti della Capitale lo testimoniano. Si capisce che il governo lanci un salvagente, ma dovrebbe almeno porre delle condizioni. Come regola generale, sarebbe auspicabile vincolare i trasferimenti, in una certa proporzione, alla capacità di dismettere comprovata dall’azione dei singoli amministratori. Questa ha senso anche in una logica “statalista”: se giochi allo Stato imprenditore, tanto vale che tu produca utili in una misura tale da consentirti di snobbare i quattrini del centro.
Nel caso particolare, ad Alemanno andrebbe suggerito di non limitarsi ad abolire le notti bianche, ma di mettersi a privatizzare. La quota del Comune in Acea vale 1,3 miliardi, quasi tre volte l’“aiutino” del governo. Ma venderla, accettando così la sfida di un approccio diverso, sarebbe più che volte utile di qualsiasi aiuto.
Da Il Riformista, 24 giugno 2008
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