Annunciare un taglio delle tasse è facile. Tagliare le tasse è più difficile ma non troppo. Tagliare le tasse senza incrementare il deficit è molto più arduo. Per riuscirci occorre sapere ridurre le spese, operazione alquanto sgradita a chi beneficia delle stesse e che farà di tutto per non vedere mutato lo status quo. L’ultima testimonianza di quanto sopra scritto è venuta dal recente taglio dell’ICI. Per compensare le minori entrate, il Governo a fine maggio ha deciso di ridurre, tra gli altri, i trasferimenti al settore del trasporto pubblico locale oltre che i finanziamenti per le autostrade del mare e gli incentivi al trasporto combinato. Il taglio, pari a poco meno di 400 milioni di Euro, sembra però avere avuto vita breve. Mercoledì scorso, al termine di un incontro tra governo ed autonomie locali, il ministro per il Rapporto con le regioni, Raffaele Fitto, ha annunciato il dietrofront: “Abbiamo ripristinato le risorse di 370 milioni di euro per i prossimi tre anni per il trasporto pubblico locale". Ad oggi non sembrano essere venute indicazioni precise in merito a riduzioni di spesa in altri settori che vadano a compensare quello cancellato. Dunque, il taglio dell’ICI sembra aver perso almeno parte della copertura. Eppure, gli spazi per la riduzione dei sussidi pubblici al settore del tpl sono tutt’altro che esigui. In Italia, nelle aree urbane, il comparto è oggi caratterizzato dalla presenza di monopolisti pubblici controllati dall’ente locale di riferimento. Immaginiamo che il settore venga aperto al mercato: quali sarebbero le ricadute in termini di riduzione dei costi? Come insegnano i manuali di economia, in un mercato concorrenziale il costo di produzione corrente sarebbe quello dell’azienda più efficiente: le altre dovrebbero adeguarsi oppure sarebbero destinate a fallire. E quali sono oggi in Europa le aziende che producono i servizi di trasporto pubblico locale al costo più basso? Senza dubbio, quelle che operano nel Regno Unito. A seguito della riforma attuata a metà degli anni ’80 che ha portato alla privatizzazione delle aziende pubbliche e all’eliminazione delle barriere all’entrata, si è avuta una riduzione dei costi unitari pari al 40%. Fatta eccezione per la capitale Londra, ove vige un regime organizzativo diverso (pianificazione del servizio da parte di un’Agenzia pubblica ed affidamento tramite gara dei servizi), nelle aree metropolitane britanniche il costo per bus-km è risultato pari nel 2007 a 2,3 Euro. Nelle più grandi aree urbane italiane attualmente l’analogo parametro si attesta intorno ai 5 Euro. In Gran Bretagna l’incremento dell’efficienza delle aziende ha consentito di ridurre drasticamente i trasferimenti statali che sono passati da poco meno di 800 milioni di Euro nel 1984, agli attuali 200, con una riduzione del 75%.

Il confronto fra la situazione italiana e quella di oltre Manica testimonia la rilevanza di quello che è noto in letteratura come “effetto leakage”: quanto più crescono i sussidi pubblici tanto maggiori sono l’inefficienza delle aziende ed i costi di produzione. Il fatto che l’attuale assetto del tpl sia volto a tutelare gli addetti del settore ,oltre che quelli dei politici in cerca di facili consensi piuttosto che a favorire la collettività, è testimoniato dalla tipologia dei sussidi che non sono correlati alla domanda soddisfatta ma alla quantità di servizio offerta. Ma non vi è alcun interesse pubblico a vedere incrementato il numero di autobus che circolano in città. I benefici che, teoricamente, possono giustificare il sussidio al tpl sono funzione del numero di passeggeri trasportati. La ricaduta più rilevante di un accrescimento della utenza del trasporto collettivo rispetto a quella che si avrebbe in assenza di contributi pubblici è quella di un più efficiente uso dello scarso spazio stradale: può essere interesse degli automobilisti incentivare, a proprio spese, l’utilizzo di tram e bus da parte delle persone che attribuiscono un più basso valore al proprio tempo; la riduzione dei tempi di spostamento conseguita grazie al minor numero di auto in circolazione può giustificare l’esborso monetario richiesto. Risultano poco rilevanti, al contrario, le ricadute in termini ambientali: in tale ambito il fattore decisivo non è rappresentato dal numero di mezzi in movimento ma piuttosto dalla loro tipologia. Un’auto che sia conforme ai più recenti standard di emissione europei inquina meno di un decimo rispetto ad un veicolo di dieci anni fa. A conferma di ciò, l’evoluzione della qualità dell’aria nelle maggiori aree urbane britanniche, dove l’utilizzo del trasporto collettivo è diminuito significativamente rispetto a vent’anni fa, è stata del tutto analoga rispetto a quella che ha caratterizzato città ove la quota di mobilità collettiva è rimasta invariata o è cresciuta. L’entità dei trasferimenti alle aziende dovrebbe quindi crescere o diminuire in funzione del numero di utenti trasportati e non dei chilometri percorsi. In tale ottica, particolarmente insoddisfacente risulta essere l’attuale condizione dei servizi extraurbani. Fatta eccezione per un numero limitato di corse utilizzate dagli studenti, la maggior parte dell’offerta è caratterizzata da un livello di frequentazione assai modesto. Il numero di passeggeri a bordo di veicoli con cinquanta posti disponibili, spesso si può contare con le dita di una mano e molte corse vengono effettuate senza alcun passeggero a bordo. Molte risorse potrebbero quindi essere risparmiate se l’attuale meccanismo di finanziamento delle aziende venisse sostituito dall’assegnazione di un “buono viaggio” alla sempre più ridotta fascia di popolazione che non dispone di un’auto, lasciando al mercato la ricerca delle soluzioni più efficienti per soddisfarne le esigenze di trasporto.

Da Libero Mercato, 24 giugno 2008


Figura 1 – Costo unitario dei servizi di TPL urbani in Gran Bretagna (esclusa Londra) ed in Italia – anno 2007

Figura 2 – Trasferimenti pubblici alle aziende di TPL delle aree metropolitane britanniche (esclusa Londra)

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