4. UNA RIVENDICAZIONE STORICA PER CONSEGUIRE LA VERA RINASCITA DELLA SARDEGNA
Franco Sotgiu, direzione regionale del Partito sardo d'azione
4.1. Il concetto di autonomia doganale e la funzione dei dazi doganali
Il problema dell'autonomia doganale della Sardegna non è nato ieri. Esso è vecchio di oltre un secolo e la soluzione che oggi si viene a dare al problema - soluzione che io, che ho materialmente steso il testo della legge che vi sta di fronte, riconosco parzialmente poiché il vero problema resta quello di consentire che la materia doganale sia di esclusiva competenza della Regione sarda - non è certo una soluzione improvvisata.
Occorre, comunque, fare una premessa metodologica: cosa si intende per dazi doganali? Questi sono quegli oneri fiscali di carattere impositivo, contenenti di fatto, nella realtà attuale, elementi di fiscalità esterna ed elementi di fiscalità interna (statale), posti e gravanti su alcuni prodotti esterni per evitare che questi possano entrare in un determinato mercato ad un prezzo più basso (e quindi concorrenziale) rispetto a quello di similari prodotti esistenti e/o circolanti nel mercato stesso.
Fatta questa premessa occorre dire che vi possono essere diverse vie per compiere il dovuto approccio alla tematica della « zona franca ».
Una prima via - che sembra la più seria oltre che la più ovvia, ed invece non lo è! - può essere quella dell'analisi economica od economicistica: è la via congeniale ai tecnici o, comunque, a coloro che tali si reputano. E’ la via, per esempio, che ha seguito il prof. Sabattini con l'analisi della bilancia commerciale sarda, esponendo dati e tabelle, e concludendo, in definitiva, che la fiscalità aggiuntiva sui prodotti provenienti dall'area extracomunitaria è di appena il 2,9 per cento del totale (dato medio di periodo) per cui la zona franca non porterebbe grossi benefici, ma anzi svantaggi. Carta canta!
Vi è poi un'altra via, più schiettamente politica, che porta alla analisi delle diverse interrelazioni nei rapporti interni sardi e nella tipologia e struttura degli interventi di sostegno all'economia in un'area dove esista il regime di zona franca ed è quella che, tutto sommato, ha percorso nella sua esposizione - che io pur lodo - Raffaele Garzia.
Vi è ancora una via schiettamente giuridica e tecnica - che finisce per interagire con quella economica dianzi ricordata, che analizza più o meno freddamente i dati testuali e li interpreta, anche alla luce dei precedenti in materia: ed è la via che, mi pare, ha seguito l’amico Gattone per concludere che, allo stato degli atti, è giuridicamente possibile il regime di zona franca in Sardegna.
4.2. La via storica o storicistica
Tutte queste vie, nella stesura del testo della legge, sono state percorse ma io credo che senza percorrere un'altra via, e cioè quella storica, o storicistica se preferite, non si possa né si riesca ad inquadrare lo spirito e la portata di questa legge e di questa soluzione. Ed è la via da cui l'amico Mario Melis ed io abbiamo preso le mosse, insieme ad altri amici, nel formulare il testo della legge.
Dico subito che a noi è parso oltre che doveroso, logico, inquadrare il problema nella più vasta tematica della « questione meridionale ».
Se infatti si può e si deve, anzi riconoscere che la Sardegna presenta, nell'ambito della questione meridionale aspetti « speciali » (ancora una volta ecco emergere la « specialità » della nostra autonomia!) io credo che possiamo concordare su di un punto fondamentale: qualunque sia l'interpretazione o l'analisi dei fattori sociali, politici ed economici che hanno creato il divario esistente tra il Nord ed il Sud del paese, si sposi cioè l'analisi gramsciana o quella salveminiana, o quella dorsiana, non c'è dubbio che uno degli strumenti, o forse lo strumento di più lungo periodo e quindi portante, attraverso cui si pervenne alla progressiva spoliazione delle ricchezze del Sud ed alla creazione - comunque - della ricchezza del Nord furono i dazi doganali. Il primo atto della tragedia che colpì il Sud (e che precipitò definitivamente, la Sardegna nell'abisso) io credo concorderemo tutti - ove naturalmente si voglia fissare all'analisi una data post-unitaria - nel ravvisarlo nell'unificazione del debito pubblico nazionale, attuata dal Piemonte dopo la conquista del Regno di Napoli.
4.3. Come il debito pubblico dello Stato piemontese venne riversato sulla Sardegna e sulle regioni meridionali
Il Piemonte, il paese più tassato ed indebitato d'Europa, con un disavanzo annuo di 50 milioni ed un debito pubblico di 640 milioni - quattro volte superiore a quello dell'intero Regno di Napoli! - rovesciò sul nuovo Stato questo enorme carico finanziario. Si disse che tutta l'Italia aveva l'obbligo di rimborsare le spese che il piccolo stato subalpino aveva sostenuto per finanziare l'indipendenza nazionale e non era vero, perché il debito pubblico piemontese, in massima parte almeno, derivava dai lavori pubblici, specialmente ferroviari. Insomma, con la storia della «solidarietà nazionale » il Sud pagò le infrastrutture del Nord del paese, consentendo enormi vantaggi al Nord stesso.
4.4. Il drenaggio delle riserve finanziarie dei Sud attraverso la liquidazione dei beni demaniali
Poi, attraverso la vendita dei beni demaniali ed ecclesiastici, si operò il drenaggio dei notevoli capitali in possesso della borghesia meridionale. Questa possedeva, grandi quantità di moneta d'oro e d'argento ed il danaro dell'ex reame abbondava a tal punto, che la rendita era quotata 115 lire! Quando si aprì la fiera della dilapidazione dei patrimonio demaniale e della mano morta, la classe dirigente meridionale fu colpita dalla maledizione che gravava sul suo capo: rinserrarsi sempre più nel blocco agrario e privarsi, con le sue stesse mani, degli strumenti tecnici che il caso aveva posto a sua disposizione per evolvere: essa, quindi, si precipitò sui demani e sui beni ecclesiastici per completare la sua secolare aspirazione al possesso della terra. Oltre 600 milioni di lire di allora andarono a finire nelle casse dello stato, e quasi tutta la riserva liquida del Sud si trasferì al Nord per finanziare e sviluppare il sistema capitalistico che, nelle provincie settentrionali, iniziava ad affermarsi. Ma a questi elementi se ne saldò un terzo di così grande portata, da essere determinante del divario che si andava creando: il protezionismo doganale.
Mentre la nostra borghesia, ridottasi senza quattrini, si convince sempre più che l'affitto della terra è lo strumento inventato da Dio per assicurare all'ozioso proprietario una vita meschina ma inattaccabile, con la ricchezza trasferita al Nord la borghesia del lavoro settentrionale riesce a svilupparsi notevolmente e con la protezione del nuovo stato. Come? Si forgia, a poco a poco, il sottile e machiavellico strumento dei dazi doganali protettivi.
I nuovi capitani d'industria dal Nord per mancanza di materie prime non possono ottenere i lauti profitti per la concorrenza delle altre produzioni estere? Non possono produrre, cioè, a buon mercato rispetto alla concorrenza straniera? Ebbene si ritocchino continuamente le tariffe finché un erpice, che vale 150 lire, sia gravato di 160 lire aggiuntive di dazio, e si vada avanti con la accumulazione di ricchezza.
4.5. L'introduzione e la funzione dei dati protettivi a favore dell'industria del Nord
I dazi protettivi furono certamente lo strumento iniquo che completò e rafforzò il circolo vizioso iniziatosi col drenaggio dei capitali meridionali; essi perpetuarono - accrescendole - le storture che il sistema fiscale ed il drenaggio finanziario avevano creato, divaricando in un solco incolmabile, l'economia delle due Italie.
La Sardegna - in posizione ancora più svantaggiata, sia per la insularità che per la sventura di aver dovuto, già da prima, subire il nefasto dominio di casa Savoia, viene totalmente spazzata via come entità economica.
L'analisi che ho fatto è confortata da questi dati: nel periodo che va dal 1885 al 1897 le espropriazioni operate dallo stato per mancati pagamenti d’imposta, furono 123 in Piemonte, 148 in Lombardia, 240 nel Veneto e 52.000 in Sardegna!
Nel periodo che va dal 1862 al 1898, per contro, lo stato spese per opere idrauliche (oggi diremmo, fonti energetiche) 548 milioni; di tale somma l'Italia settentrionale ebbe 266 milioni e 900 mila lire; l’Italia centrale 187.800.000 lire; l'Italia meridionale 1.600.000 lire; la Sicilia 1.300.000 lire... la Sardegna 400.000 lire!
Diceva Goethe: dicono che i numeri governino il mondo. Io non so se ciò sia vero, ma so che questi dimostrano « come » il mondo è governato!
4.6. Le contraddizioni tra Nord e Meridione
Drammatici, inoltre, furono i risultati nel campo sociale e politico.
Ora mi è chiaro che la questione si sposta sul terreno rivoluzionario. La classe dominante da distruggere non è più la borghesia terriera del Sud, divenuta miserabile, ma la borghesia industriale del Nord, cui la prima ha ceduto le armi. L'artigianato meridionale, che nel 1860 poteva ancora sperare di evolversi industrialmente con il concorso degli ingenti capitali locali, è definitivamente battuto dalle industrie parassitarie del nord che prosperano all'ombra dei dazi protettivi doganali; l'agricoltura meridionale, dovendo contentarsi dei miserabili margini che le lascia la protezione doganale, è cristallizzata sul latifondo, incapace di un processo di accumulazione; la borghesia terriera del sud, in preda alla miseria, si deve alleare con lo stato per non soccombere.
Invano Pasquale Villari, Franchetti, Sonnino e Giustino Fortunato sognano il sorgere di una nuova classe dirigente meridionale, sul terreno dello stato storico.
E’ il proletariato settentrionale, di recentissima formazione, che imposta, sul finire del secolo scorso, e per la prima volta, la moderna lotta politica in Italia e le masse proletarie accorrono, come percosse da un nuovo fremito, sotto le bandiere del socialismo.
Ma i termini fondamentali della lotta - anche se in Sardegna la tematica non è assente - si svolgono tutti al nord. Gli operai italiani non hanno, né possono avere, niente da opporre ai dati storici dello stato; essi ignorano il Mezzogiorno, ignorano la Sardegna, e il problema dei contadini del Sud. Perciò la vecchia borghesia italiana, composta di generali reazionari e di servitori di corte, ha torto ad opporsi ad una questione di semplice « cassetta » perché la mentalità del proletariato del Nord non va, appunto, al di là di semplici questioni di aumento dei salari. La questione di cassetta può essere sanata con ritocchi tributari e doganali e con un'accorta politica di opere pubbliche, di cui, prima, ho evidenziato i dati per noi disastrosi.
Un ex procuratore del re piemontese - Giovanni Giolitti - intuisce questo schema così semplice e si offre come mediatore.
Il nuovo compromesso è presto stipulato: il socialismo rivoluzionario si trasforma in riformismo giolittiano ed accanto al capitalismo protetto, sorge un proletariato protetto, quello dei Nord.
La situazione del Mezzogiorno diventa deteriore per l'aggravarsi della protezione industriale e doganale.
Alla nostra povera terra - che subirà questo schema nel futuro, sotto il fascismo e fino ad oggi nessuno potrà più togliere l'impronta coloniale che simili sventure le hanno impresso!
4.7. La protezione doganale dei MEC aggrava la crisi economica della Sardegna e del Sud
Né, a ben guardare, dissimile è - dopo un secolo - lo schema che adottano gli stati che danno
vita alla Comunità europea ed alla conseguente unione doganale europea.
Il discorso del protezionismo si sposta pian piano,verso altri confini; esso non parte più da Torino o da Milano, ma da Rotterdam, da Marsiglia, da Amburgo.
Ma il risultato è sempre lo stesso; lo schema semplice che Giolitti aveva intuito ed applicato, alla fine dell'altro secolo, riappare attraverso lo strumento raffinato e sottile, oltre che perverso e sommariamente iniquo, che si chiama mercato comune agricolo: il grande imbroglio del mercato comune agricolo!
Non solo la distribuzione delle risorse - prevalentemente destinate al sostegno dei prezzi agricoli (Feoga) - è totalmente sperequata, ma le produzioni stesse, ancora e sempre più protette da dazi doganali, divenuti « comunitari », si rivelano subito eccedentarie e quindi parassitarie. Finanziate dai poveri a tutto vantaggio dei ricchi. I dazi doganali comunitari producono ricchezza direttamente proporzionale alla ricchezza dei produttori e, quindi, degli stati membri più ricchi. Il Nord sempre più ricco, il Sud sempre più povero.
I meccanismi e le politiche seguiti per sostenere l'agricoltura vanno, di fatto, ad esclusivo vantaggio di una minoranza di grandi coltivatori. Milioni di piccoli agricoltori in soprannumero accettano, con crescente disagio, discriminazioni sociali che li colpiscono ed umiliano profondamente, condizioni di vita mediocri, quando non bestiali, ed una situazione sempre più incerta ed ancora una volta la nostra gente risponde con l'arma della disperazione, l'emigrazione!
La nuova patria europea è anch'essa matrigna e noi portiamo i nostri penati lontano dalle nostre case siamo sradicati dai nostri affetti, offriamo agli altri che noi stessi abbiamo contribuito ad arricchire e che ci disprezzano, la nostra forza brutta rassegnata e la nostra tradizionale dedizione al lavoro.
Mandiamo, è vero, valuta pregiata nella nostra terra: ma lo stato ed il sistema bancario (che il primo protegge) drenano verso il Nord anche questa misera fetta di ricchezza.
Un'emigrazione voluta, inarrestabile, a livello di genocidio!
Si è tanto urlato - e giustamente - per il fallimento dei piano di Rinascita, ma nessuno ha mai osservato che il (più clamoroso fallimento per la nostra isola, ad economia prevalentemente agricola, è stato proprio il Mercato comune agricolo: da quando è entrato in funzione è iniziato, in misura massiccia, l'esodo dai campi ed è aumentata la nostra emigrazione.
E per quali risultati, sul piano generale!
4.8. Protezione soltanto fittizia per i nostri prodotti agricoli e del Meridione
Malgrado lo smercio del burro sul mercato mondiale esterno a prezzi irrisori - attorno al 1970, 200 lire al kg, ricordo, mentre il prezzo di costo era superiore alle 1100 lire - e malgrado gli altri provvedimenti d’urgenza le celle frigorifere comunitarie restano piene.
Pur essendoci precipitati a svendere il grano a Cina, Giappone e Russia (lo scandalo della vendita dei grano ai russi è di queste ore!) a metà prezzo, i sili restano stracolmi. Lo zucchero, degradato, è dato agli animali; la frutta e la verdura sono distrutte; il grano degradato a mangime per le bestie; il latte, scremato in polvere, dato ai maiali ed alle galline che potrebbero benissimo fare a meno di mangiare pane, burro e marmellata, mentre i prezzi interni crescono ad un livello impressionante e si urla, farisaicamente, contro la scala mobile.
Ma non si dice che l'inflazione cresce perché si vogliono mantenere artificialmente alti i prezzi dei prodotti (agricoli e non) comunitari, appunto per permettere lauti profitti alle grandi produzioni del nord, né si comprende, o si relega come piccolo vantaggio, quasi trascurabile, che senza la protezione doganale comunitaria, il costo della vita in Sardegna scenderebbe sotto il 50 per cento del livello attuale.
Né si dica che le produzioni agricole da noi sono, comunque, protette anzitutto perché non proteggiamo un bel niente (e lo sanno i nostri produttori di vino costretti ad umilianti vessazioni allorché vogliono varcare il confine francese!), e poi perché non si dice quanto gli agricoltori pagherebbero per mangimi, fertilizzanti, macchine agricole, danaro, ecc. se non vi fossero le protezioni doganali comunitarie!
I prelievi agricoli (o prezzi di soglia), i diritti doganali, mobili (rivisti con periodicità addirittura settimanale), secondo la evoluzione dei prezzi mondiali (altro che prezzi anelastici verso il basso!) garantiscono ai grandi capitalisti del Nord Europa, qualunque sia il livello dei prezzi mondiali stessi, che i prezzi dei prodotti importati si trovino automaticamente rialzati al livello voluto, cioè non siano competitivi.
Ed è quindi inutile, stante una situazione che falsa le regole del gioco come questa, analizzare quale quota di interscambio una regione europea abbia con i paesi extra-comunitari, perché è di tutta evidenza che tale quota - quando esista - non sarà mai significativa: le regole del gioco sono fatte perché non vi sia interscambio con aree extracomunitarie, allorché convenga l’interscambio stesso. Perché ciò non converrebbe al grande produttore comunitario.
Non dissimile, anzi peggiore, è la protezione per le grandi produzioni industriali: peggiore, naturalmente dal nostro punto di vista, non certo da quello del produttore! A noi è impedito acquistare beni, merci, macchinari e prodotti industriali per dare l'avvio a produzioni che garantiscano quell'accumulazione di ricchezza di cui abbiamo bisogno e su cui insistono tanto gli economisti. A noi è impedito essere competitivi e come ricompensa ci arrivano le « briciole » di quella protezione cui ho accennato, sotto forma di sussidi (integrazioni comunitarie) alle nostre produzioni agricole, oltre che qualche misera restituzione all'export, per quel poco o nulla che esportiamo. Ma la ricchezza industriale, resta altrove!
Avete tutti visto cosa è accaduto allorché la Nissan giapponese è voluta entrare nell'area europea.
E tutto ciò crea ancora inflazione. A vantaggio di chi? Nostro? Certamente no!
Se questa è la realtà inconfutabile, quella realtà che ci ha emarginato non solo da ogni processo di crescita civile, sociale, politica ed economica, ma che ci emargina e ci emarginerà, in futuro, dai mercati mondiali, noi nel pronunziarci sulla proposta di legge sulla zona franca, dobbiamo anzitutto domandarci - come mi sono domandato io con i sardisti - se tutto ciò sia giusto.
E poiché concluderemo, certamente, che tutto questo non è giusto, anzi è sommamente ingiusto, dobbiamo domandarci come riparare a questa colossale ingiustizia.
4.9. Il discorso sulla zona franca risponde ad una esigenza politico-economica oltreché storica e geografica
Cioè dobbiamo dire, a mio avviso, che se la nostra rovina storicamente incontrovertibile, sono stati e sono i dazi doganali (o, anche e massimamente i dazi doganali, perché di « rovine », di quelle abbondiamo!) sono anzitutto questi che dobbiamo eliminare: subito e senza tante discussioni.
Ecco perché, a mio avviso, questo convegno si è svolto su una falsariga totalmente errata e criticabile, come criticabile è la stessa proposizione dubitativa del problema. Io avrei compreso che si dicesse « Sardegna, zona franca. Perché? », ma non che si mettesse in dubbio l'utilità dello strumento, perché lo comprende anche un tonto che è conveniente pagare 100 ciò che noi oggi paghiamo 500; come, del resto, lo comprendono assai bene coloro che si trovano, in ogni parte del mondo, in regime di zona franca e si guardano bene dal porre in dubbio l'utilità del loro status.
Noi oggi avremmo dovuto studiare e dibattere quali più efficaci strumenti adottare per realizzare « bene » la zona franca, quali strategie di medio e lungo periodo individuare, discutere sulla gradualità di attuazione dell'istituto e di cui ha fatto sensato cenno Garzia; quali alleanze, se volete, sul piano tattico e politico, eventualmente contrarre.
Questo e non altro, era il nostro sacrosanto dovere di classe dirigente, sempre che presumiamo di essere tale.
Anche perché - e qui il discorso è prettamente politico – l’attuazione della « zona franca » in Sardegna rischia di spostare, e sostanzialmente, gli assetti politici. Basta riflettere alla possibilità che la legge dà al presidente della Regione di ammettere e non ammettere alcuni prodotti in regime di « libera pratica » sul territorio sardo, per comprendere che la lotta politica in Sardegna avverrebbe su problemi concreti. Anche perché avremmo fatto gli interessi dei sardi.
Ed ove non avessimo rispettato questi interessi ci verrebbe negato il consenso, senza più inquinamenti di altra natura o motivazioni che sono molto lontane dai nostri reali interessi.
Anche questo è un discorso da sviluppare nell'approccio al problema della zona franca.
4.10. Le contraddizioni tra sostenitori della zona franca e sostenitori dei punti franchi
Prof. Sabattini, io ho letto la sua dotta relazione e presumo che coloro che sono contrari alla zona franca (e taccio degli inconfessabili motivi per cui lo sono!) ne faranno la loro bandiera di combattimento.
Ed invece la relazione di Sabattini, che contiene imperdonabili inesattezze (perché dire falsamente che il nostro vino, la nostra agricoltura, sarebbero penalizzate quando sia l'art. 9 che l'art. 21 della legge sono a salvaguardia di tali produzioni?) è proprio la dimostrazione migliore della necessità della zona franca.
Infatti, il prof. Sabattini, dalle tabelle che con tanta fatica ha analizzato e che ci ha prodotto, cosa ha ricavato? Che, sul totale del nostro import-export, quello extra-comunitario, è irrisorio: il 2,9 per cento mediamente, per quanto ha tratto dai prodotti sottoposti a imposizioni doganali.
Ma allora vuoi dire che i dazi protettivi - protettivi di altri interessi, credo, prof. Sabattini – hanno funzionato! E hanno funzionato tanto negativamente per noi - o la Sardegna è in condizioni floride? - che non abbiamo avuto interscambio con quei paesi con cui ci sarebbe convenuto averlo. Per esempio, e vi risparmio lo sviluppo del calcolo, se avessimo importato quest'anno grano tenero (che in Sardegna non produciamo e quindi non abbiamo interesse a difendere) per fare il pane, senza pagare dazi doganali (prelievi agricoli) i sardi avrebbero risparmiato la bazzecola, sul solo pane, di 3,5 miliardi di lire.
Bè, se mi consentite, a noi interessa molto, moltissimo, questo dato. E i sardi avrebbero risparmiato tanti altri miliardi su tanti altri prodotti che noi dall'area extra-comunitaria non importiamo appunto perché il livello dei dazi doganali ce lo impedisce.
E non è vero che non avremmo potuto installare attività di media impresa. Ho qui alcuni dati della tariffa relativi ai dazi fissi e mobili, rispettivamente, e sentite che musica hanno i costi aggiuntivi che paghiamo: carni 20 per cento in più; caffè 12 per cento più 12 per cento più 5 per cento; aeroplani 12 per cento; trattori 20 per cento più 18 per cento; autocorriere 29 per cento più 22 per cento; telai per auto 29 per cento più 22 per cento; carrozzerie per auto 29 per cento più 22 per cento; accessori per auto 20 per cento più 8 per cento; materiale rotabile 13 per cento più 6 per cento, e così via per tutti i prodotti!
Risparmiando queste cifre conviene o no installare attività d'impresa in Sardegna? Staremmo meglio o peggio?
E poi, ho qui con me il documento con cui si è presentata la delegazione spagnola agli altri partner (futuri) comunitari per negoziare il suo ingresso nella Cee; a parte le zone franche delle Canarie ecc. che non si toccano, la Spagna vuole mantenere le sue zone franche di Barcellona, Cadice, ecc. dove sono installate industrie meccaniche ad alta intensità sia di manodopera che di tecnologia (Seat, cioè Fiat, Citroen, macchine agricole, ceramica, componenti per auto, chimica fine): non sono queste le industrie che volevamo? E la stessa Nissan perché non dovrebbe localizzarsi in Sardegna?
E le grandi industrie che il prof. Sabattini scopre « inquinanti »: ma il polo metallurgico non lo vogliamo più? Dopo le lotte che abbiamo fatto? Non riesco poi a capire perché, in regime di zona franca, le industrie dovrebbero aumentare gli stoccaggi e quindi trovare insostenibile il finanziamento del monte merci, per l'eccessivo costo del danaro.
Certamente posso dire una cosa: che con eguale massa di danaro di quella impiegata oggi si finanzierebbe esattamente il doppio, come minimo, dell'attuale livello di scorte.
E poi, andiamo, il danaro costerebbe meno, basta guardare i tassi delle eurodivise e del dollaro.
Resta l'obiezione che non potremmo commerciare con la Comunità perché i nostri prodotti sarebbero gravati da dazi all'entrata.
A parte che era onesto dire - specie da parte di uno studioso attento come Sabattini - che i prodotti comunitari (esclusi quelli agricoli!) sarebbero defiscalizzati entrando in Sardegna, cioè dovrebbero costare come i prodotti extra-comunitari; (lo sa prof. Sabattini che una automobile europea costa meno negli Usa che in Europa?), se poi noi paghiamo la dogana nel rivenderli, magari dopo averli trasformati, che male c'è? E sovrattutto quale svantaggio c'è? Al contrario, vi è un vantaggio! Anzi più d'uno!
Anzitutto in Sardegna tutto costerebbe di meno per i sardi. A lei, prof. Sabattini questo importa poco; ma a noi, invece, importa moltissimo. Poi vi è il vantaggio, che se noi importiamo, in esenzione doganale, una materia prima od un semilavorato, e lo trasformiamo e poi lo rivendiamo nella comunità il dazio doganale, a norma di legge - carta canta, prof. Sabattini! – lo paghiamo solo sulla materia prima o sul semilavorato (dove non lo abbiamo assolto prima) ma non sul prodotto finito. Vi sembra poco? E soprattutto le sembra argomento da trascurare professor Sabattini?
Certo Sabattini ha ragione quando dice che non esistono infrastrutture commerciali e tecniche sufficienti per consentire un felice progredire delle intraprese industriali e commerciali, ma ha torto marcio quando da questo argomento trae la conclusione che perciò non bisogna creare la zona franca. Anzi, dico io, la zona franca è proprio la giustificazione per creare queste infrastrutture, creando quindi molto lavoro indotto. O vogliamo restare sempre così: miserabili e fedeli!
Ma soprattutto quel che, prima di finire, debbo mettere in evidenza è l'assoluta inutilità dei così detti « punti franchi »: questo,perché oggi, col sistema della temporanea importazione che permette di importare/ temporaneamente in esenzione doganale per trasformare e riesportare non ha più senso parlare di punti franchi: esistono già! Chiunque può farlo, a certe condizioni amministrative.
Ma questo non vuoi dire che convenga tout-court intraprendere iniziative perché esiste la temporanea importazione.
Altra cosa è se si possono importare, in esenzione doganale, i macchinari per installarli e quindi aver un minor costo per gli stessi, come prevede la legge che dovremmo discutere. Ma perché limitare questo vantaggio a poche aree, ripercorrendo la famigerata logica dei poli di sviluppo? Perché non dare a tutto il territorio della Sardegna questo vantaggio?
Concludo dicendo che ciò che si è portato all'attenzione del Parlamento e del Consiglio regionale e - soprattutto - del popolo sardo è un'opera appassionata ed un'idea generosa, che nasce dalla nostra cultura sociale e politica ed affonda le sue radici nella faticosa lotta che la Sardegna deve combattere per darsi un assetto civile e moderno.
Con questo spirito noi sardisti l'affidiamo al vostro sereno dibattito che auspichiamo scevro di preconcetti e, consentitecelo, di cinismo.
Noi riteniamo che i sardi, nella loro stragrande maggioranza, chiedano una bandiera intorno alla quale raggrupparsi, senza più tante sottili differenziazioni mutuate da situazioni, schieramenti ed ideologie politico-sociali spesso così estranee a noi: ebbene io dico - e molti di voi me lo confermano – ora quella bandiera l'abbiamo ed è una bandiera a suo modo rivoluzionaria, perché tende a capovolgere un'iniqua situazione di soggezione coloniale a cui siamo sottoposti.
Questa bandiera è la zona franca, vessillo di libertà e di giustizia per il popolo sardo.