2 luglio 2008

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Quell’omicidio chiamato stupro
Slavenka Drakulic*


Ricordo con chiarezza la prima vittima di stupro che ho avuto la ventura di conoscere. Era l’autunno del 1992 e mi trovavo in una cittadina non lontana da Zagabria. La donna era una musulmana di Kozarac in Bosnia. Dopo alcuni mesi trascorsi in un campo di prigionia, era arrivata a Zagabria con un gruppo di rifugiati. Selma (non è il suo vero nome) aveva circa 35 anni, capelli castani corti e occhi di un azzurro intenso.

Mi raccontò la sua storia con un filo di voce quasi bisbigliando. Si trovava a casa con i suoi due figli e sua madre quando un gruppo di paramilitari serbi fece irruzione nel cortile. Dissero che cercavano armi, ma a casa di Selma non c’erano armi. In realtà era ben altro quello che volevano.

Con una espressione feroce sul viso, un uomo la afferrò e la spinse nella stanza da letto. Poi gli altri lo raggiunsero. «Poi me lo hanno fatto».

Con queste semplici parole e con lo sguardo basso e fisso sulle mani che tormentava nervosamente, Selma mi ha parlato della sua tragedia. «Per molto tempo dopo quel fatto non sono riuscita a guardare in faccia i miei figli... Non facevo che lavarmi, ma continuavo a sentire addosso il loro odore. Immagini, me lo hanno fatto sul mio letto coniugale», mi ha detto.

Colsi una inflessione di disperazione nelle sue parole. Non piangeva o, quanto meno, non piangeva più. Ma si vergognava e la vergogna non l’abbandonava. Doveva conviverci così come doveva conviverci suo marito.

Il 20 giugno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato all’unanimità una risoluzione che classifica lo stupro un’arma di guerra. Le associazioni per la tutela dei diritti umani hanno saluto questa decisione come un fatto storico, ma non è una riparazione giuridica. Decine di migliaia di vittime delle violenze sessuali in Bosnia non si sono viste ancora riconoscere lo status giuridico di vittime di guerra. Mentre lavoravo al mio libro «They Would Never Hurt a Fly» (NdT, Non farebbero mai del male ad una mosca) sui criminali di guerra dei balcani sotto processo a L’Aja dinanzi al Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia, mi sono imbattuta nel “caso Foca”. Nel 1992 Dragoljub Kunarac, Radomir Kovac e Zoran Vukovic, tre serbi della città bosniaca di Foca, misero in prigione alcune giovani musulmane, le torturarono, le ridussero in una condizione di schiavitù sessuale e le violentarono. Eppure quegli uomini non riuscivano a capire per quale ragione venivano processati.

Uno di loro si difese dicendo: «ma avrei potuto ucciderle!». Dal suo punto di vista aveva salvato loro la vita. Stupro? Ma che reato può mai essere in confronto all’omicidio?

Questo caso è importante perché il 22 febbraio 2001, Florence Mumbal, giudice del Tribunale Penale Internazionale proveniente dallo Zambia, li giudicò colpevoli. I tre serbi sono stati i primi uomini nella storia del diritto europeo ad essere condannati per crimini contro l’umanità - tortura, riduzione in schiavitù, offesa alla dignità umana e stupri di massa di donne musulmane bosniache.

Questa sentenza riconosceva che la violenza sessuale è un’arma estremamente efficace per le operazioni di pulizia etnica. Non solo copre di vergogna le donne violentate, ma umilia i loro uomini che non sono in grado di proteggerle. La violenza sessuale distrugge l’intera comunità in quanto sul vittime rimane il marchio - mai dimenticato, mai perdonato.

Nel corso del processo contro gli imputati del caso Foca ci fu una testimone, madre di una bambina di 12 anni fatta prigioniera da Radomir Kovac che la violentò e la vendette a un soldato montenegrino per 100 euro. La ragazza non è stata mai più ritrovata. La madre si era presentata in tribunale per guardare in faccia l’aguzzino di sua figlia e per testimoniare contro di lui. Ma quando si alzò in piedi dinanzi alla Corte non riuscì a dire nemmeno una parola. Dalle sue labbra uscì solamente un suono simile all’insopportabile ululato di un cane ferito a morte. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu sullo stupro certo non farà tornare a casa la figlia di questa povera donna. Ma è, non di meno, un avvenimento storico perché, finalmente, la violenza sessuale viene classificata come un’arma e può essere punita. Un uomo non potrà più difendersi dicendo che avrebbe potuto uccidere una donna, ma l’aveva “solamente” violentata. Oggi sappiamo, così come lo sapevamo prima che questa risoluzione fosse approvata, che lo stupro è una sorta di lento, differito omicidio.

Slavenka Drakulic collabora con la rivista «The Nation» ed è una scrittrice che vive in Croazia. Il suo ultimo libro, uscito negli Stati Uniti, si intitola «They Would Never Hurt a Fly: War Criminal on Trial in The Hague» (Penguin).

© 2008, The Nation
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Pubblicato il: 02.07.08
Modificato il: 02.07.08 alle ore 8.19


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