EST - Stampa Usa, elezioni: i democratici non faranno governare Obama


Roma, 9 lug (Velino) - A sentire i discorsi dei candidati in campagna elettorale, le “grandi questioni” sono sempre e comunque al centro del dibattito. Non è di questo avviso Robert Samuelson sul Washington Post, per il quale l’idea che le elezioni consentano agli elettori di “accordarsi” su tali grandi questioni e provare a sistemarle è “uno dei più folli miti della politica” e che, in questa campagna elettorale, siano i “suoni del silenzio”, proprio sulle big issues, quelli più assordanti. La verità – spiega Samuelson - è che c’è spesso una sorta di “consenso bipartisan” proprio nell’evitarle “perché comportano scelte impopolari e conflitti”.

E così le elezioni “si trasformano in esercizi d’evasione di massa”, una definizione che secondo Samuelson “a questo punto è possibile certamente applicare anche all’attuale campagna” per le presidenziali americane. A questo proposito, il columnist del Washington Post fa l’esempio della profonda “trasformazione della popolazione statunitense” causata dall’invecchiamento e dall’immigrazione: “Vi sono poche questioni – scrive Samuelson – che abbiano altrettanta rilevanza per il futuro della nazione”, ma, nonostante ciò, tanto l’immigrazione che l’invecchiamento demografico sono argomenti che vengono “per lo più ignorati”.

Cos’è che dicono – chiede Samuelson – il repubblicano John McCain e il democratico Barack Obama a proposito di questi “problemi che s’affacciano minacciosi sul futuro degli Stati Uniti?”. “Beh, non molto”, si risponde il giornalista. “Ovviamente – prosegue – entrambi si dicono contro la povertà e la mancanza di senso di responsabilità fiscale, si oppongono all’immigrazione clandestina e sono a favore delle ‘riforme’”. Tuttavia – nota Samuelson –“al di là di questi luoghi comuni, restano muti”. Il punto è che – spiega – “quel che si farà e che non si farà riguardo a tali questioni finirà per influire profondamente sulle caratteristiche della nazione nel giro di dieci, venti o cinquant’anni”. E precisa che anche “non far nulla è una politica”. Una “cattiva politica, che è poi quella che stanno essenzialmente adottando sia Obama che McCain”.

Non è difficile, secondo Samuelson, capire il perché. “Discutere con franchezza di questioni del genere” – spiega - potrebbe costituire un autentico “suicidio politico”, alienando a chi decidesse di affrontare argomenti tanto sensibili le simpatie (e il voto) di gruppi assolutamente cruciali di elettori come gli ispanici e i pensionati. È cosa nota – scrive ancora Samuelson - che gli americani preferiscano generalmente sentirsi dire “cosa il governo farà per loro in quanto individui, famiglie, consumatori, e non cosa potrà fare per il benessere sul lungo periodo della nazione, soprattutto se ciò comporta costi e fastidi immediati”. I politici americani – spiega il columnist del WP – sono ben consapevoli di tutto ciò e “s’impegnano in una sorta di censura consensuale” per lasciar correre certe questioni.

Gli stessi cittadini – nota ancora Samuelson – “tendono a evitare i problemi troppo complicati” preferendo concentrarsi su “ambizioni irrealistiche e prive di consistenza”. E dunque: “Vogliamo più assistenza sanitaria ma minori costi per la salute; più risorse energetiche, ma minor dipendenza dall’import di energia da altri paesi; vogliamo che il governo spenda di più, ma al tempo stesso vogliamo meno tasse. Più irraggiungibili sono i nostri obiettivi, più diamo la colpa agli ‘interessi particolari’, ai ‘lobbisti’ e ad altri facili capri espiatori”. Gli stessi protagonisti del mondo politico, inoltre, “preferiscono distribuire responsabilità e promettere benefici”. E così – conclude l’editorialista – “le elezioni vanno e vengono, con vincitori e sconfitti, ma i problemi del paese peggiorano”.

Clarence Page su RealClearPolitics torna invece sulla virata centrista del candidato democratico Barack Obama. Una della “critiche più severe” che fino a qualche tempo fa i conservatori tendevano a muovere nei confronti del senatore dell’Illinois era - scrive Page - la sua “lieve danza” attorno a qualsiasi questione che potesse “irritare” il nocciolo duro del proprio elettorato. Come può dire – chiedevano i conservatori - di voler dare un taglio a quella che definiva “la politica come al solito” se poi faceva di tutto per non creare malumori a sinistra? Ora però – scrive Page – non possono più muovergli un’accusa del genere e gli danno, come in molti negli ultimi tempi, del “flip-flopper”, una banderuola mossa dal vento dell’opportunismo politico.

A proposito della profonda irritazione di quanti di area molto liberal si sono lamentati del fatto che Obama abbia messo in svendita la sinistra, Page nota che “da un altro punto di vista, più che svendere la sinistra” il candidato democratico “sta facendo acquisti al centro”, sta cercando di raggiungere “quel che Colin Powell aveva chiamato il ‘centro sensibile’, quell’ampio, sconfinato terreno nel bel mezzo della politica statunitense dove la maggior parte degli elettori americani vive e vota”. Ironia della sorte, – nota Page – il “migliore alleato” di Obama in questa “grande avventura” è proprio l’avversario repubblicano: sono stati i supporter di McCain, infatti a dare a Obama l’etichetta di “flip-flopper” come avevano già fatto nel 2004 per John Kerry. Tali aggiustamenti di rotta – evidenzia Page – sembrano concordare con la vecchia massima di Nixon: “Corri verso la base del tuo partito nelle primarie e torna al centro per le elezioni generali”. La stessa cosa – osserva il columnist – l’aveva fatta anche Bill Clinton e l’aveva chiamata “triangolazione”.

Ancora su RealClearPolitics, Dick Morris, fra le altre cose ex consigliere politico proprio di Bill Clinton, scrive che se pure la palese scivolata verso il centro da parte di Obama in questo ultimo scorcio di campagna elettorale è intesa a conquistare la Casa Bianca, è pressoché certo che il candidato democratico, se dovesse uscire vincitore dalle elezioni generali, “sarà costretto a spostare le proprie posizioni nuovamente, e di molto, verso sinistra”. È “più che probabile” – prosegue Morris – che in caso di vittoria Obama si troverà ad avere a che fare con un “Congresso pieno di democratici e liberali”. Nel 1993 Bill Clinton “si trovò di fronte alla stessa situazione e non ebbe altra alternativa che spostarsi drammaticamente a sinistra”.

La stessa cosa – prevede Morris – accadrà a Obama, e la questione irachena, ma non da sola, lo dimostrerà ampiamente. In caso di vittoria, il senatore dell’Illinois si troverà infatti con “una guerra già vinta, una democrazia già stabile e un problema già risolto. Nonostante ciò, tuttavia, sarà costretto a strappare la crosta dalla ferita e farla sanguinare di nuovo riportando prematuramente a casa le truppe americane”. Se pure dunque finisse alla Casa Bianca, il candidato democratico – nota ancora Morris – “non potrà governare dal centro” neanche se ci provasse semplicemente perché “il suo partito non glielo lascerà fare, trasformando l’Obama delle primarie in un uomo onesto e l’Obama di novembre in un bugiardo”.


(dna) 9 lug 2008 10:40


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