Originariamente Scritto da
Garrulus
Al di là della Gagliardi, di ciò che è e rappresenta, a me sembra che questo articolo possa essere condiviso in larga misura...
Contro
il moralismo
di sinistra
Rina Gagliardi
Sulla manifestazione di piazza Navona è lecito e doveroso continuare a discutere, non solo dal punto di vista politico, ma da quello delle culture politiche che in quella storica agorà si sono espresse, rappresentate, autopercepite.
A me personalmente è parsa una manifestazione "orribile" soprattutto per questa seconda ragione: perché, in un evento che ha evidentemente raccolto persone e personaggi molto tra loro diversi, il primato culturale - l'egemonia, per usare la lezione di Gramsci - è stato indiscutibilmente esercitato da un humus reazionario.
Un cocktail di demagogia populista, di antipolitica giustizialista, di antiberlusconismo tanto gridato quanto superficiale, condito di uno spruzzo di furbizia quasi contadina, che poi costituiscono alcuni degli ingredienti fondamentali del "dipietrismo". Ma, anche e soprattutto, un orizzonte moralista che serpeggia - esso sì, diffusamente - non solo tra i così detti girotondini, ma in vaste aree del popolo di sinistra che confondono oggi il moralismo con la questione morale e con la moralità stessa della politica.
A mio parere, è innanzi tutto su questa temperie politico-culturale che urgono la riflessione e il confronto. E comincio con un riferimento all'apparenza molto lontano.
Quasi due secoli fa, nell'appendice ad un piccolo libro ( Per la pace perpetua ) che è forse il primo testo pacifista dell'era moderna avanzata, Immanuel Kant poneva questi problemi in termini che (almeno a me) appaiono di sconcertante attualità.
Affrontando il rapporto tra morale e politica, il grande filosofo distingueva anzitutto tra il "politico morale" e il "moralista politico": il primo fa sua la sapienza della legge morale (che non è un contenuto ma una forma, la forma di un imperativo universale) e la pratica con prudenza, cioè nella sfera storicamente determinata della prassi politica; il secondo muove da principi generali "assoluti", sciolti, vale a dire, da ogni connessione con la realtà storica e politica, ma non rinuncia ad intervenire dentro di essa. Ed ecco l'apparente paradosso - il "politico morale" comincia là dove finisce il "moralista politico", dice Kant. Se morale e politica vengono non distinte, come è ovvio, ma radicalmente separate; se la legge morale non è autonoma, cioè laicamente fondata nella collettività interumana, ma eteronoma, dettata da un principio astratto o religioso; e se il primato (necessario) della legge morale non ha nulla a che fare con il "regno dei fini", la politica allora si riduce a pura tecnica - a strumento funzionale a qualsiasi obiettivo, ad arma nella sua essenza intima affatto immorale.
Molti decenni dopo queste affermazioni kantiane, quante volte le abbiamo viste prender corpo sotto i nostri occhi? Quanti democristiani hanno praticato, "nel nome di Dio", politiche scellerate o ruberie o compromessi di infimo livello, senza sentirsi minimamente in contraddizione? Quanti moralisti sessuofobi sono stati scoperti mentre cedevano felicemente ai peccati più orgiastici? E quanti crimini sono stati commessi, anche nella nostra storia, "nel nome del popolo" o del socialismo?
Ora, nel presente oscuro in cui siamo immersi, il moralista ricompare nella veste del "moralista dispotizzante" - altra figurazione kantiana quasi profetica. Questa variante di moralista non conosce altro che la sapienza, i principi generali, e li scaglia addosso, o contro, tutta la realtà esterna, senza alcun reale intento trasformativo. Il moralista "puro", possiamo dire, che è sempre e per definizione autoritario e intollerante: egli, od essa, riempie di contenuti prescrittivi la legge morale, pretende di regolamentare la condotta e le scelte degli altri, decide dove sono e che cosa sono, per tutti, il bene e il male - perfino la felicità. La storia dell'occidente è fortemente attraversata dal moralismo dispotizzante, che spesso e volentieri si mischia al moralismo politico e tende comunque sempre a restringere la libertà dell'individuo - si pensi al così detto "modello di vita" nordamericano, il più conformista, a livello delle grandi masse, che si conosca, il più sottilmente autoritario. Ma si può negare che non ne sia intrisa, in profondità, la nostra stessa storia, il nostro stesso presente?
Si dirà: che cosa c'entra tutto questo, con piazza Navona o con l'antiberlusconismo? A mio modesto parere, c'entra moltissimo - e può contribuire a spiegare perché tanta gente di sinistra, tanti ex-sessantottini, perfino qualche compagno, guardino oggi al "dipietrismo" come alla prospettiva politica (ed elettorale) più convincente. A me pare che a sinistra, la delusione, la crisi della politica, la sfiducia radicale nella politica, l'antipolitica tendano oggi a declinarsi come moralismo dispotizzante. Come astratta ossessione palingenetica. Come bisogno di pulizia anzi di purificazione. Come vendetta.
Nulla di più lontano dal pensiero di Enrico Berlinguer: che ebbe sicuramente tentazioni di tipo moralistico (quando propose, per un breve lasso di tempo, il "governo degli onesti"), ma che pose la questione morale come questione sostanzialmente politica. Non si trattava allora, come non si tratta oggi, soltanto di liberare la politica e il potere dalla corruzione, o dal ladrocinio, o dall'imbroglio - questo essendo, se così si può dire, l'Abc di qualunque società che non voglia sprofondare nel degrado morale. Non si trattava, neppure, di combattere i privilegi ingiustificati, gli abusi, le commistioni organiche con le logiche criminali e mafiose - anche questo essendo un obiettivo rilevante (ma ovvio) di ogni democrazia che si tale si voglia definire. Si trattava - e si tratta - di ricostruire un senso forte a una politica, a una sinistra, che lo hanno smarrito, e che si sono "corrotte" non perché (come Robespierre contro Danton) il vizio alligni ormai dovunque, ma perché non sanno proporre alternative credibili all'ordine esistente delle cose. Perché non hanno più un "regno dei fini". Perché non capiscono, in conseguenza, i grandi processi di mutazione che sono in corso nelle nostre società.
Insomma, il discorso va rovesciato, come ci diceva Kant: una politica morale potrà essere ricostruita soltanto a partire dalla politica, dalla capacità di reinvestire nella politica la nostra capacità di analisi, le nostre proposte, le nostre risorse morali. La fuga moralistica, appunto, è una fuga. La fuga di chi rinuncia "definitivamente" alla Grande Riforma del mondo e, non per caso, si sfoga con un po' di parolacce.
13/07/2008