Anche il presidente della Federal Reserve Ben Bernanke, finalmente, ha compreso che la recessione è inevitabile e che il problema prioritario è l’aumento dell’inflazione a lungo termine. Così è servito chi per mesi ha lanciato improperi al governatore della BCE Jean-Claude Trichet e alla sua scelta (saggia) di privilegiare stabilità monetaria e lotta all’inflazione rispetto a obiettivi di crescita economica attraverso manovre sui tassi di interesse.
Non più tardi di 4 mesi fa, scrissi che evitare la recessione affidandosi a iniezioni di liquidità o a inutili tagli del tasso di sconto è un po’ come cercare di ritardare un inevitabile conto salato al ristorante ordinando altre portate. Tradotto in pratica, ciò significa che più si ritarda l’arrivo della recessione e più severa questa sarà. Quel che temo, purtroppo, è che questa crisi non sarà tanto breve e uscirne senza pagare prezzi alti non sarà semplice. Lo spettro dei fallimenti bancari è tornato a manifestarsi in maniera quasi spettacolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, e in maniera più circospetta e subdola in Spagna, dove la BCE sta facendo (di nascosto) con l’intero sistema bancario iberico ciò che la Fed ha fatto (pubblicamente) con la banca d’affari Bear & Stearns, ossia sta acquistando con titoli del debito pubblico i subprime delle loro banche commerciali. Tutto questo, prima finisce e meglio è, perché, come tutte le bolle, anche quelle finanziarie non possono essere stabili, per non farle scoppiare occorre gonfiarle continuamente, fino a che non scoppiano perché troppo grosse.
Questi scenari rievocano sempre i fantasmi di crack passasti, di un nuovo 1929, per capirci. Naturalmente, c’è chi dice che rispetto ad allora la crisi si è manifestata in forme diverse (vero) e la capacità di risposta delle banche centrali è aumentata, cosa vera anche questa, ma ciò che non cambia è la dinamica delle crisi. Oggi come allora, e come negli anni Settanta, ci troviamo a subire le conseguenze di politiche monetarie espansive intraprese nel decennio precedente. Dalla metà degli anni ’90 (e soprattutto dopo l’11 settembre) l’immissione di liquidità e l’espansione creditizia sono state molto forti, così come lo furono sia negli anni Sessanta in America - perché occorreva finanziare la guerra in Vietnam e i progetti di Great society di Kennedy e di Lyndon Johnson - sia negli anni 20. Allora, come ben documentato nel libro La Grande Depressione di Murray Newton Rothbard (Ed. Rubbettino), i politici americani credettero che attraverso le manovre monetarie della Fed (appena istituita nel 1913) si potessero creare dal nulla tutte le risorse necessarie per soddisfare gli appetiti delle loro clientele.
Ebbene, allora come oggi, grazie ai tassi artificialmente bassi e al credito facile, si ebbe un boom artificiale di investimenti, e una volta che ciò avviene, il maggior impiego dei fattori produttivi (lavoro, materie prime, credito) fa sì che questi diventino più scarsi, così che i loro prezzi (che per le imprese sono costi) aumentano, e con essi i prezzi dei beni di consumo. In tale contesto, la banca centrale deve per forza alzare i tassi per scongiurare la spirale rialzistica prezzi-salari, dato che l’aumento dei prezzi è sempre maggiore di quello dei salari, di modo che il potere d’acquisto dei consumatori diminuisce, mentre per via del fatto che i costi sono stati sostenuti in passato quando i prezzi reali dei fattori produttivi erano alti, i prezzi dei beni di consumo sono alti anch’essi e non possono essere diminuiti. E nella crisi odierna c’è da mettere nel conto anche gli effetti perversi del credito al consumo, strumento anti-ciclico nelle intenzioni, ma il cui unico effetto è stato quello di posticipare il momento della recessione, salvo però alimentare ulteriormente la bolla speculativa in atto, finendo per aumentare la massa debitoria di molti cittadini verso le banche.
Questa è la dinamica congiunturale delle recessioni, mentre per quanto riguarda l’Italia, a tutto ciò si aggiungono i soliti problemi strutturali e sistemici. In un contesto recessivo e stagflativo come questo, invece di invocare bassi tassi e più Stato occorrerebbe diminuire le imposte, abbattere i costi e aumentare l’efficienza delle imprese. L’Italia avrebbe dalla sua anche la possibilità di aumentare l’efficienza sistemica attuando un massiccio programma di liberalizzazioni, che associate a una forte diminuzione delle imposte potrebbero sortire effetti positivi ben più di quanto non sembri.
Infatti, l’Italia è il paese industrializzato con il debito privato più basso e con la capacità di risparmio maggiore. Il problema è questo risparmio è troppo rivolto verso il mattone, mentre necessiterebbe di essere indirizzato verso settori più dinamici, il che porterebbe effetti positivi persino allo stesso settore immobiliare. Questo, naturalmente, non dovrebbe avvenire con metodo coercitivi, ma attraverso riforme radicali delle nostre istituzioni economiche e giuridiche, ossia attraverso una maggior trasparenza, una giustizia più rapida e più severa contro chi froda e delinque, diritti di proprietà più sicuri, più concorrenza e minori vincoli. Tutto questo non sembra al momento nelle corde del governo italiano. Di liberalizzazioni non si parla e il Ministro dell’economia Giulio Tremonti ha tenuto a precisare che la pressione fiscale rimarrà inalterata almeno per i prossimi tre anni.
Nel governo Berlusconi sta emergendo chiaro e tondo un approccio iper-protettivo alla crisi con una sorta di catenaccio economico a difesa dell’esistente, quando l’Italia è un paese che avrebbe necessità di aprirsi e di modernizzarsi. L’attuale governo ricorda proprio quello del presidente americano Roosevelt, che con il New Deal degli anni ’30 ricompattò sì la nazione, ma a prezzo di una crisi che si protrasse fino al 1941 quando l’entrata in guerra resettò tutto facendo ripartire l’economia. Se questo è l’esempio che il Governo Berlusconi vuole seguire, prima cambia registro e meglio è.
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