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    PENULTIMO VALLIGIANO COMUNISTA
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    Talking Ficton leghista con guerrieri ROM

    Barbarossa: il film «leghista»

    Le imprese di Alberto da Giussano «Comparse rom, costano poco»


    DAL NOSTRO INVIATO
    BUCAREST — Vessilli bianchi segnati da una lunga croce rossa sventolano sulla facciata del palazzo dell'antico Comune annunciando la riscossa. Alberto da Giussano avanza fiero, spadone alla cinta, giustacuore di pelle, i ricci neri stretti da una fascia. Da lì a poco la grande battaglia. Lui a capo della Compagnia della Morte, 900 giovani pronti a sacrificarsi per difendere quel Carroccio simbolo dell'unione tra i comuni lombardi contro Federico Barbarossa. Ma stavolta, a salire su quei carri e annientare a colpi di falce lo straniero invasore, ci sono dei romeni. Anche dei rom.
    Promossi sul campo, anzi sul set, a eroici «lumbard» senza macchia nè impronte digitali. Con buona pace di Bossi. Capita che il cinema si faccia beffe della storia ribaltando fisime e tabù anche quando meno lo si vorrebbe. Certo non era questa l'intenzione di Renzo Martinelli, regista amico del Senatur, in questi giorni alle prese con Barbarossa, kolossal fanta-storico da 30 milioni di dollari coprodotto da Rai Fiction e Rai Cinema, cast internazionale, da Rutger Hauer (l'imperatore germanico) a Raz Degan (Alberto da Giussano), da Kasia Smutniak a Cecile Cassel, da Angela Molina a Murray Abraham. Un epic-movie dalla doppia vita (una versione per il grande schermo, un'altra per la tv) fortemente sostenuto dalla Lega di oggi, in cerca di un passato da mitizzare. Ricostruito però, per ragioni tecnico-contabili, anziché nella gloriosa terra di Legnano nella «sospetta» Romania. Dove la campagna ancora intatta consente di evocare credibilmente scenari del XII secolo, dove ottimi studios offrono a ottimi prezzi artigiani e comparse di qualità. Maestranze capaci di cucire in poche settimane un migliaio di costumi (disegnati con cura maniacale da Massimo Cantini Parrini), di edificare pietra su pietra (anche se di polistirolo) quella che poteva essere la Milano del 1158, con le mura difese da grandi torri, le piazze circondate da case basse, banchetti con esposti vasi e stoffe, la bottega del maniscalco, la chiesa di mattoni la cui facciata, spiega la scenografa Rossella Guarna, ricalca quella romanico-lombarda di San Pietro in Ciel d'Oro di Pavia. Una vera città, destinata a crescere e dilatarsi in post produzione grazie alle magie del digitale. «Sei mesi e 2 milioni di euro per costruirla», svela Martinelli. Soldi ben spesi. «Qui dentro girerò anche il mio prossimo film, sull'alluvione di Firenze. Quel che costa è la struttura di legno, che verrà conservata e adattata ai nuovi fondali».

    E come per presagio ecco che vien giù un acquazzone che trasforma in pochi minuti strade e piazze di terra battuta in gigantesche pozzanghere. Ma non ferma il set. In Romania non accade mai. «Sì, forse è paradossale girare qui una storia del genere, ma in Italia i costi sarebbero almeno triplicati», assicura il regista, che i conti li sa fare visto che è anche produttore dei suoi film e «totalmente contrario al cinema assistito». «Qui posso permettermi una troupe di 130 persone, solo 15 gli italiani, i capisquadra. Qui ho a disposizione migliaia di comparse, cavalli e stuntman a bizzeffe. Un macchinista in Italia costa 1500 euro al giorno, qui 300. Da noi dopo nove ore scatta lo straordinario, qui non esistono limiti d'orario. Per la manovalanza si usa lo "zingarume rumeno" a 400, 500 euro la settimana». Espressioni degne di Borghezio. Del resto Martinelli non è uno da mezze misure. L'idea delle impronte digitali non gli dispiace: «Vorrei sapere chi viene in casa mia», anche se ammette: «In Romania ho incontrato tanta gente perbene, purtroppo in Italia arriva solo la feccia». Prudente e avveduto, Raz Degan evita di farsi fotografare sotto le bandiere scudocrociate, ma presta volentieri il suo bel volto e il suo collaudato talento (Centochiodi di Olmi ha segnato la svolta) al leggendario condottiero da Giussano. «Alberto forse non è mai esistito. Questo lo rende anche più stimolante, mi permette di lavorare di fantasia e poesia», sostiene. Un lavoro di costruzione del personaggio lungo e complesso. «Ho iniziato a evocarlo mesi fa, nel mio trullo di Cisternino, solo con il mio cane e il mio cavallo. Una realtà arcaica, primordiale, di fuoco, cibo, animali. Poi ho trasformato il mio corpo, otto chili di muscoli in più, per somigliare al fisico di un guerriero. Quindi dalla pelle sono passato all'anima. Cosa trasforma un ragazzo qualsiasi in un eroe popolare? Una forza che arriva solo quando hai perso tutto: genitori, fratelli, la donna amata. Quando non hai più nulla da perdere, solo allora puoi cominciare a vincere». Per nulla preoccupato di dover finire infilzato da lì a qualche ora dalla lama dell'impetuoso giovanotto da Giussano, Murray Abraham, nel film l'infido siniscalco Barozzi, pregusta divertito la sua fine: «Di questa vostra storia non so quasi niente - confessa -, ma avere a che fare con personaggi di simile statura, anche se per fiction, è comunque un onore in un mondo dove i leader politici mi sembrano tutti molto piccoli e meschini. In questo senso l'arte è un rifugio e un antidoto. E adesso, dopo tanto cinema e teatro, voglio cantare. Ho una discreta voce baritonale, sto studiando il Gianni Schicchi, la mia opera preferita. C'è un teatro italiano che voglia farmi debuttare?»
    Giuseppina Manin
    24 luglio 2008


    Corriere della Sera



  2. #2
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