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  1. #211
    Comunista democratico
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    Predefinito Riflessioni serie sulla Cina, non il solito razzismo eurocentrico

    Citazione Originariamente Scritto da Demi Romeo Visualizza Messaggio
    deliranti?

    ma vivi su Marte?

    per lo meno abbi la pazienza di leggere le mie fonti e di constatare la condizione di chi lavora senza tutele in Cina...

    nessuno mette in dubbio il boom cinese,ci mancherebbe!

    ma a che prezzo sta avvenendo?

    questo aspetto per te è superficiale evidentemente...

    a mio avviso nessun risultato è lecito se a discapito di chi si spacca letteralmente la schiena...

    la Cina cresce anche perchè sorvola sui diritti di chi lavora,senza distinzioni di età...

    i salari sono più bassi dici?

    innanzitutto il reddito reale si misura in virtù del potere d'acquisto del lavoratore,tanto per precisare...

    se in Cina i beni costano poco è proprio perchè hanno una economia in gran parte basata sul fattore lavoro.

    ti lascio immaginare che per produrre cosi tanto e a cosi basso costo,necessariamente si sorvola sulle norme di sicurezza,sulla previdenza,sull'impatto ambientale,sugli orari di lavoro (anche 22 ore in alcune realtà).

    esistono casi documentati di sfruttamento minorile,di vera e propria schiavitù,di lavoro forzato...altro che salario!

    i cinesi cosi ci fanno concorrenza...

    quelli come me hanno fornito al paese uno STATUTO DEI LAVORATORI,mentre quelli come te hanno rosicato per 60 anni,tra l'altro astendendosi nel votare il medesimo statuto!

    di sicuro non è un comunista a dover darmi lezioni,portatore di un modello economico e sociale fallimentare su scala planetaria!

    va' a pescare piuttosto...

    il tuo posto è in mezzo al mare...
    Allora confrontiamo: l'Italia l'industrializzazione e lo sviluppo ha dapprima cercato di averlo col fascismo, altro che Cina, un regime ultraautoritario che ha ispirato la nascita del nazismo e ha portato ad un conflitto mondiale. Questo l'inzio dell'industrializzazione in Italia. In Cina, uno sviluppo a doppia cifra in un paese di un miliardo e trecentomilioni di abitanti, dove il partito comunista sta conducendo un'operazione di sviluppo e di crescita economica culturale senza precedenti nella storia dell'umanità, laddove le ricette liberiste e le concezioni del sistema politico occidentale hanno invece fallito negli altri paesi che avevano lo stesso sottosciluppo della cina, già brutalmente colonizzata dalle stesse "democrazie" occidentali che opggi pretendono di dargli lezioni esportando peraltro guerre ovunque, mentre la Cina non ha mai esportato guerre.

    Per chi vuol eleggere cose serie e sensate sulla Cina, e non le boutade propagandistiche del dipartimento di Stato Usa spacciate da Demi Romeo ecco l'intervista a qualcuno che se ene intende veramente:


    Il mondo sotto il segno del consenso di Pechino

    La sconfitta degli Stati Uniti in Iraq testimonia la fine non solo dell'egomonia, ma anche del dominio statunitense nel mondo








    All'esistenza del grande casinò dell'economia mondiale Giovanni Arrighi non crede proprio. È uno studioso che ha sempre tenuto alla dimensione storica, «processuale», dei fenomeni sociali e ecopnomici. Nel suo ultimo libro, in uscita per Feltrinelli con il titolo Adam Smith a Pechino (nelle librerie dal 21 febbraio), lo studioso italiano, docente alla John Hopkins University e direttore del Fernand Braudel Centre, propone una analisi del capitalismo storico tanto affascinante, quanto da discutere. La sua tesi è che il centro dell'economia mondiale si è spostato a Pechino, mentre gli Stati Uniti continuano il loro lento, ma inesorabile declino. Una tesi «partigiana», che discute criticamente a distanza con quanti, come il geografo marxista David Harvey o Naomi Klein, considerano fondamentale dare una sistemazione teorica al ciclone neoliberista, considerato da Arrighi solo una parentesi, a differenza di quanti lo hanno considerato come un modello sociale la cui comprensione aiuterebbe a capire le tendenze nello sviluppo economico capitalistico.
    L'intervista è avvenuta a Roma, dove Arrighi è arrivato per partecipare a un seminario organizzato dal Centro riforma dello stato, sul quale ha scritto su questo giornale Angela Pascucci, il manifesto del 22 gennaio e che è stata testimone attiva dell'incontro e della discussione nata durante l'incontro.

    «Adam Smith a Pechino» inizia con l'affascinante suggestione sul ritorno del baricentro dell'economia mondiale in Cina, una società di mercato non capitalista. Un'immagine che contraddice le statistiche, nonché le analisi provenienti da quella realtà, le quali descrivono un paese che ha decisamente imboccato la strada del capitalismo. A chiusura del libro la società di mercato non capitalistica diviene è più una speranza che non la realtà. A che punto siamo?

    Non parlerei di un carattere ciclico dello sviluppo storico. Per prima cosa va ricordato che l'Europa ha conosciuto uno sviluppo capitalistico con caratteristiche uniche, l'inizio del quale coincide con l'avvio della «grande divergenza» tra Oriente e Occidente. La scommessa teorica su cui cimentarsi è capire il perché lo sviluppo capitalistico mostra evidenti limiti e perché l'Asia, e la Cina in particolare, siano diventati il centro del mercato mondiale, proprio come lo erano all'inizio della grande divergenza.
    La Cina ha una lunga tradizione di un'economia di mercato dove sono stati presenti elementi capitalistici molto innovativi. Allo stesso tempo l'esistenza di una diaspora cinese ha sempre consentito a quel paese di avere un rapporto stretto il resto dell'Asia e, dall'Ottocento in poi, anche con gli Stati Uniti. Nessuno dei capitalisti cinesi ha però mai puntato, dal quindicesimo secolo in poi, a controllare lo stato, fattore indispensabile per esercitare un'egemonia sulla società, come hanno sostenuto, seppur da prospettive non sempre coincidenti, Karl Marx e Fernand Braudel.
    Non esprimo dunque una speranza, bensì prendo in esame la possibilità che in quel paese stia prendendo forma una società di mercato non capitalista. Questo non esclude la possibilità che invece si sviluppi un sistema capitalistico. André Gunder Frank, al quale è dedicato il libro, mi ripeteva, prima che morisse, che la categoria capitalismo andasse abbandonata. Non ero d'accordo, ma la sua provocazione va accolta come un invito a guardare al capitalismo come una realtà che, come ha scritto Fernand Braudel, deve mutare continuamente per sopravvivere.
    Il capitalismo è stato infatti caratterizzato da schiavitù e da espansione territoriale. E così abbiamo avuto il colonialismo e forme aggressive di imperialismo. Poi c'è stato il welfare state nei paesi centrali e diverse forme di subordinazione politica e economica di gran parte della popolazione mondiale. Ora stiamo assistendo all'esaurimento della della spinta propulsiva costituita dal militarismo e dall'imperialismo. È dunque evidente la perdita della capacità euristica dei paradigmi fin qui usati per comprendere dove sta andando l'economia mondiale.
    Nel Manifesto del partito comunista, Marx e Engels prospettano un'omologazione capitalista del mondo. Questo li conduce a un'enfasi, molto discutibile, sul carattere progressivo del capitale. La loro profezia non è molto lontana dal «mondo piatto» di uno analista liberal come Thomas Friedman. Il mondo attuale è però tutt'altro che piatto, come testimoniano le vicende cinesi. Non so se la Cina sia capitalista o un socialismo di mercato, ma la sua irruzione sulla scena mondiale provoca un mutamento dei rapporti nel sistema interstatale e che il Sud si presenta ora in una posizione di forza rispetto al Nord del mondo. Ultimamente, ho parlato spesso sulla possibilità di una una «nuova Bandung», cioè di un'intesa tra i paesi del Sud del mondo cementata dll'aumentato peso nel mercato mondiale.

    L'uso che fai di Adam Smith è affascinante. Mentre la saggistica dominante lo descrive come il teorico del capitalismo, tu lo consideri come uno studioso a favore del mercato, ma non del capitalismo. L'autore della «Ricchezza delle nazioni» si pone però l'obiettivo di elaborare delle categorie utili a comprendere il funzionamento del capitalismo. Noi ci limitiamo a percepire una grande cambiamento, ma abbiamo difficoltà a innovare le categorie utili per capire la trasformazione in atto. Ti propongo una provocazione: l'analisi del tanto bistrattato Lenin sul capitalismo di stato gestito dal partito potrebbe aiutare a comprendere il dinamismo economico nell'Asia orientale o nel Sud-Est asiatico. Non credi?

    Possiamo sostenere che ci sono diverse forme attraverso le quali le élite nazionali esercitano il potere di governo nelle società. Una tesi già avanzata proprio da Adam Smith. In Cina, le riforme di Deng Xsiao Ping sono state varate per salvare la rivoluzione popolare dalla rivoluzione culturale e avevano come centro le campagne. Solo in seguito sono arrivati i capitali stranieri. Negli anni Novanta la situazione è sfuggita di mano al gruppo dirigente, che cerca ora di riprendere il controllo. Mi lasciano molto perplessi alcune letture sul carattere totalitario della società cinese, segnata storicamente dalle rivolte contro il potere centrale o locale. Attualmente, il numero di scioperi, manifestazioni, rivolte è impressionante. E sono ribellioni che coinvolgono centinaia di milioni di uomini e donne. Il partito comunista cinese ha dunque il problema di contenere questa tendenza alla rivolta. C'è poi un altro fatto, su cui pochi si soffermano. Nell'ultimo decennio è accaduto ad esempio che la maggior parte dei quadri intermedi si sono dati al business. Così, il vertice del partito e dello stato non hanno quella camera di compensazione utile per esercitare una governance sulla società.

    Nel tuo libro scrivi che le crisi delle borse non sono una tragedia....

    La crisi delle borse provocano impoverimento. Questo è indubbio. Ma se ragioniamo in termini sistemici è benefica, perché mette termine a quella follia degli anni Ottanta e Novanta caratterizzata dalla corsa spasmodica per conseguire superprofitti. Un ventennio durante il quale è accaduto di tutto. Crescita del credito al consumo, acquisto da parte del Sud del mondo di buoni del tesoro americano che hanno riversato una massa di capitale monetario negli Stati Uniti che ha alimentato la finanziarizzazione dell'economia. Se non c'è stato il crollo dobbiamo ringraziare il Sud del mondo, che ha alimentato la domanda mondiale, prodotto merci a basso costo per i consumatori statunitensi e, in misura minore, europei; la Cina, come il giappone negli anni Ottanta, acquista buoni del tesoro americano attraverso il quale gli Stati Uniti finanziano il loro dominio sul mondo. La crisi delle borse mette fine a questa follia. E segnala anche la fine dell'egemonia americana nell'economia mondiale. Ora la locomotiva è rappresentata dalla Cina e, in misura minore, dall'India che sostengono la domanda. Diverso è il problema di come fronteggiare le conseguenze sociali delle crisi delle borse. Qui mi sembra che le proposte in campo siano a dir poco deprimenti.

    Come scrivi a un certo punto tu, citando una nota frase di Marx, per capire il capitalismo occorra svelare l'arcano dei laboratori della produzione....

    Un'indicazione metodologica di Marx che i marxisti hanno ben presto rimosso. Doveva essere Mario Tronti con Operai e capitale a tirarla fuori nuovamente. Ho però molto dubbi che l'indicazione di scendere nei laboratori della produzione aiuti a capire nessun arcano. Per capire il funzionamento del capitalismo dobbiamo fare i conti con il proliferare di forme economiche di mercato, ma non necessariamente capitalistiche. E poi anche della compresenza di diversi modelli di capitalismo.

    Il «mondo non sarà piatto», ma perché allora non pensare che esiste anche una compresenza di modelli produttivi e che siano tra loro interdipendenti. Silicon Valley, ad esempio, non può esistere senza i «lager» dove si producono microchip con una forza-lavoro ridotta quasi in schiavitù o a una condizione carceraria. In altri termini, l'high-tech o le biotecnologie hanno un doppio legame con la militarizzazione del lavoro presente tanto nel nord che nel sud del mondo....

    Bisognerebbe scrivere un altro libro per rispondere a questa domanda. Per il momento, sono interessato a capire il ruolo giocato dal militarismo. Molte delle innovazioni produttive sono venute ad esempio dalla produzione di armi. Inoltre sono polemico con chi fa coincidere il capitalismo con la sua fase industriale.

    Silicon Valley non è industrialismo...

    Certo. Sono convinto della crisi della grande fordista. Se dobbiamo parlare di un modello produttivo emergente, questo è Wal Mart. Ripeto: se si vuol capire come il capitalismo abbia esercitato la sua egemonia su gran parte della popolazione mondiale bisogna cercare capire il linkage tra militarismo e imperialismo. Che vuol dire espansione e conquista territoriale. Ad esempio il capitalismo si è sviluppato attraverso lo schiavismo...

    Ma negli Stati uniti lo schiavismo conviveva con l'industria dell'acciaio che innova profondamente la produzione.....

    Si, ma l'elemento fondamentale per capire la diffusione del capitalismo e l'egemonia che esercita nel mondo devi capire il ruolo del militarismo, della potenza militare.

    Hai appena detto che esiste una attitudine all'insubordinazione della società cinese. Non si capisce però quale sia il rapporto tra questa conflittualità diffusa e il potere politico. Come si dipana dunque il rapporto tra movimenti e istituzioni?

    La rivoluzione ha costituito uno spartiacque nella storia cinese. Da allora l'arbiitrio dello stato può essere contestato. E quando accade le forme della critica vanno dallo sciopero alla rivolta vera e proprio. Durante una visita in Cina ho parlato con un quadro del partito che aveva costituito una joint-venture con un'impresa francese per produrre champagne in Cina. Ad un certo punto, la sezione locale del partito ha proposto l'espropriazione della terra. I contadini hanno sequestrato i dirigenti aziendali, i funzionari statali e quelli del partito, ponendo una condizione: «li rilasciamo solo se firmate un accordo che la terra continueremo a coltivarla noi». Il partito ha subito firmato l'accordo.
    Mi piace ricordare questo episodio perché indica chiaramente che il partito può pure decidere questa o quella cosa, ma se gli uomini e le donne oggetto di quella decisione non sono d'accordo non vanno tanto per il sottile, perché si sentono legittimati da alcuni principi alla base della rivoluzione.

    Da quello che dici non sei proprio in sintonia con quanti sostengono che il neoliberismo è il modello egemone di capitalismo...

    Il neoliberismo è stata una parentesi di follia, dove gli Stati Uniti e il suo fedele alleato, l'Inghilterra, hanno cercato o di imporre, con le buone o con le cattive, il loro modello. Ma entrambi hanno fallito, come testimonia la caduta delle borse e la sconfitta statunitense in Iraq. Siamo in una fase turbolenta, i cui esiti sono ancora difficili da prevedere. Per il momento, grande è il disordine sotto il cielo, ma non so se la situazione è eccellente.

    il manifesto
    24 Gennaio 2008


    http://www.rifondazionepescara.org/m...ticle&sid=2684
    Myrddin

  2. #212
    European Socialist
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    più tardi rispondo con calma.

    comunque nessuno ha parlato di NEOLIBERISMO e di sicuro non è la prospettiva che auspico.

    evitiamo fraintendimenti di questo tipo,altrimenti la discussione la si può tranquillamente evitare se partiamo da questi presupposti.

    basterebbe dar un'occhiata al mio avatar...

  3. #213
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    Predefinito Partito Comunista Cinese: Un approccio qualitativo alla nozione di sviluppo

    Partito Comunista Cinese: Un approccio qualitativo alla nozione di sviluppo

    Si è concluso ad ottobre 2007 il 17° congresso nazionale del Partito comunista cinese (PCC), alla presenza 2.217 delegati in rappresentanza di 73 milioni di iscritti, organizzati in 3,5 milioni di organizzazioni di base disseminate in tutto il Paese.

    Il congresso ha approvato la relazione del segretario Hu Jintao (a nome del Comitato centrale uscente), una risoluzione finale e una di modifica di alcuni articoli dello Statuto del partito. Ed ha eletto i nuovi organismi dirigenti.

    Il nuovo CC (rinnovato per la metà dei suoi membri) ha confermato Hu Jintao alla guida del partito per i prossimi 5 anni ed ha eletto gli organismi più ristretti (Ufficio Politico, Segreteria, Comitato permanente dell’Ufficio politico). Da questi risulterebbe - sia pure in un contesto di sintesi e di enfatizzazione della direzione collegiale, volte ad evitare ogni personalizzazione o frattura interna – un sostanziale rafforzamento (non scontato) delle posizioni di Hu Jintao. Ciò nell’ambito di una dialettica che, schematizzando, si è sviluppata tra chi pone l’accento sulla necessità di proseguire la linea dello sviluppo accelerato anche pagando alti costi sociali; e chi invece, come Hu Jintao, sottolinea gli elementi qualitativi della nozione di “sviluppo” e pone l’accento su esigenze di riequilibrio, equità sociale, compatibilità ambientali, sviluppo della democrazia socialista, innovazione della teoria marxista.
    Bilancio politico e sintesi storica e teorica

    Il rapporto introduttivo è suddiviso in 12 capitoli, che rappresentano altrettanti capisaldi della linea e delle priorità del PCC.

    ...


    Un approccio qualitativo alla nozione di sviluppo


    3. Nel terzo capitolo si articola l’idea cardine della nuova direzione cinese per una “concezione scientifica dello sviluppo”, ovvero quella che nella nostra cultura abbiamo assunto come sviluppo socialmente ed ecologicamente compatibile, e che – dice il rapporto - deve essere parte integrante di una concezione socialista dello sviluppo. Una concezione cioè non meramente quantitativa, ma qualitativa dei parametri dello sviluppo e della crescita economica, che la nuova direzione del PCC assume come “principio guida”, assieme a quello di una “società socialista fondata sull’armonia sociale”, fino a farne oggetto di apposite integrazioni nello Statuto del partito.

    Si rileva che “la crescita economica è stata pagata troppo cara in termini di risorse, squilibri e compatibilità ambientali…Il trend del divario crescente nella distribuzione del reddito non è stato ancora adeguatamente rovesciato, abbiamo ancora un numero rilevante di persone povere o a basso reddito sia nelle città che nelle campagne, ed è diventato sempre più difficile conciliare gli interesse di tutte le parti sociali”. Pertanto, “la concezione di uno sviluppo scientifico, nella sua essenza, pone al centro gli interessi della grande maggioranza del popolo, per uno sviluppo equilibrato e sostenibile” e si propone “in modo energico la costruzione di una società socialista armoniosa”, posto che “l’armonia, l’equità sociale, la giustizia devono essere peculiarità essenziali del socialismo”.

    4. Nel quinto capitolo si propone l’obbiettivo di costruire, entro il 2020, una “società di media prosperità…quadruplicando il PIL annuo pro-capite rispetto al dato del 2.000” (da 856 dollari a 3.500). La qual cosa (ma la relazione non lo dice) potrebbe portare il PIL complessivo della Cina, calcolato a parità di potere d’acquisto, ad un livello superiore a quello degli Stati Uniti, al primo posto nella classifica mondiale. Dunque, una “media prosperità” corroborata da una “espansione della democrazia socialista”, da una crescente “equità e giustizia sociale”, da una “prevalenza dei valori di una cultura e di un’etica socialista nella popolazione”, con un diffuso “sistema di sicurezza sociale”, oggi ancora largamente deficitario; “l’eliminazione della povertà” ed un forte “incremento dell’incidenza relativa delle fonti rinnovabili e non inquinanti di energia”.

    5. Nel sesto capitolo, si entra più nel dettaglio dei caratteri di uno “sviluppo sano e rapido” dell’economia nazionale”, tra cui segnaliamo (per titoli) :

    - un’”autonoma capacità”, sempre meno dipendente dall’estero, “di sviluppo dell’innovazione scientifica, tecnologica, manageriale”;

    - l’estensione e la crescita di “grandi imprese multinazionali, pubbliche o a prevalente controllo pubblico, sempre più competitive sul mercato mondiale”. (Si consideri che già nel 2006 l’84% del PIL cinese è stato prodotto dalle 500 maggiori imprese cinesi. E che tra queste, ben 349 – che hanno espresso l’85% della ricchezza prodotte tra tutte le 500 – sono imprese statali o controllate dallo Stato. Mentre solo 89 sono quelle private, che hanno espresso una ricchezza pari all’8,4% delle 500);

    - il “riequilibrio nello sviluppo città-campagna”, con la “modernizzazione di una nuova agricoltura su basi socialiste”, e il “tra regioni a diverso grado di sviluppo”;

    - uno “sviluppo ecologicamente sostenibile”;

    - una “ristrutturazione profonda ed equa del sistema fiscale e di regolazione macro-economica”;

    - il sostegno a diverse forme di proprietà e di imprenditorialità, nel quadro di una “prevalenza strategica del settore pubblico”.

    http://www.forumdesalternatives.org/...rticle_id=4516
    Myrddin

  4. #214
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    Leggete Tiziano Terzani.
    Poi se ne riparla.

  5. #215
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    Citazione Originariamente Scritto da danny78 Visualizza Messaggio
    Leggete Tiziano Terzani.
    Poi se ne riparla.
    Grande economista Terzani. Con la poesia non mangia nessuno, escluso chi la scrive. Molto meglio leggere questo:
    Interessante riflessione Cina/Giornalisti di Francesco Scisci

    --------------------------------------------------------------------------------

    Buon Ferragosto a tutti


    Riporto un interessante articolo di Francesco Scisci, che offre un ottimo spunto di riflessione sul rapporto tra la Cina e i media.



    Prendiamo la Cina sul serio

    Il problema non è parlare bene o male del Paese, ma forse ricominciare dal lavoro del cronista. Qualche idea sul giornalismo italiano nella Pechino olimpionica a partire da un articolo di Cavalera
    di francesco sisci

    Pechino --

    Il 9 agosto Fabio Cavalera diceva sul Corriere della Sera dei giornalisti italiani arrivati a Pechino per le olimpiadi: “Alcuni hanno scritto che la Cina è deserta. Non ci sono turisti. Non è vero. Hanno scritto che Tiananmen era vuota. Non è vero, era piena di gente per vedere le riprese. E poi, come al solito... l'odore d' aglio... l'antipatia... e cose del genere.” Cavalera tocca un tasto estremamente delicato ma credo molto importante, fondamentale del nostro lavoro qui. Ed è qualcosa che non capisco del giornalismo italiano, e certamente è colpa mia.
    Quando i cronisti arrivano a New York non fanno a gara a parlare male dell’America, a mostrare spocchia per odori, colori, sapori, che pure lì ci sono.
    Non solo. C’è un’altra cosa che capisco di meno. Tutti sanno l’inglese, i giornali americani sono fruibili in tempo reale attraverso Internet, chi ha amici in America, politici, giornalisti, analisti, li può chiamare e rispodono senza problemi. Però dell’America, giustamente, parlano e scrivono i giornalisti che stanno in America e hanno molti più stimoli e motivi per parlarne.
    In Cina quasi nessuno sa il cinese, pochissimi leggono direttamente giornali cinesi, analisti, politici, giornalisti non parlano al telefono e spesso non parlano proprio ai cronisti. Però di Cina parlano tutti quelli che sono in Italia, come se fosse più facile, più scontato, più ovvio.
    Per carità, non credo che scrivere di Cina debba essere una specie di privilegio riservato a una sorta di setta esoterica forte del fatto di sapere la “misteriosa” lingua cinese e di stare in Cina. Se bastasse ciò ogni tassista, usciere d’albergo, cameriere di ristorante, nato e cresciuto a Pechino e parente del cugino del cognato del giardiniere della nonna del presidente Hu Jintao avrebbe più diritto a parlare di Cina di qualunque straniero o di qualunque cinese non di Pechino.
    Detto ciò le distanze tra la cronaca da Pechino e la cronaca da New York, il rispetto accordato alle cronache da New York e non a quelle da Pechino, dovrebbe spingerci tutti a un grammo di prudenza in più nel parlare di Cina.
    Non è questione di diritti umani, di libertà, di democrazia, ma di complessità. La Cina è molto diversa e molto strutturata. Inoltre, le cose cambiano a velocità supersonica su una scala immensa, grande quanto la sua popolazione. Infine, è un protagonista politico, economico e culturale globale, e il suo peso in queste aree è destinato a crescere non a diminuire. Tutte ragioni che dovrebbero spingerci a prendere la Cina molto sul serio (perdonatemi) da qui, non dall’Italia. Per il semplice motivo che qui è Cina e in Italia c’è l’Italia. Non il contrario.
    Certo, l’immaginario italiano, quello che ha visto il sorgere e il cadere di imperi e regni è scettico e cinico rispetto a nuove grandi potenze.
    Alberto Sordi in “Un americano a Roma” di Steno era la macchietta dell’Italia affascinata dall’America nel dopo guerra. Era una iniezione di fiducia poderosa a un’Italia precipitata dalle vette della retorica dell’Italia imperiale di Mussolini giù nella realtà di una Italietta che non sapeva a che santo votarsi per salvare la pelle.
    In ciò quando Sordi, Nando Moriconi, storceva al bocca al sandwich americano e invece addentava vorace la italica pasta al grido “spaghetto ti anniento, ti distruggo”, ci centivamo, ci sentiamo ancora, tutti un po’ meglio.
    Oggi i fratelli Vanzina, eredi di Steno, potrebbero rifare il fim e chiamarlo “Un cinese a Roma” e alla famosa scena il sandwich potrebbe essere sostituito con una ciotola di riso da mangiare con i bastoncini. Tutti rideremmo e ci sentiremmo più salvi.
    Ma forse il giornalismo dovrebbe fare altro, specialmente adesso. Dovremmo cercare di capire davvero come stanno le cose. Se si vuole questo è un dovere morale di questo mestiere di cronisti. In termini strutturali dovrebbe essere un problema essenziale dello stato e delle imprese: se l’opinione pubblica non capisce davvero cosa succede in Cina e intorno alla Cina, l’Italia va verso il sottosviluppo, diventiamo tutti più poveri e l’Italia prima o poi finisce.
    Sono frasi esagerate? Certo, possiamo sorridere come a pensare al film di Steno. Oppure le olimpiadi di Pechino dovrebbero allarmarci. In 30 anni un Paese di oltre un miliardo di persone è passato dalla linea della sopravvivenza a organizzare uno spettacolo enorme come la cerimonia di apertura dei giochi. L’Italia in questi 30 anni è rimasta sostanzialmente uguale. Forse dovremmo cercare di capire davvero cosa sta succedendo con questa accelerazione, e anche cosa è successo in Italia, come la si può fare ripartire.
    Cavalera, cronista di razza, riparte dall’abc di questo nostro mestiere vede e scrive: qualcuno scrive che non c’era gente a piazza Tiananmen, non è vero; dicono che non ci sono turisti, di nuovo non è vero. Se forse cominciassimo tutti a raccontare le cose che vediamo per come le vediamo e ci astenessimo dai pregiudizi, dall’antipatia e anche (vogliamo dirlo?) dal razzismo e alzassimo le mani davanti a quello che non capiamo, che non rientra nei nostri schemi, forse saremmo un passo avanti.
    Quindi una preghiera: basta con la supponenza spiritosa, basta con il mandarla in vacca, basta con il complottismo più o meno alla moda, basta con l’esotismo coloniale, basta con le discettazioni sul mondo fatte dal tavolino di Roma. Queste non sono formule esorcistiche che sconfiggono il diavolo-Cina. Il diavolo-Cina si nutre di tutta questa magia d’accatto. Quello che lo sconfigge davvero è prenderlo sul serio, molto sul serio.

    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tm...asp?ID_blog=98



    Per conoscere qualcosa della Cina, non come la vediamo o come vorremmo fosse, ma com'è
    http://italian.cri.cn/index.htm
    Myrddin

  6. #216
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    Citazione Originariamente Scritto da lucaBI Visualizza Messaggio
    circa il 95% dei comunisti di questo forum
    non dire falsità, ti sfido a trovare un intervento in cui un utente del forum di rifondazione scrive che la cina è un paradiso dove non esistono cotraddizioni...

  7. #217
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    Citazione Originariamente Scritto da rediga Visualizza Messaggio
    ok chi avra'piu tele da tessere la tessera'.....cmq non mi appare un segretario che abbia grandi visioni politiche,ma mi sembra solo un segretario dell'identita'comunista......al nord i lavoratori,se ne sono fottuti dell'identita'ideologica e hanno voltato le spalle.....non mi convince l'arroccamento identitario minoritario..
    "ti sembra" è la parola giusta, perchè se leggi il documento approvato dalla maggioranza c'è tutto tranne fuffa ideologica/dogmatica.
    e poi l'analisi sul comportamento del voto operaio è del tutto sballata: questa volta non c'era l' identità comunista in campo, c'era un progetto politico troppo incentrato sui diritti civili e che poco aveva fatto sulle questioni economiche e del lavoro.

    Continuare quel progetto, assoggettandolo ai vari Veltroni, Rutelli, Binetti e Calearo era il piano di Vendola. Noi abbiamo eletto Ferrero, con la promessa di un PRC che prova a tornare utile sul piano del sociale.

    Magari falliremo e ci estingueremo davvero, ma se l'alternativa è quella di fare lo specchietto per le allodole che capta voti a sinistra del PD e per il PD, sai che ti dico? Meglio un giorno da COMUNISTI che cento da democristiani.

  8. #218
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    Citazione Originariamente Scritto da DarkClassWar Visualizza Messaggio
    Continuare quel progetto, assoggettandolo ai vari Veltroni, Rutelli, Binetti e Calearo era il piano di Vendola. Noi abbiamo eletto Ferrero, con la promessa di un PRC che prova a tornare utile sul piano del sociale.
    E per questo motivo ho votato il primo documento!

  9. #219
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    Citazione Originariamente Scritto da Myrddin-Merlino Visualizza Messaggio
    Grande economista Terzani. Con la poesia non mangia nessuno, escluso chi la scrive. Molto meglio leggere questo:
    Interessante riflessione Cina/Giornalisti di Francesco Scisci

    --------------------------------------------------------------------------------

    Buon Ferragosto a tutti


    Riporto un interessante articolo di Francesco Scisci, che offre un ottimo spunto di riflessione sul rapporto tra la Cina e i media.



    Prendiamo la Cina sul serio

    Il problema non è parlare bene o male del Paese, ma forse ricominciare dal lavoro del cronista. Qualche idea sul giornalismo italiano nella Pechino olimpionica a partire da un articolo di Cavalera
    di francesco sisci

    Pechino --

    Il 9 agosto Fabio Cavalera diceva sul Corriere della Sera dei giornalisti italiani arrivati a Pechino per le olimpiadi: “Alcuni hanno scritto che la Cina è deserta. Non ci sono turisti. Non è vero. Hanno scritto che Tiananmen era vuota. Non è vero, era piena di gente per vedere le riprese. E poi, come al solito... l'odore d' aglio... l'antipatia... e cose del genere.” Cavalera tocca un tasto estremamente delicato ma credo molto importante, fondamentale del nostro lavoro qui. Ed è qualcosa che non capisco del giornalismo italiano, e certamente è colpa mia.
    Quando i cronisti arrivano a New York non fanno a gara a parlare male dell’America, a mostrare spocchia per odori, colori, sapori, che pure lì ci sono.
    Non solo. C’è un’altra cosa che capisco di meno. Tutti sanno l’inglese, i giornali americani sono fruibili in tempo reale attraverso Internet, chi ha amici in America, politici, giornalisti, analisti, li può chiamare e rispodono senza problemi. Però dell’America, giustamente, parlano e scrivono i giornalisti che stanno in America e hanno molti più stimoli e motivi per parlarne.
    In Cina quasi nessuno sa il cinese, pochissimi leggono direttamente giornali cinesi, analisti, politici, giornalisti non parlano al telefono e spesso non parlano proprio ai cronisti. Però di Cina parlano tutti quelli che sono in Italia, come se fosse più facile, più scontato, più ovvio.
    Per carità, non credo che scrivere di Cina debba essere una specie di privilegio riservato a una sorta di setta esoterica forte del fatto di sapere la “misteriosa” lingua cinese e di stare in Cina. Se bastasse ciò ogni tassista, usciere d’albergo, cameriere di ristorante, nato e cresciuto a Pechino e parente del cugino del cognato del giardiniere della nonna del presidente Hu Jintao avrebbe più diritto a parlare di Cina di qualunque straniero o di qualunque cinese non di Pechino.
    Detto ciò le distanze tra la cronaca da Pechino e la cronaca da New York, il rispetto accordato alle cronache da New York e non a quelle da Pechino, dovrebbe spingerci tutti a un grammo di prudenza in più nel parlare di Cina.
    Non è questione di diritti umani, di libertà, di democrazia, ma di complessità. La Cina è molto diversa e molto strutturata. Inoltre, le cose cambiano a velocità supersonica su una scala immensa, grande quanto la sua popolazione. Infine, è un protagonista politico, economico e culturale globale, e il suo peso in queste aree è destinato a crescere non a diminuire. Tutte ragioni che dovrebbero spingerci a prendere la Cina molto sul serio (perdonatemi) da qui, non dall’Italia. Per il semplice motivo che qui è Cina e in Italia c’è l’Italia. Non il contrario.
    Certo, l’immaginario italiano, quello che ha visto il sorgere e il cadere di imperi e regni è scettico e cinico rispetto a nuove grandi potenze.
    Alberto Sordi in “Un americano a Roma” di Steno era la macchietta dell’Italia affascinata dall’America nel dopo guerra. Era una iniezione di fiducia poderosa a un’Italia precipitata dalle vette della retorica dell’Italia imperiale di Mussolini giù nella realtà di una Italietta che non sapeva a che santo votarsi per salvare la pelle.
    In ciò quando Sordi, Nando Moriconi, storceva al bocca al sandwich americano e invece addentava vorace la italica pasta al grido “spaghetto ti anniento, ti distruggo”, ci centivamo, ci sentiamo ancora, tutti un po’ meglio.
    Oggi i fratelli Vanzina, eredi di Steno, potrebbero rifare il fim e chiamarlo “Un cinese a Roma” e alla famosa scena il sandwich potrebbe essere sostituito con una ciotola di riso da mangiare con i bastoncini. Tutti rideremmo e ci sentiremmo più salvi.
    Ma forse il giornalismo dovrebbe fare altro, specialmente adesso. Dovremmo cercare di capire davvero come stanno le cose. Se si vuole questo è un dovere morale di questo mestiere di cronisti. In termini strutturali dovrebbe essere un problema essenziale dello stato e delle imprese: se l’opinione pubblica non capisce davvero cosa succede in Cina e intorno alla Cina, l’Italia va verso il sottosviluppo, diventiamo tutti più poveri e l’Italia prima o poi finisce.
    Sono frasi esagerate? Certo, possiamo sorridere come a pensare al film di Steno. Oppure le olimpiadi di Pechino dovrebbero allarmarci. In 30 anni un Paese di oltre un miliardo di persone è passato dalla linea della sopravvivenza a organizzare uno spettacolo enorme come la cerimonia di apertura dei giochi. L’Italia in questi 30 anni è rimasta sostanzialmente uguale. Forse dovremmo cercare di capire davvero cosa sta succedendo con questa accelerazione, e anche cosa è successo in Italia, come la si può fare ripartire.
    Cavalera, cronista di razza, riparte dall’abc di questo nostro mestiere vede e scrive: qualcuno scrive che non c’era gente a piazza Tiananmen, non è vero; dicono che non ci sono turisti, di nuovo non è vero. Se forse cominciassimo tutti a raccontare le cose che vediamo per come le vediamo e ci astenessimo dai pregiudizi, dall’antipatia e anche (vogliamo dirlo?) dal razzismo e alzassimo le mani davanti a quello che non capiamo, che non rientra nei nostri schemi, forse saremmo un passo avanti.
    Quindi una preghiera: basta con la supponenza spiritosa, basta con il mandarla in vacca, basta con il complottismo più o meno alla moda, basta con l’esotismo coloniale, basta con le discettazioni sul mondo fatte dal tavolino di Roma. Queste non sono formule esorcistiche che sconfiggono il diavolo-Cina. Il diavolo-Cina si nutre di tutta questa magia d’accatto. Quello che lo sconfigge davvero è prenderlo sul serio, molto sul serio.

    http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tm...asp?ID_blog=98



    Per conoscere qualcosa della Cina, non come la vediamo o come vorremmo fosse, ma com'è
    http://italian.cri.cn/index.htm
    come al solito, applausi per sisci
    se ti capita una delle rare occasioni in cui è in italia, vale la pena di andarlo a sentire

 

 
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