Attualmente il sistema previdenziale italiano poggia su due pilastri: la previdenza pubblica obbligatoria e la previdenza integrativa facoltativa collettiva e privata.
Il sistema pubblico presenta un pesantissimo disequilibrio dei contributi versati rispetto alle prestazioni erogate. Cioè è una situazione che deve essere continuamente finanziata dalla tassazione generale e i contributi versati non sono per nulla accantonati. Cioè chi oggi versa dovrà essere mantenuto dalla buona volontà delle generazioni future. Non vivrà di suo, perché il suo è stato utilizzato per la generazione precedente.
È nota la previsione di sempre maggior peso sulla fiscalità generale del sistema pensionistico che il deficit generato dalle regole previdenziali attuali comporterà nei prossimi decenni anche causa, ma non solo, dell’allungamento dell’aspettativa di vita. Per controbilanciare il previsto deficit e non compromettere la tenuta dello Stato, occorre che la popolazione italiana che beneficia dell’allungamento della vita attesa e del significativo miglioramento delle condizioni della stessa, accetti un corrispondente aumento del tasso di attività o di risparmio previdenziale.
Dopo decenni di discussioni e miniriforme, si parla ancora di pensioni in modo approssimativo e non risolvente perché non si vuole prendere atto che essa non è altro che un reddito differito mutualistico. Cosa vuol dire? Reddito differito perché ogni cittadino deve accantonare una parte del proprio reddito, per poterlo poi consumare quando non sarà più in grado di produrlo. Mutualistico, perché non sapendo esattamente quando cesserà, la cassa pagherà più a lungo chi avrà la fortuna di vivere più della media, attingendo a quanto non hanno consumato altri meno fortunati. Perché lo stato deve occuparsi di ciò? Semplicemente per evitare che i furbi si facciano mantenere da altri (paga Pantalone con un mare di imposte) per decenni, dopo aver speso tutti i propri guadagni.
Basterebbe che si prendesse atto di ciò una volta per tutte e sparirebbe il problema di stabilire una età pensionabile e la copertura dell’inflazione. Ognuno potrebbe andare in pensione quando vuole, una volta che ha versato nella cassa comune quanto gli serve per poter vivere il resto della sua vita. Lo stato fissa un minimo di reddito mensile da raggiungere, i tecnici definiscono ogni anno le attese di vita media e il cittadino decide se continuare a versare ed avere una pensione più elevata o iniziare ad incassare la pensione minima. Lavorare o meno sarà poi una sua decisione non più legata ad obblighi di versamenti previdenziali. Un sistema di questo tipo ha inoltre il vantaggio di semplificare le norme, di rendere libere ed indipendenti le scelte di ognuno, di far collaborare anche i pensionati allo sviluppo dell’economia ed alla produttività del sistema, in quanto i loro redditi pensionistici, essendo investiti in attività aziendali (con ovvie garanzie dello stato per controllo e limiti di rischio) possono migliorare se l’economia diventa più produttiva. Tutto sembrerebbe così semplice, trasparente e logico. Ma perché non viene fatto?
A mio parere perché c’è ancora una cultura dirigista e le varie “caste”, sindacali e statali comprese, non vogliono perdere il potere, con tutto quello che ne consegue, di gestire e regolare una larga fetta del reddito degli italiani. Perché ci sono tanti “potenti” che ricevono pensioni pagate con soldi di altri. Perché ci sono trucchi sulle pensioni di reversibilità, sulle quali ci campa chi non dovrebbe. E così via. Il concetto di sussidiarietà, di sempre minor intermediazione dello stato e delle varie caste, di minore tassazione, di maggiori libertà individuali, ha ancora molta strada da percorrere. La vera libertà non è una merce abbondante.
Basterebbe far cessare l’obbligo contributivo a fini pensionistici alle casse di un unico ente, favorire l’allargamento dei fondi pensionistici complementari, mantenere i fondi pensione aperti quale forma di previdenza obbligatoria minima attraverso una gestione patrimoniale regolata e sorvegliata, fondi validi per tutti i settori, anche per i lavoratori autonomi o casalinghe, ma anche a nullafacenti, obbligati a crearsi una pensione minima.
Ecco che così facendo si avrebbero risparmi sui costi di gestione delle prestazioni previdenziali e riduzione delle strutture statali. E il cittadino avrebbe libertà di scelta di un piano previdenziale personalizzato, in funzione del rapporto contributi versati/trattamento previdenziale desiderato, con possibilità di controllo dei costi e dei rendimenti della forma scelta, potendo anche operare scelte alternative fra fondi pensione in concorrenza.
È possibile tutto ciò? Nel mondo ci sono da tempo casse pensione private e paesi che si comportano a questo modo. E per rispondere a tutte le obiezioni del caso, sono reperibili su internet vari libri e saggi, come ad esempio sul sito dell’Istituto Bruno leoni (www.brunoleoni.it). Il centro di Studi Liberali (www.studiliberali.it) pubblica addirittura una completa proposta di Legge Delega.
Se c’è una classe dirigente liberale, produttiva e sociale, batta un colpo.
Da Libero Mercato, 29 luglio 2008
http://www.brunoleoni.it/nextpage.aspx?codice=6955