
Originariamente Scritto da
benfy
parole sante quelle di martino, comunque sottolinerei questo passaggio che reputo importante
Che gli statalisti di tutto il mondo siano furibondi per via dei limiti che la globalizzazione
impone all’abuso del potere statale è comprensibile, così come non stupisce che
gli orfani del comunismo sovietico siano ferocemente (ed in molti casi violentemente)
avversi al fenomeno. Ma non sono soltanto i no-global e gli orfani di Stalin gli avversari
della libertà economica internazionale, ci sono come sempre anche i difensori degli
interessi corporativi, quanti sono costretti dal libero commercio internazionale a rinunziare
alle rendite cui sono abituati. Come sostenuto con la consueta efficacia da Adam
Smith, i fautori delle restrizioni al commercio internazionale sono stati “non i consumatori,
il cui interesse è stato totalmente trascurato, ma i produttori .. e tra costoro i
nostri mercanti e manifattori” (Ricchezza delle nazioni, edizione italiana, Utet, Torino
1958, pag. 602)
L
e tesi dei protezionisti sono diventate in apparenza più raffinate, restando tuttavia
grossolanamente false nella sostanza. E’ di moda oggi sostenere che il protezionismo
è reso necessario per contrastare la concorrenza “sleale” di Paesi che, come la Cina e
l’India (immaginosamente accomunate col termine “Cindia”), praticano il “dumping
sociale” e quello ambientale perché i loro standard di protezione sono più bassi dei
nostri. Si tratta di una crudele sciocchezza: i salari e le condizioni di lavoro nei Paesi poveri
sono meno elevati dei nostri per la semplice ragione che quei Paesi sono più poveri
di noi e lo stesso vale per gli standard di protezione ambientale. Anche in Italia i salari
e la protezione ambientale erano bassi quando eravamo poveri, hanno raggiunto il
livello attuale grazie allo sviluppo economico, al fatto che siamo diventati meno poveri.
Lo stesso accadrà in Cina ed in India quando, grazie alla crescita economica, quei Paesi
potranno permettersi salari più alti e standard di protezione sociale ed ambientale più
alti. Sostenere che dobbiamo gravare i loro prodotti di oneri tariffari equivale a dire che
i Paesi poveri devono essere puniti per la loro povertà.
Né queste sciocche misure protezionistiche vanno a vantaggio dei Paesi che le adottano,
perché le alternative offerte ai consumatori si restringono – hanno una minore
scelta e devono subire prezzi più alti – e perché, sottraendo i produttori nazionali
alla disciplina della concorrenza internazionale, li si condanna a livelli di efficienza più
bassi di quanto sarebbero altrimenti. Né va sottaciuto che, inevitabilmente, i provvedimenti
restrittivi finiscono col produrne altri per ritorsione col risultato che il livello
complessivo del commercio internazionale si riduce con danno per tutti i Paesi.
Le interferenze statali nel funzionamento dei mercati sono responsabili anche della
recente impennata dei prezzi dei prodotti alimentari. L’Unione Europea, il Giappone e,
in misura minore, gli Stati Uniti da tempo adottano una serie di incentivi e misure dirette
a scoraggiare la produzione: le politiche di “set aside” che inducono gli agricoltori
americani a non coltivare per intero i fondi di loro proprietà, le quote massime imposte
alla produzione di certi cibi, come le famigerate “quote latte” della politica agricola europea
e la miriade di altre misure introdotte col nobile proposito di difendere il reddito
degli agricoltori hanno di fatto reso più rigida l’offerta col risultato che l’aumento della
domanda si è scaricato prevalentemente sui prezzi anziché incentivare la produzione.
Anche in questo caso si tratta di miopi provvedimenti di chiusura al commercio internazionale
che, per tutelare i produttori nazionali, danneggiano i consumatori e condannano
i Paesi poveri al sottosviluppo.
http://brunoleonimedia.servingfreedo...58_Martino.pdf