Pagina 1 di 7 12 ... UltimaUltima
Risultati da 1 a 10 di 62

Discussione: Guerra nel Caucaso

  1. #1
    email non funzionante
    Data Registrazione
    16 Jun 2009
    Messaggi
    943
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Guerra nel Caucaso

    da il manifesto del 9 agosto 2008

    IL CREMLINO AL BIVIO
    Astrit Dakli

    Guerra nel Caucaso. Centinaia di morti; migliaia di civili in fuga o chiusi nei rifugi; carri armati, missili e bombardieri in azione, con tutte le parti in causa che dicono di agire per «ristabilire la pace» accusando gli avversari di volere la guerra. Oggi il campo di battaglia è la minuscola Ossezia del sud, le cui malcerte «frontiere» abbiamo visto varcare da colonne di tank prima georgiani poi russi, mentre jet delle due parti volavano a bassa quota sganciando bombe. Domani, forse già stanotte, il teatro di guerra può diventare l'intera Georgia.
    Chi ha ragione? Il puzzle etnico, storico, politico e militare in quelle poche miglia quadrate alle falde del Caucaso non è districabile. Ragioni e torti sono aggrovigliati e la tentazione di tagliare il nodo con la spada è forte, soprattutto da parte del potere centrale georgiano, che ci ha già provato quindici anni fa con esiti tragici (ma allora il mondo era distratto) e sembra volerci riprovare ora. Anche se i luoghi sono remoti, noi non illudiamoci: siamo nella Nato, che su pressione americana da anni sta cercando di allargarsi laggiù per controllare oleodotti e basi militari; e il leader georgiano, dopo aver lanciato l'azione militare contro i russi, per fronteggiarne la risposta ha chiesto aiuto a Usa e Nato. Per ora l'Occidente traccheggia, ma il suo coinvolgimento è più che possibile, se la nuova guerra non si ferma subito.
    Dalla parte dei leader nazionalisti di Tbilisi - ieri il poeta Zviad Gamsakhurdia, oggi l'avvocato Mikheil Saakashvili - ci si fa forti di un unico principio: l'inviolabilità delle frontiere. Peccato che proprio coloro cui i georgiani si appellano, Nato, Usa, Unione europea, abbiano ripetutamente violato quel principio per i loro interessi spiccioli - l'ultima volta ai danni della Serbia - e dunque si trovino oggi in posizione difficile, essendo chiaro che la maggioranza in Ossezia (e nell'altra regione secessionista georgiana, l'Abkhazia) non vuol più vivere sotto Tbilisi e auspica una riunificazione etnica e storica con la Russia.
    E quest'ultima? Il nuovo presidente Dmitrij Medvedev, provocato dai georgiani (che non a caso han lanciato l'attacco mentre lui era in vacanza e Putin in Cina) si trova di fronte a un bivio storico: mostrare moderazione e lasciare che gli amici sud-ossetini vengano fatti a pezzi da truppe vestite e addestrate dagli Usa, oppure andare a fondo nella reazione e schiacciare i georgiani. Nel primo caso apparirà debole e incapace di difendere i suoi cittadini dall'assalto occidentale; nel secondo, impantanerà il suo paese in una guerra orrenda e infinita in cui la Russia ha tutto da perdere. Un bivio grave: non per niente per quasi 24 ore dopo l'inizio dell'attacco il Cremlino è rimasto muto. Le notizie delle ultime ore sembrano indicare una scelta a metà: risposta durissima ma limitata nello spazio e nel tempo, per «dare una lezione» (e magari lasciare in Ossezia un vero esercito, invece dei pochi «peacekeeper» attuali) senza farsi risucchiare in un conflitto generale. È dubbio che questo calcolo funzioni.

  2. #2
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA
    OLEODOTTO BTC : la Georgia e gli interessi americani
    di Marco Cedolin Tratto da Grandi Opere – Arianna Editrice - 2008


    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image001.gif[/IMG] [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image002.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image003.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image004.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image005.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image006.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image007.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image008.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image009.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image010.gif[/IMG]


    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image011.gif[/IMG]



    L’oleodotto BTC, accreditato come il più lungo al mondo con i suoi 1.770 km congiunge la città di Baku, sulle sponde occidentali del Mar Caspio, con il porto turco di Ceyhan situato sulle sponde orientali del Mediterraneo, attraversando le ex repubbliche sovietiche dell’Azerbaijan e della Georgia per poi penetrare in Turchia. I lavori di progettazione e costruzione sono durati 12 anni con un costo finale di 4 miliardi di dollari (superiore del 32% rispetto alle previsioni) e quando l’impianto sarà a pieno regime si calcola che dovrebbe essere in grado di trasportare 1.000.000 di barili di greggio al giorno. L’opera è stata inaugurata alla presenza dei più alti dignitari di Turchia, Georgia e Azerbaijan e di alti esponenti del mondo petrolifero e bancario il 13 luglio 2006, praticamente in concomitanza con l’inizio dei bombardamenti israeliani in Libano.
    A gestire la costruzione del BTC è stato un consorzio petrolifero, con sede alle Isole Cayman, guidato dalla compagnia britannica British Petroleum (BP) con il 30% e di cui fanno parte l’azera Socar con il 25%, la statunitense Unocal con il 9%, la norvegese Statoil con l’8%, la turca Tpao con il 6%, l’italiana ENI e la francese Total-Fina-Elf entrambe con il 5%, oltre ad altre compagnie minori. Il consorzio BTC ha stanziato sotto forma di capitale netto circa il 30% della cifra necessaria alla costruzione dell’opera, mentre il 70% è stato ottenuto tramite finanziamenti bancari in larga parte riconducibili alla Banca Mondiale e alla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo.
    Nel progetto dell’oleodotto BTC le motivazioni politiche sono sempre state preponderanti rispetto a quelle economiche. Gli Stati Uniti hanno pesantemente sponsorizzato la costruzione dell’opera senza farsi scrupolo di esercitare forti pressioni tanto nei confronti degli stati interessati dal progetto, quanto nei confronti delle compagnie petrolifere che avrebbero dovuto condurlo in porto. E’ opinione comune di molti analisti politici e finanziari che gli USA siano riusciti a far pagare ai contribuenti ed anche alle compagnie petrolifere europee un progetto che si rivela chiaramente come una priorità americana e non del vecchio continente, da sempre più interessato a stringere legami energetici con la Russia, nonché a considerare la costruzione di nuovi oleodotti e gasdotti attraverso la regione dei Balcani finalmente pacificata.
    Per mezzo del BTC attraverso il quale una volta a regime dovrebbe transitare una quantità di greggio pari al 7% dell’intero flusso di petrolio mondiale, Washington è infatti riuscita ad ottenere il duplice scopo di ridurre la propria dipendenza dal petrolio mediorientale e indebolire in maniera significativa i legami fra la Russia e le ex repubbliche sovietiche di Azerbaijan e Georgia, la cui condiscendenza rispetto alle scelte politiche statunitensi sembra preludere ad una vera e propria alleanza militare con gli Usa e la NATO. Anche Israele che vanta accordi di cooperazione militare a lungo termine sia con l’Azerbaijan che con la Georgia si è mostrato fin da subito molto interessato alla costruzione dell’oleodotto al fine di disporre di un corridoio energetico che colleghi il bacino del Mar Caspio con il Mediterraneo orientale tagliando fuori tanto la Russia quanto l’Iran. Una parte del petrolio trasportato dal BTC potrà essere infatti incanalata direttamente verso Israele attraverso un oleodotto subacqueo che colleghi Ceyhan al porto israeliano di Ashkelon e da lì dopo aver raggiunto il porto di Eilat sul Mar Rosso attraverso la Israeli Tipline, esportato verso i mercati asiatici.

    L’oleodotto più lungo del mondo parte da Baku, la capitale azera che da oltre due secoli intreccia la propria storia con lo sfruttamento dei copiosi giacimenti petroliferi presenti nella regione. A Baku le prime trivellazioni risalgono agli inizi del XVIII secolo e già all’inizio del 900 erano attivi 1.710 pozzi di petrolio che coprivano più della metà dell’intera produzione di greggio mondiale. L’impatto dell’industria petrolifera sull’aria, sull’acqua e sul territorio si è manifestato
    da sempre in tutta la sua drammaticità, condizionando in maniera pesante la qualità della vita degli abitanti che non hanno mai beneficiato della ricaduta economica conseguente all’estrazione del petrolio. Basti pensare che i risultati di numerose autorevoli ricerche mediche dimostrano come l’incidenza delle patologie tumorali nelle aree di estrazione petrolifera risulti del 50% superiore alla media. La presenza delle immense risorse fossili e degli interessi connessi al loro sfruttamento hanno inoltre contribuito a creare nella regione forti tensioni politiche spesso sfociate in sanguinosi conflitti armati. Oggi dinanzi al grande terminal petrolifero di Baku, dove inizia il BTC, gli abitanti del villaggio locale che conducono una vita di stenti possono solo mostrare i segni che il progresso ha lasciato sulle loro vite. Si tratta di segni disperati che si possono leggere sulla loro pelle macchiata di rosso, nel cuoio capelluto che si squama, nelle labbra bruciate da un qualcosa di indefinito, nelle malformazioni con cui nascono i loro figli. Un progresso che parla il linguaggio degli equilibri geopolitici e della battaglia per il controllo delle risorse energetiche ma in questo angolo di mondo è riuscito a regalare solo disperazione, alberi senza frutti né foglie, animali nati senza zampe e nuvole di polvere puzzolente che fanno bruciare gli occhi.

    La travagliata storia dell’oleodotto BTC è costellata da una sequela di grandi e piccoli episodi di prevaricazione, false promesse mai mantenute ed errori tecnici marchiani, il tutto nell’ambito di un progetto che non ha tenuto nella minima considerazione tanto le problematiche derivanti dall’impatto ambientale dell’opera quanto i rischi di varia natura derivanti dalla sua costruzione. Basti pensare che nella sola fase di progettazione dell’opera sono state portate alla luce ben 173 violazioni di standard sociali ed ambientali.
    Il consorzio BTC, la cui opera di persuasione è stata coadiuvata dalle pressioni statunitensi, ha indotto Turchia, Georgia ed Azerbaijan a firmare e ratificare tramite accordi con statuto internazionale veri e propri contratti capestro che sovrascrivono interamente le preesistenti legislazioni ambientali, sociali, del lavoro e dei diritti umani nell’ambito dell’intero corridoio attraversato dall’oleodotto. In virtù di questi contratti il consorzio BTC avrà per i prossimi 40 anni il potere di governo effettivo sugli interi 1770 km attraversati dalla pipeline, potendosi di fatto permettere di non tenere in alcun conto le singole legislazioni degli stati attraversati dall’opera. Turchia, Georgia ed Azerbaijan si sono inoltre impegnate a non introdurre per 40 anni alcuna nuova legge che possa alterare l’equilibrio economico del progetto o ridurre i diritti garantiti al consorzio, mentre tutte le responsabilità in caso d’incidenti ed attacchi all’oleodotto saranno ad esclusivo carico del governo nell’ambito del cui territorio si è verificato l’inconveniente. In pratica attraverso questi contratti è stato venduto il futuro delle popolazioni turche, georgiane ed azere, in quanto i governi che si succederanno negli anni a venire si troveranno nell’assoluta impossibilità d’invocare i propri poteri esecutivi per emendare gli accordi in modo da potere garantire ai propri cittadini una maggiore tutela sulla salute, la sicurezza dell’ambiente o qualsivoglia altro tipo di protezione.
    Sempre restando nell’ambito di questa anomalia legislativa le Valutazioni d’Impatto Ambientale dell’opera, approvate dai paesi interessati nel corso del 2002, prevedevano il passaggio attraverso zone protette, in palese violazione delle leggi ambientali dei paesi interessati. All’interno di tali VIA non sono state inoltre menzionate le alternative possibili, così come richiesto dalle legislazioni nazionali e dalle politiche ambientali di alcuni fra i principali finanziatori del progetto, come ad esempio la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. In tutti i paesi interessati dall’opera i lavori di costruzione hanno portato al danneggiamento di strade locali e sistemi di drenaggio ed irrigazione, ostacolando la vita quotidiana delle persone e mettendo a repentaglio l’equilibrio delle microeconomie locali. In Azerbaijan l’oleodotto attraversa l’area semidesertica del Gobustan, una zona estremamente fragile che nel 1996 fu dichiarata Riserva Naturale ed è candidata a diventare Patrimonio Mondiale dell’Unesco, essendo in essa custoditi reperti archeologici ed artistici, alcuni dei quali risalenti al 10.000 A.C.
    In Georgia il percorso attraversa per 20 km l’area di Borjomi/Bakuriani che fa parte dell’omonimo parco nazionale gestito dal WWF con il sostegno del governo tedesco. Quest’area che risulta particolarmente conosciuta per le proprietà benefiche delle sue acque minerali e gode di uno status di protezione in virtù della legge georgiana sulle risorse idriche è sempre stata meta di turismo e importante fonte di reddito per le comunità locali. La qualità delle acque a causa della presenza dell’oleodotto è oggi sottoposta al grave rischio d’inquinamento, con il rischio di pregiudicare l’intera economia della zona. Il governo georgiano, preoccupato per l’impatto dell’opera su un territorio così delicato, interruppe i lavori di costruzione del BTC per una settimana chiedendo fosse preso in considerazione un percorso alternativo, salvo poi tornare sui suoi passi e consentirne la ripresa in seguito a pressioni del segretario della difesa Usa Donald Rumsfeld.

    Come accade regolarmente per tutte le grandi opere anche l’oleodotto BTC fu presentato alle popolazioni locali interessate dal progetto, come una fonte sicura di crescita, sviluppo e nuova occupazione, nel palese tentativo di creare condivisione e mascherare le reali pesanti conseguenze negative dell’operazione. A questo proposito bisogna tenere conto del fatto che larga parte degli abitanti dell’Azerbaijan e della Georgia, in particolare le popolazioni delle zone rurali che sono quelle maggiormente interessate dagli impatti derivanti dalla costruzione e gestione dell’oleodotto, vivono da quando i due stati hanno ottenuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica in una situazione di estrema penuria energetica. Sfruttando questo stato di cose una delle leve attraverso le quali il consorzio BTC tentò di costruire consenso intorno all’opera fu la falsa promessa di destinare una parte delle risorse energetiche al fabbisogno locale per i servizi di base, quale ad esempio il riscaldamento delle case.
    In realtà la grande quantità di nuovi posti di lavoro prospettata quando venne presentato il progetto è rimasta una chimera e sia in Azerbaijan che in Georgia la costruzione dell’opera ha offerto ben poche opportunità alla popolazione locale che è rimasta preda della grave piaga della disoccupazione. In Georgia a fronte della promessa di 70.000 nuove assunzioni solo 250 persone sono state in realtà assunte in maniera permanente. La manodopera locale spesso è stata “usata” solamente per brevi periodi di tempo, adibita alle mansioni più umili e pericolose a fronte di salari estremamente bassi e turni di lavoro massacranti. Molte comunità locali hanno sollevato accuse di sfruttamento e di lacune assicurative per i lavoratori, corruzioni nel reclutamento e boicottaggi delle attività sindacali. A causa di ciò, soprattutto nelle regioni di Krtsanisi e Borjomi sono avvenuti centinaia di scioperi che hanno ostacolato i lavori, con più di 80 casi solamente durante il primo mese di costruzione. Nel mese di ottobre 2004 in Azerbajan è stata aperta un’inchiesta concernente alcuni lavoratori i cui turni di lavoro erano di 12 ore al giorno per sette giorni la settimana, in aperta contraddizione con la legislazione del lavoro vigente. In Georgia il sindacato nazionale “Georgian Trade Union Amalgation” ha guidato una manifestazione contro il BTC contestando il fatto che le leggi sul lavoro della Georgia venivano sistematicamente violate a causa della pressione esercitata sui lavoratori per rispettare le rigide scadenze del piano di costruzione. Anche in questo caso i lavoratori venivano costretti a turni di 12/14 ore al giorno sette giorni su sette, per assicurarsi uno stipendio minimo.
    Numerose ed estremamente tragiche sono state anche le problematiche connesse all’esproprio dei terreni attraverso i quali avrebbe dovuto passare l’oleodotto. Oltre 30.000 contadini che si trasmettevano da secoli la terra di generazione in generazione, senza essere in possesso di un titolo di proprietà riconosciuto, hanno visto espropriati i propri terreni senza alcun rimborso o nel migliore dei casi a fronte di un rimborso del tutto insufficiente a garantire la loro stessa sopravvivenza. Tanto in Georgia quanto in Azerbaijan si sono riscontrati molti casi di corruzione da parte dei funzionari preposti all’assegnazione dei risarcimenti per l’esproprio dei terreni sia privati che pubblici e sono state numerose le occupazioni illegali di terreni non formalmente venduti. Anche in Turchia la situazione non si è rivelata assolutamente migliore e il “Kurdish Human Rights Project” ha inoltrato alla Corte Europea un caso di violazione dei diritti umani concernente 38 villaggi colpiti dai lavori di costruzione dell’oleodotto, dichiarando diverse violazioni della Convenzione Europea sui Diritti Umani. Sono stati contestati l’uso illegale delle terre private senza il pagamento di risarcimenti, gli espropri coattivi, il sottopagamento dei terreni, le intimidazioni, l’assoluta assenza di consultazioni pubbliche, il mancato risarcimento dei danni collaterali ai terreni e alle proprietà.
    Numerose e molto estese sono state le proteste di piazza e le contestazioni contro la costruzione del BTC, spesso represse in maniera violenta attraverso l’uso della forza. Nel mese di maggio 2004 Ferhat Kaya, un difensore dei diritti umani turco è stato detenuto e probabilmente torturato per avere manifestato insieme con gli abitanti di alcuni villaggi danneggiati dall’oleodotto. In Azerbaijan sono state segnalate molte violazioni dei diritti umani, consistenti in arresti e detenzioni arbitrarie, nei confronti di chi si è opposto alla costruzione del BTC. Nel villaggio di Nardaran alla periferia di Baku si sono svolte molte manifestazioni pacifiche a partire dal 2002, l’ultima delle quali dispersa con la forza dalla polizia che ha ucciso un manifestante e ne ha feriti una sessantina. In Georgia nel mese di settembre 2003 una manifestazione ambientalista pacifica contro il BTC è stata duramente repressa dalla polizia locale che ha ferito molti manifestanti.

    I lavori di costruzione dell’oleodotto sono inoltre stati contraddistinti da una lunga sequela di scandali aventi come oggetto i materiali inadeguati e scadenti utilizzati per la realizzazione delle tubature, con conseguente grave rischio di versamenti di greggio ed incidenti futuri.
    Nel mese di novembre 2003 la BP, dopo avere scoperto la rottura di un rivestimento della tubatura, sospese segretamente i lavori di costruzione in Azerbaijan e in Georgia per 10 settimane, in quanto più di un quarto delle giunture in Georgia erano state danneggiate. L’azienda sostenne in seguito di avere provveduto alla riparazione delle rotture attraverso trattamenti ad alta temperatura, ma analoghe esperienze passate hanno rivelato l’assoluta inefficacia di una soluzione di questo tipo.
    Nel mese di febbraio 2004 il Sunday Times rivelò che per gran parte delle giunture in Azerbaijan e in Georgia era stata usata una vernice sbagliata e si sarebbe reso necessario dissotterrare e rivestire nuovamente larga parte dell’oleodotto.
    Nel mese di giugno 2004 alcuni ingegneri che hanno contribuito alla costruzione del tratto turco dell’oleodotto denunciarono numerosi difetti nel metodo di costruzione delle tubature, quali l’utilizzo di materiali inappropriati e l’incapacità da parte del personale specializzato di identificare faglie sismiche in una regione ad elevato rischio di terremoti. Secondo le parole degli ingegneri, tutti con più di 20 anni di carriera nel campo specifico, la costruzione del tratto turco dell’oleodotto sarebbe stata costellata da una serie di gravi incompetenze, dall’impiego di manodopera inadeguata e da inappropriati tagli dei costi. Nel dettaglio non sarebbero stati consultati gli specialisti adeguati per le consulenze ingegneristiche, si sarebbero usati metodi e materiali inadatti che non potranno assolvere alla funzione per cui erano previsti, non sarebbero state rispettate le procedure e le indicazioni specifiche previste dal progetto. Inoltre non ci sarebbe stato alcun controllo di qualità, si sarebbe impiegato personale non adeguatamente qualificato e formato, sarebbero state ignorate elementari misure di precauzione riguardanti l’ambiente, la salute e la sicurezza e per finire non ci sarebbero stati controlli sulle imprese locali che hanno contribuito alla fornitura dei materiali necessari per la costruzione dell’oleodotto, molte delle quali hanno poi dichiarato fallimento.

    Se sono molte le preoccupazioni connesse agli aspetti tecnici della costruzione del BTC, altrettanti allarmi desta l’estrema vulnerabilità dell’oleodotto, particolarmente esposto ai pericoli derivanti da eventuali conflitti armati ed attentati terroristici, attraversando una regione fra le più instabili del pianeta, con molti focolai di guerre e conflitti irrisolti che rischiano di riacutizzarsi a causa della presenza dell’opera. L’ambasciatore britannico in Azerbaijan Laurie Bristow, in una lettera datata settembre 2004 e citata in un articolo del quotidiano The Guardian, esprimeva dei fortissimi dubbi sulle capacità delle forze di sicurezza azere di far fronte agli incombenti pericoli e metteva in risalto come le varie realtà della società civile locale e internazionale avrebbero dovuto essere valutate molto più attentamente prima di procedere al finanziamento del progetto BTC. A conferma dell’estrema fondatezza di questi timori l’intero percorso dell’oleodotto è presidiato dalle forze armate dei paesi attraversati, coadiuvati in alcuni casi anche da militari dell’esercito USA. La Georgia ha firmato un accordo con la compagnia americana Northtrop Grumman per sviluppare un sistema di monitoraggio dello spazio aereo relativo al BTC attraverso un sistema radar. Inoltre gli Stati Uniti hanno stanziato 11 milioni di dollari finalizzati alla creazione di un corpo militare speciale composto da 400 unità georgiane che saranno direttamente addestrate da ufficiali americani.
    Qualunque attentato o azione di sabotaggio rischierebbe comunque di produrre delle conseguenze catastrofiche sia per quanto riguarda l’incolumità fisica degli abitanti che vivono in prossimità della pipeline, sia per quanto riguarda l’integrità ambientale dei territori attraversati dalla stessa.




    ARDITI NON GENDARMI

  3. #3
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA
    Guerra in Ossetia
    Quella bandiera europea dietro le spalle del bandito
    Di Giulietto Chiesa

    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image001.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image002.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image003.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image004.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image005.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image006.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image007.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image008.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image009.gif[/IMG]
    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image010.gif[/IMG]


    [IMG]file:///C:/DOCUME%7E1/utente/IMPOST%7E1/Temp/msoclip1/01/clip_image011.gif[/IMG]



    Piero Gobetti scrisse che “quando la verità sta tutta da una parte ogni atteggiamento salomonico è altamente tendenzioso”. Osservando la tragedia dell'Ossetia del Sud trovo che questo aforisma vi si adatti alla perfezione. Si cercherà, domani, di trovare spiegazioni “salomoniche” per giustificare il massacro della popolazione civile di una piccola comunità schiacciata dal peso della storia, come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.

    Vi sarà sicuramente qualche sepolcro imbiancato che cercherà di distribuire uniformemente le colpe tra chi ha aggredito e chi è stato aggredito, tra chi ha usato gli aerei e gli elicottericontro una città di 70 mila abitanti, e chi aveva in mano solo fucili e mitragliatrici per difendersi.

    Ci sarà domani chi spiegherà che gli osseti del sud hanno provocato e sono stati respinti. E poi, sull'onda della contr'offensiva, quasi per forza di cose, i georgiani sono andati a occupare ciò che, in fondo, era loro di diritto, avendo osato gli ossetini dichiarare e applicare l'idea del rifiuto di tornare sotto il controllo di chi li massacrò la prima volta nel 1992.

    Ci sarà, posso prevedere con assoluta certezza ogni parola di questi mascalzoni bugiardi, chi affermerà che tutta la colpa è di Mosca, che – non contenta dell'amicizia tra Tbilisi e Washington- voleva punire il povero presidente Saakashvili impedendogli di entrare in possesso dei territori di Abkhazia (il prossimo obiettivo) e di Ossetia del Sud. E così via mescolando le carte e contando sul fatto che il grande pubblico sa a malapena, sempre che lo sappia, dove stia la Georgia, e, meno che mai l'Ossetia del Sud.

    Ma le cose non stanno affatto così, anche se il pericolo che questo conflitto siallarghi è grande, tremendo, e chi scherza col fuoco sa che sta facendo rischiare ai suoi cittadini molto di più di quanto essi stessi pensino.

    Giocatorid'azzardo, irresponsabili, che puntano tutte le carte sul disastro e il sangue. Chiunque dovrebbe essere in grado di capire che una piccola comunità, con meno di 100 mila persone, disperse in duecento villaggi e una capitale, Tzkhinvali, che è più piccola di Pavia, non possono avere alcun interesse ad attaccare un nemico – questa è l'unica parola possibile alla luce di quanto staaccadendo – che è 50 volte superiore in uomini e armi, che ha l'aviazione (e l'ha usata ieri e oggi, mentre scrivo, con assoluta ferocia, bombardando anchel'unica strada che collega l'Ossetia del Sud con l'Ossetia del Nord, in territorio russo, per impedire che i civili possano rifugiarsi dall'altra parte dellafrontiera), che non ha ostacoli di fronte a sé. Chiunque potrebbe capire che l'Ossetia del Sud non ha rivendicazioni territoriali e non ha quindi in mente alcuna espansione al di fuori del suo microscopico territorio.

    Chiunque potrebbe capire – qui ci vuole un minimo di sforzo intellettuale, quanto basta per liberarsi di qualche schema mentale inveterato – che nemmeno la Russia può avere alcun interesse a inasprire la situazione. Certo Mosca è interessata allo status quo, con l'Ossetia del Sud indipendente di fatto, ma senza essere costretta a riconoscerne lo status, per evitare difficoltà internazionali. Ma chi ha la testa sul collo dovrebbe riconoscere che è meglio una tregua difficile che una guerra aperta; che è meglio negoziare, anche per anni, che uccidere a sangue freddo civili, bambini, donne.

    Io sono stato a Tzkhinvali, la primavera scorsa, e adesso mi piange il cuore a pensare a quelle vie dall'asfalto sgangherato, buie la sera, a quelle case senza intonaco, dal riscaldamento saltuario, a quelle scuole ancora diroccate,ma piene di gente normale, di giovani orgogliosi che non vogliono diventare georgiani perché sono cresciuti in guerra con la Georgia e della Georgia hanno conosciuto solo la violenza dei tiri sporadici sui terri delle loro case. Mi chiedo: e poi? Che ne sarà di quei giovani? Come si può pensare di tenerli a forza in un paese che non ameranno mai, di cui non potranno mai sentirsi cittadini? Se ne andranno, ovviamente, dopo avere contato i loro morti, a migliaia, in Ossetia del Nord, in Russia, di cui quasi tutti sono cittadini a tuttigli effetti, con il passaporto in tasca.

    E' questo il modo di sciogliere il nodo georgiano? Lo chiederei, se potessi, al signor Solana, che dovrebbe svolgere il ruolo di rappresentanza dell'Europa in questa vicenda. Che l'Europa, invece di aiutare a risolvere, non ha fatto altro che incancrenire, ripetendo a Tbilisi la giaculatoria che la Georgia ha diritto alla propria integrità territoriale, e dunque ha diritto a riprendersi Ossetia del Sud e Abkhazia. Certo – gli si è detto con untuosa ipocrisia – che non doveva farlo con la forza. Ma, sotto sotto, gli si è fatto capire che, se l'avesse fatto, alla fin dei conti, si sarebbe chiuso un occhio. E' accaduto. Saakashvili non ha nemmeno cercato di nascondere la mano armata con cui colpiva. Non ha nemmeno fatto finta. Ha detto alla televisione che voleva “ristabilire l'ordine” nella repubblica ribelle. Un “ordine” che non esisteva dal 1992, cioè da 16 anni. Perché adesso? Qual era l'urgenza? Forse che Tbilisi era minacciata di invasione da parte degli ossetini?

    La risposta è una sola. Saakashvili ha agito perché si è sentito coperto da Washington, in prima istanza, essendo quella capitale la capitale coloniale della attuale Georgia “indipendente”. E, in seconda istanza si è sentito coperto da Bruxelles. Queste cose non si improvvisano, come dovrebbe capire il prossimo commentatore di uno dei qualunque telegiornali e giornali italiani.Col che si è messo al servizio della strategia che tende a tenere la Russia sotto pressione: in Georgia, in Ucraina, in Bielorussia, in Moldova, in Armenia, in Azerbajgian, nei paesi baltici. Insomma lungo tutti i suoi confini europei. Saakashvili ha un suo tornaconto: alzare la tensione per costringere l'Europa a venire in suo sostegno, contro la Russia; ottenere il lasciapassare per un ingresso immediato nella Nato e, subito dopo, secondo lo schema dell'allargamento europeo e dell'estensione dell'influenza americana sull'Europa, l'ingresso in Europa.

    Secondo piccione: chi muove Saakashvili conta anche sul fatto che questo atteggiamento dell'Europa finirà per metterla in rotta di collisione con la Russia. Perfetto! Con l'ingresso della Georgia nella Nato e in Europa gli StatiUniti avranno un altro voto a loro favore in tutti i successivi sviluppi economici, energetici e militari che potrebbero vedere gli interessi europei collidere con quelli americani.

    Javier Solana ha la capacità di sviluppare questo elementare ragionamento? Ovviamente ce l'ha. Solo che non vuole e non può perchè ha dietro di sé, alle sue spalle, governi che non osano mettere in discussione la strategia statunitense, o che la condividono.

    Cosa farà ora la Russia è difficile dirlo. Certo è che, con la presa di Tzkhinvali, le forze russe d'interposizione, che sono su quei confini interni alla Georgia,dovranno ritirarsi. Il colpo all'Ossetia del Sud diventa cos' un colpo diretto allaRussia. Che, questo è certo, non è più quella del 2000, al calare di Boris Eltsin e delle sue braghe.

    L'emblema di questa tragedia, che è una nuova vergogna per l'Europa, è stato il fatto che Saakashvili ha annunciato l'attacco, dalla sua televisione, avendo dietro le spalle, ben visibile, la bandiera goergiana e quella blu a stelle gialle europea. Peggiore sfregio non poteva concepire, perchè la Georgia non è l'Europa, non ancora. E meno che mai dovrebbe esserlo dopo questo attacco che offende - o dovrebbe offendere - tutti coloro che credono nel diritto all'autodeterminazione dei popoli. Che è sacrosanto per chi se lo guadagna, molto meno con chi usa quella bandiera per vendere subito dopo l'indipendenza a chi l'ha sostenuta dietro le quinte.

    Qual è la differenza con il Kosovo? Una sola: la Serbia era un prossimo suddito riottoso e doveva essere punita. La Georgia è invece un vassallo fedele e doveva essere premiata.

    L'Ossetia del Sud questo diritto se lo è guadagnato. E non c'è spazio per alcun atteggiamento salomonico, perchè la ragione sta tutta da una sola parte, e io sto da quella stessa parte.



    ARDITI NON GENDARMI

  4. #4
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA

    ARROGANZA SENZA VELI; ANALISI SENZA VELI di G. La Grassa

    Una volta tanto, non si accampano versioni distorte: la Georgia (sicario di un capitalismo occidentale sempre più succube della supremazia statunitense) ha invaso l’Ossezia e aggredito le truppe russe, che hanno al momento reagito; e il conflitto si sta allargando anche all’Abkazia. Malgrado la chiarezza dell’episodio, gli Usa chiedono che le truppe russe “si ritirino” (dall’essere aggredite) e Bush lancia i suoi ultimatum, pretendendo che la Georgia abbia mano libera nel suo lavoro da “agente americano” di continua provocazione antirussa. La UE e l’OSCE non hanno perso l’occasione di dimostrare che sono ormai strettamente dipendenti dal paese predominante; impressionante, a questo punto, il completo appiattimento servile di questa Europa. Chi ha ancora voglia di parlare di “imperialismo” europeo (e addirittura italiano) va adesso preso per quello che è: o agente provocatore o deficiente totale, con un cervello ormai guastato da una lunga, lunghissima, stagione di putrefazione neuronale.
    Non m’interessa, come al solito, la banale cronaca della “guerra”, e dei successivi compromessi che verranno trovati, bensì un’analisi possibilmente “fuori dal coro” degli stupidi sinistri (in particolare degli attuali “comunisti dell’Alzheimer”, ma non solo) e dei rozzi e servi al 100% che stanno “a destra”. Certo, la meschinità di questi occidentali, tappetino degli arroganti Usa, solleva sdegno in qualsiasi persona non abbia il sangue diventato acqua fetida di fogna; ma non è questo quanto adesso mi interessa.
    Non tanto tempo fa sostenevo essere la Russia – e non la Cina nell’attuale fase storica, che non durerà pochi anni – candidata a divenire il principale antagonista del monocentrismo statunitense. Francamente, anche l’ultimo evento sembra confermarlo. Per il momento la “monocultura” russa – intendo parlare dell’aver centrato l’economia sulla produzione e distribuzione di gas e petrolio – non si rivela un elemento di eccessiva debolezza, malgrado il prezzo stia discendendo alla faccia di tutti coloro che lo vedevano ormai a livelli parossistici tali da provocare, da solo, il collasso economico generale (con la solita speranza degli sciocchi di cui sopra di veder sprofondare il sistema capitalistico). In realtà, l’antagonismo russo si basa sul possesso di un apparato militare ancora notevole, disastrato certo dal periodo di governo del “duo di cedimento” Gorbaciov-Eltsin, ma ancora una buona base per ripartire con ammodernamenti tecnico-scientifici tali da potersi rimettere in piedi forse già nel prossimo decennio o poco più.
    La Russia è chiaramente collocata nella “prima linea del fronte”, poiché in Asia, nell’area del Pacifico, gli Usa sanno di avere più tempo a disposizione con Cina e India, mentre nella zona europea – che ha ai suoi immediati confini il Medio Oriente e l’Iran, ecc. piuttosto turbolenti – la situazione è meno tranquilla. La UE è serva, ma è abbastanza in pappe, comincia a perdere colpi; e la sua incredibile dipendenza, il tentativo di soltanto sfruttare i vantaggi che spettano a chi serve bene i più potenti, mostreranno in tempi non lunghissimi tutta la miopia dei suoi governanti (e dei suoi gruppi subdominanti economico-finanziari). Occorre dunque agli Usa, con una certa fretta, l’“accerchiamento” della Russia sul suo lato occidentale e meridionale, mentre vengono compiute azioni di disturbo nell’area centroasiatica, dove forse però il periodo “filoamericano” più acceso è passato; senza considerare che ci sono buone probabilità che anche in Afghanistan (e “retrovie” pakistane) la preminenza statunitense possa progressivamente indebolirsi.
    Continuo a pensare che il Giappone, secondo me destinato a restare per lungo tempo una potenza minore, sarà tutto sommato di aiuto per gli Usa; e anche all’India, come vero antagonista dei dominanti centrali, credo assai poco. Resta la Cina, ma ormai su un periodo di tempo più lungo del previsto. Non è mia intenzione voler enfatizzare il significato dell’apertura dei giochi olimpici, fatto contingente quant’altri mai. In ogni caso, mi può andare bene che si sia messa la sordina sulla Rivoluzione culturale, evento di cui è infatti forse meglio dimenticarsi. Non si può però sorvolare sull’avvento di Mao al potere, che è stato, piaccia o non piaccia, il vero atto di fondazione della Cina moderna. Anzi, diciamo che il tentativo di più spinta modernizzazione anche culturale, tentativo intrinseco ad un comunque buon “assorbimento” del marxismo da parte dei comunisti cinesi, è in larga misura fallito; e tuttavia ha comunque determinato una svolta. Mao va apertamente rivalutato se non come comunista – visto che di comunismo s’è proprio visto in Cina, alla fin fine, ben poco e che adesso ne resta un’etichetta perfino fastidiosa da sopportare – almeno come rappresentante di un gruppo di governo che ha dato il via alla rinascita del paese quale potenza di tutto rispetto. Diciamo che sarebbe giusto trattare Mao come sembra esserlo Stalin in Russia: non quale “costruttore del socialismo”, ma di una grande potenza poi dilapidata dalla più nefasta tra le “bande dei quattro”: Krusciov-Breznev-Gorbaciov-Eltsin.
    Il fatto è che in Russia il capitalismo selvaggio dell’epoca immediatamente successiva alla dissoluzione dell’Urss è stato nella sostanza sconfitto, e i suoi rappresentanti arrestati o in esilio; la politica (centralizzata) ha sostanzialmente ripreso in mano la situazione, o almeno così sembra in questo momento. Anche la costituzione del fondo sovrano russo appare rispondere a criteri orientati ad una piuttosto decisa ripresa di potenza. In Cina, mi sembra ci siano segnali più contraddittori. Forse la corruzione non è superiore a quella russa; la mafia cinese è però probabilmente più connivente con l’apparato pubblico (almeno locale) di quanto non lo sia adesso quella russa. Soprattutto, ci sono troppi capitalisti cinesi “d’assalto” – abbastanza corrispondenti a quelli “sbaraccati” da Putin – lanciati verso l’occidente anche con operazioni finanziarie (e commerciali) che li legano un po’ troppo alle centrali del capitalismo predominante statunitense. Lo stesso fondo sovrano, China Investment corporation, pur controllato strettamente dal Governo, ha seguito una politica finanziaria – ad es. il recente acquisto del 10% della Morgan Stanley a prezzo esorbitante, venendo così in aiuto di questa banca in gravi difficoltà e dunque rischiosa – che potrebbe essere meno proficua di quella russa, più attenta ad operazioni nel campo dell’economia reale: si pensi alla politica della Gazprom verso l’Eni, l’algerina Sonatrach, la libica Noc, ecc.
    Un paio d’anni fa si è data molta pubblicità alla penetrazione economica della Cina in Africa con accordi commerciali con una sessantina di paesi del continente; e anche con il Sud America si sono stabiliti, si dice, buoni rapporti economici. Sappiamo però al momento troppo poco delle reazioni americane e “occidentali” (cioè dei subdominanti dipendenti dagli Usa) in Africa, di cui abbiamo visto alcuni vistosi, ma tutt’altro che chiari e per nulla ancora definiti, “esempi” in Darfur (Sudan), Nigeria, Zimbabwe. Il vero fatto è che la Cina sembra troppo invischiata in una concezione eccessivamente economicistica della penetrazione e allargamento delle sue sfere di influenza. Così essa procede con una sorta di “azione a pioggia” che può far disperdere risorse (di fronte alla potenza economica decisamente superiore degli Stati Uniti, coadiuvati dai subdominanti al suo servizio), prestando poi allora il fianco ad azioni di ben altro calibro e maggiormente concentrate su dati punti deboli cinesi.
    La Russia sembra assai più capace di mettere la politica al comando, malgrado “sventoli” sempre al mondo la solita Gazprom; dietro mi sembra però esserci dell’altro che bolle in pentola. E non ci si lasci ingannare dalle scaramucce in quel di Cuba o dall’ottimo accoglimento di Chavez a Mosca. La Russia dà l’impressione d’essere maggiormente consapevole circa l’esigenza di concentrare i suoi sforzi nelle sfere di influenza più vicine ai suoi confini, e del fatto che tali sforzi debbono andare ben oltre i meri accordi commerciali ed economici in genere; niente azione dispersiva “a pioggia”, massima concentrazione invece, il che implica una mentalità chiaramente non economicistica e dunque di più ampio respiro.

    *****

    Data la disposizione delle forze in campo internazionale nell’epoca che ci sta immediatamente davanti, appare sempre più grave il deficit della politica europea, ma in modo del tutto particolare quello della politica italiana. Il nostro ceto politico, di qualsiasi orientamento sia, appare totalmente deprivato di capacità strategica, è invischiato in giochi di mero sfruttamento delle occasioni offerte da una politica clientelare (e “mafiosa” in senso lato), favorita da subdominanti economici (con prevalenza di quelli finanziari) al totale servizio dei predominanti centrali; che questi siano in crisi – e perfino se quest’ultima dovesse poi rivelarsi ancor più grave del previsto – non sposta di un ette la nostra subordinazione, che alla fine di questa eventuale grave crisi sarebbe decisamente acuta; e in un paese impoverito e impaurito.
    Sintomo appariscente del nostro inverecondo servilismo è la costante partecipazione alle avventure militari degli Usa; partecipazione sia della destra che della sinistra (al massimo quest’ultima opera ipocritamente piccole mascherature, del tutto inessenziali). Manifestazione di estrema rozzezza politica e culturale sono le campagne agitatorie sulle “repressioni” cinesi in Tibet (cui hanno partecipato disgustosi settori della sinistra “estrema” e ridicolmente “pacifista”), sulla “violazione dei diritti umani” (con due ministri “senza cervello” che chiedevano addirittura di non partecipare ai giochi olimpici); un vero rigurgito d’odio reazionario e ottuso di una arretratezza mentale da autentica regressione dall’homo sapiens sapiens agli ominidi (e con i soliti “radicali”, i più scatenati agenti filoamericani, al primo posto in questo degrado). E adesso, ovviamente, ci si accoda agli Usa perfino in occasione della chiara aggressione georgiana che ha già provocato migliaia di morti in Ossezia (per i quali evidentemente i “diritti umani” non esistono).
    Desidero rilevare anche altri sintomi meno appariscenti, ma non meno pericolosi. I nostri politicanti (e quasi più quelli di sinistra che quelli di destra in tal caso) – imbeccati dalla solita GFeID, un cumulo di parassiti che vuol vivere a spese del finanziamento “pubblico” – hanno messo più volte bastoni fra le ruote alle nostre poche imprese di punta. Sintomatici i reiterati tentativi di scindere l’Eni, separando la produzione dalla distribuzione, al fine di assegnare quest’ultima alle municipalizzate (per gran parte in mano appunto ad amministrazioni di sinistra). Forse si è data troppo poca importanza all’intervento operato ad un certo punto dalla Gazprom con lettera del suo vicepresidente al Giornale, in cui si manifestava “sorpresa” e incapacità di capire per quali motivi ci fosse in Italia questa “tentazione”. In realtà, il vicepresidente sapeva benissimo di che cosa si trattava e ha voluto far intendere che la Gazprom poteva anche perdere la pazienza e non fare più troppi accordi con la nostra azienda.
    Ciò che però mi sembra particolarmente preoccupante è che, dentro l’Eni così come dentro la Finmeccanica, ecc., ci sono quasi sicuramente alcuni settori dello stesso management di tipo “fellone”, intenzionati a spingere in direzione della supina accettazione degli interessi statunitensi. Come avviene in “piccoli Stati”, ci saranno apparati di spionaggio del “nemico” che condizionano la politica aziendale, avversando una possibile maggior indipendenza di queste nostre imprese. C’è insomma tutta una rete d’appoggio al tipico chinar la testa dei subdominanti, che orienta la nostra politica come del resto quella europea; ma la nostra – temo – assai più di quella di altri paesi. E persino certi “agenti provocatori” della sinistra detta “estrema” – quella sciocca o truffaldina che ciancia di “imperialismo italiano” (e europeo) – sono infiltrati tra questi settori politici ed economici in quanto effettive “quinte colonne” dei reali predominanti “imperiali”.
    Se non si spazzano via queste forze politiche – condizione decisiva e primaria anche per ridurre a più miti consigli la GFeID – non si otterranno grandi risultati in merito ad una nostra maggior indipendenza; per nulla affatto conseguibile se non con l’appoggio alle formazioni sociali particolari (paesi) in marcia verso una più avanzata configurazione multipolare della formazione sociale mondiale. Non per preteso filo-russismo o filo-cinesismo, ecc.; solo per i propri interessi, oggi fortemente in discussione anche per la crisi in corso di svolgimento.
    Deve allora essere detto con la massima chiarezza e fuori dai denti. Non solo riteniamo “infiltrati del nemico” – magari in buona fede, pur se ci crediamo assai poco, visto che hanno ampio accesso alla stampa ed editoria di grande diffusione, a finanziamenti vari di assai dubbia provenienza, e via dicendo – coloro che parlano a vanvera di imperialismo italiano ed europeo, ma anche tutti gli ecologisti, i decrescisti, i pacifisti “senza ma e senza se”, i movimentisti moltitudinari, i “no global”, i nemici del progresso scientifico-tecnico, coloro che vogliono parsimonia e frugalità e combattere a “mani nude” rifiutando le politiche di potenza. Essi sono al servizio reale – anche se non lo sanno; ma resto convinto che i più lo sappiano benissimo e ci guadagnino sopra in soldi e notorietà – dell’unico vero “sistema imperiale” oggi esistente: quello degli Usa. Con gente del genere non interagiamo se non sul piano dello scontro politico e ideologico, dello smascheramento delle loro “oggettivamente” infami intenzioni di subordinazione. Che sia chiaro una volta per tutte!

    RIPENSAREMARX

    ARDITI NON GENDARMI

  5. #5
    PENULTIMO VALLIGIANO COMUNISTA
    Data Registrazione
    27 May 2006
    Località
    Luino
    Messaggi
    1,095
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    Citazione Originariamente Scritto da Epifanio Visualizza Messaggio
    da il manifesto del 9 agosto 2008

    IL CREMLINO AL BIVIO
    Astrit Dakli

    Guerra nel Caucaso. Centinaia di morti; migliaia di civili in fuga o chiusi nei rifugi; carri armati, missili e bombardieri in azione, con tutte le parti in causa che dicono di agire per «ristabilire la pace» accusando gli avversari di volere la guerra. Oggi il campo di battaglia è la minuscola Ossezia del sud, le cui malcerte «frontiere» abbiamo visto varcare da colonne di tank prima georgiani poi russi, mentre jet delle due parti volavano a bassa quota sganciando bombe. Domani, forse già stanotte, il teatro di guerra può diventare l'intera Georgia.
    Chi ha ragione? Il puzzle etnico, storico, politico e militare in quelle poche miglia quadrate alle falde del Caucaso non è districabile. Ragioni e torti sono aggrovigliati e la tentazione di tagliare il nodo con la spada è forte, soprattutto da parte del potere centrale georgiano, che ci ha già provato quindici anni fa con esiti tragici (ma allora il mondo era distratto) e sembra volerci riprovare ora. Anche se i luoghi sono remoti, noi non illudiamoci: siamo nella Nato, che su pressione americana da anni sta cercando di allargarsi laggiù per controllare oleodotti e basi militari; e il leader georgiano, dopo aver lanciato l'azione militare contro i russi, per fronteggiarne la risposta ha chiesto aiuto a Usa e Nato. Per ora l'Occidente traccheggia, ma il suo coinvolgimento è più che possibile, se la nuova guerra non si ferma subito.
    Dalla parte dei leader nazionalisti di Tbilisi - ieri il poeta Zviad Gamsakhurdia, oggi l'avvocato Mikheil Saakashvili - ci si fa forti di un unico principio: l'inviolabilità delle frontiere. Peccato che proprio coloro cui i georgiani si appellano, Nato, Usa, Unione europea, abbiano ripetutamente violato quel principio per i loro interessi spiccioli - l'ultima volta ai danni della Serbia - e dunque si trovino oggi in posizione difficile, essendo chiaro che la maggioranza in Ossezia (e nell'altra regione secessionista georgiana, l'Abkhazia) non vuol più vivere sotto Tbilisi e auspica una riunificazione etnica e storica con la Russia.
    E quest'ultima? Il nuovo presidente Dmitrij Medvedev, provocato dai georgiani (che non a caso han lanciato l'attacco mentre lui era in vacanza e Putin in Cina) si trova di fronte a un bivio storico: mostrare moderazione e lasciare che gli amici sud-ossetini vengano fatti a pezzi da truppe vestite e addestrate dagli Usa, oppure andare a fondo nella reazione e schiacciare i georgiani.Nel primo caso apparirà debole e incapace di difendere i suoi cittadini dall'assalto occidentale; nel secondo, impantanerà il suo paese in una guerra orrenda e infinita in cui la Russia ha tutto da perdere. Un bivio grave: non per niente per quasi 24 ore dopo l'inizio dell'attacco il Cremlino è rimasto muto. Le notizie delle ultime ore sembrano indicare una scelta a metà: risposta durissima ma limitata nello spazio e nel tempo, per «dare una lezione» (e magari lasciare in Ossezia un vero esercito, invece dei pochi «peacekeeper» attuali) senza farsi risucchiare in un conflitto generale. È dubbio che questo calcolo funzioni.
    Posso dire con pacata sicumera che il Sig. Dakli non è uno stratega militare, al limite un mediocre giornalista.
    Da mesi seppur con toni tenui si parla delle crescenti tensioni tra Washington e Mosca.
    Ora non siamo qui come certi vorrebbero (e non mancherà certo l'occasione) per fare tifo da stadio inneggiando ai colori di un'imperialismo piuttosto che di un'altro ma piuttosto di fare un'analisi concreta su ciò che sta accadendo.
    Ora,ho letto il lapidario giudizio di G.La Grassa riguardo all'articolo sopracitato riproposto nel 3ad aperto dal buon Munzer e nonostante condivido pienamente i giudizi espressi nei confronti di redattori e direzioni varie,non mi trovo d'accordo in alcuni passaggi riguardo alla mancata citazione di eventuali primi aggressori da parte del Sig. Dakli.
    Dakli compie uno sforzo tipico di questo "giornalismo debole" o "politically correct" tergiversando sulle responsabilità delle due fazioni.
    In quanto alle affermazioni che ho volutamente evidenziare in neretto si potrebbe scrivere un intero saggio ma l'unica cosa certa è che un'articolo di poche righe come questo non fa altro che produrre disinformazione.
    Forse qualche dettaglio in più sarebbe stato più utile a capire le dinamiche di questo ennesimo scontro interimperialista dove a mio avviso la Russia non reagendo ha soltando da perdere.

  6. #6
    Forumista esperto
    Data Registrazione
    14 Jun 2009
    Messaggi
    11,188
     Likes dati
    0
     Like avuti
    1
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    La Georgia la cosa l'ha studiata molto bene. Sarà un caso che tutto è iniziato proprio in concomitanza dei giochi olimpici? Se militarmente ne esce sicuramente sconfitta (cosa che credo fosse assolutamente prevedibile e di cui il governo georgiano sono sicuro fosse consapevole), politicamente ne esce già vittoriosa perchè in tempi di tregua olimpica e di tutta la storia sul Tibet una azione simile non può che portare frutti d'oro alla repubblica caucasica. E il risultato più importante è la manipolazione mediatica di basso profilo che tende in questo periodo a portare la gente comune a fare la facile equazione Cina-Tibet come Russia-Georgia.

    Detto questo spero che tutti si rendano conto che come ha detto bene Resistente questa è una guerra interimperialistica.

  7. #7
    email non funzionante
    Data Registrazione
    16 Jun 2009
    Messaggi
    943
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    LA GEORGIA E L’ISRAEL CONNECTION



    FONTE: MIRUMIR (BLOG)

    Impossibile tener fuori gli israeliani da una storia di guerra?

    Già il primo giorno di guerra è uscita su Debkafile, sito israeliano che viene considerato vicino alle alte sfere militari israeliane, e per questo fonte sia di notizie di prima mano sia di propaganda fuorviante, l'informazione che gli israeliani avrebbero un ruolo nel conflitto tra Georgia e Ossezia del Sud. Ricordiamo che anche Gerusalemme ha la necessità di difendere i propri interessi petroliferi nell'oleodotto Baku-Ceyhan, costruito in maniera da non passare in territorio russo (tra l'altro, sempre secondo Debka, Israele avrebbe offerto a Mosca di collaborare in un progetto per portare il gas ai porti israeliani di Ashkelon e di Eilat dalla Turchia, ma i russi avrebbero rifiutato). Questa la notizia di Debka:

    L'anno scorso il presidente georgiano ha assoldato da aziende di sicurezza private israeliane varie centinaia di consulenti militari, circa un migliaio, per addestrare le forze armate georgiane in tattiche di combattimento (commando, aria, mare, mezzi armati e artiglieria). Hanno inoltre offerto al regime centrale istruzioni sull'intelligence militare e la sicurezza.

    Tbilisi ha acquistato anche armi, intelligence e sistemi elettronici per la pianificazione dei combattimenti da Israele. Questi consulenti sono di sicuro profondamente coinvolti nella preparazione dell'esercito georgiano alla conquista della capitale osseta di questo venerdì.

    Ieri (10 agosto) il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha pubblicato questo articolo, dove esemplifica la questione (di seguito alcuni estratti):
    Il combattimento che è iniziato nel fine settimana tra Russia e Georgia ha portato alla luce il profondo coinvolgimento di Israele nella regione. Questo coinvolgimento include la vendita di armi avanzate alla Georgia e l'addestramento di forze di fanteria dell'esercito georgiano. Il ministro della difesa [israeliano] ha tenuto un incontro speciale questa domenica per discutere delle varie vendite di armi israeliane in Georgia, ma finora non è stato annunciato nessun cambiamento di politica. "La questione è tenuta sotto stretto controllo", hanno detto fonti del Ministero della Difesa. "Non operiamo in nessun modo che possa contrastare gli interessi israeliani. Abbiamo declinato molte richieste che implicavano vendite di armi alla Georgia; e quelle che sono state approvate sono state analizzate scrupolosamente. Finora non abbiamo posto limitazioni alla vendita di misure protettive."

    E fa un rapido riassunto della storia dei rapporti d'affari bellici tra i due paesi:

    Israele ha cominciato a vendere armi alla Georgia circa sette anni fa, in seguito all'iniziativa di alcuni cittadini georgiani che sono immigrati in Israele e si sono messi in affari. "Hanno contattato rappresentanti dell'industria della difesa e venditori d'armi e gli hanno detto che la Georgia aveva un budget relativamente alto e poteva essere interessata ad acquistare armi israeliane", dice una fonte coinvolta nelle esportazioni di armi. La cooperazione militare tra i paesi si è sviluppata prepotentemente. Il fatto che il ministro della Difesa georgiano, Davit Kezerashvili, sia un ex cittadino israeliano che parla benissimo l'ebraico ha contribuito a questa cooperazione. "La sua porta era sempre aperta per gli israeliani che venivano a offrire al paese sistemi d'arma costruiti in Israele", dice la fonte. "Rispetto ad altri paesi dell'Europa dell'Est, i contratti con questo paese sono stati conclusi molto rapidamente, principalmente per via del coinvolgimento personale del ministro della difesa". Tra gli israeliani che hanno tratto vantaggi da questa oppurtunità e hanno cominciato a fare affari in Georgia ci sono l'ex ministro Roni Milo e suo fratello Shlomo, l'ex direttore generlae delle industrie militare, il Brigadiere-Generale (in congedo) Gal Hirsch e il Generale-Maggiore (in congedo) Yisrael Ziv. Roni Milo ha condotto affari in Georgia per Elbit Systems e le Indutrie Militari, e col suo aiuto le industrie militari israeliane hanno venduto alla Georgia droni, torrette automatiche per veicoli blindati, sistemi antiaerei, sistemi di comunicazione, munizioni e missili.
    [...] Gli israeliani che operano in Georgia hanno cercato di convincere le Industrie Aerospaziali Israeliane a vendere vari sistemi alle forze aeree georgiane, ma le offerte sono state declinate. La ragione del rifiuto è la relazione "speciale" creatasi tra le Indutrie Aerospaziali e la Russia nel miglioramento dei jet da combattimento prodotti nell'ex Unione Sovietica e la paura che vendere armi alla Georgia avrebbe contrariato i russi e li avrebbe potuti spingere a cancellare l'affare.

    L'articolo si chiude con i complimenti del ministro georgiano per la Reintegrazione, Temur Yakobashvili, all'esercito: "Gli israeliani devono essere fieri dell'addestramento israeliano e dell'educazione data ai soldati georgiani". Inoltre, secondo Ha'aretz, il ministro avrebbe dichiarato che "Non ci sono stati attacchi all'aeroporto di Tbilisi. Era una fabbrica che produce aerei da combattimento".
    Affari, in sostanza, ma sembrerebbe che la Georgia sia decisamente un partner privilegiato nella regione, a quanto ne sappiamo finora. Però, secondo una notizia del 5 agosto tratta dal sito di Yediot Aharonot, che cita la Associated Press:
    Israele ha deciso di bloccare la vendita di equipaggiamento militare alla Georgia a causa delle obiezioni della Russia, che è alle corde col suo piccolo vicino caucasico, hanno dichiarato ufficiali del ministero della Difesa questo martedì. Gli ufficiali hanno detto che il congelamento aveva lo scopo parziale di dare delle chance ad Israele nei suoi tentativi di persuadere la Russia a non vendere armi all'Iran.

    Versione originale:

    Fonte:/www.debka.com/
    Link: http://www.debka.com/article.php?aid=1358
    8.08.08

    Versione italiana:

    Fonte: http://mirumir.altervista.org/
    11.08.08

  8. #8
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Le accuse del sito debka.com
    Ci sono mille
    consiglieri
    israeliani
    in Georgia?
    Quella di ieri, che doveva essere la prima giornata del cessate il fuoco facilitato dalla missione dell'Unione europea, è stata invece un'altra pagina di duri scontri, sia sul fronte georgiano, sia in Ossezia del Sud. Una guerra sul campo e di comunicazione. La Georgia, in serata, ha denunciato che i carrarmati russi avrebbero conquistato Gori e sarebbero a pochi chilometri dalla capitale Tbilisi, chiedendo aiuto militare ai Paesi amici. Mosca ha smentito, ma il presidente georgiano ha ribadito: «Occupano la maggior parte del Paese». L'inviato americano per il Caucaso Matthew Bryza ha lasciato gli Stati Uniti per unirsi alla missione europea.
    Georgia : All'alba di ieri la Russia ha lanciato attacchi aerei sul villaggio di Djori e su un centro di controllo aereo alla periferia di Tbilisi. Secondo il ministro degli Esteri georgiano erano più di 50 gli aerei a sorvolare il territorio georgiano. I russi, alla fine, sono arrivati a Gori, città natale di Stalin vicino al confine con l'Ossezia del sud. Migliaia di civili hanno cominciato ad abbandonarla durante la notte, intasando di auto la strada per Tbilisi.
    Ossezia : La Georgia, anche dopo aver fermato la tregua unilaterale proposta dall'Europa, ha continuato i bombardamenti in Ossezia. Nella notte precedente la Georgia aveva colpito l'area di Tskhinvali, capitale della provincia ribelle. Il presidente russo Dmitry Medvedev, dal canto proprio, ha dichiarato che le forze russe, hanno completato la "parte piu' importante" delle operazioni in Ossezia del Sud. La missione nella provincia georgiana ribelle, ha spiegato il leader della Russia, si propone l'obiettivo di «costringere la Georgia e le sue autorita' ad accettare la pace». Medvedev ha aggiunto che il contingente di Mosca, grazie ai rinforzi ricevuti, ha ripreso pienamente il controllo di Tskhinvali, capitale sud-ossetina.
    Il vicecapo di stato maggiore russo Anatoli Logovitsin ha spiegato che le forze aeree e militari bombardano «gli organi di gestione e formazione delle forze armate georgiane». Le truppe georgiane rimaste in Ossezia del sud vengono disarmate e fatte prigioniere. Tbilisi, però, sta cercando di riorganizzarsi e di mobilitare brigate delle milizie locali. Logovitsin ha anche detto che non meglio precisati "cittadini stranieri" combattono dalla parte georgiana.
    Abkazia : ll conflitto fra Russia e Georgia ha un nuovo fronte dopo che la forze russe presenti nella repubblica separatista georgiana dell'Abkhazia hanno ordinato il disarmo delle forze georgiane, minacciando un attacco, e che la Georgia ha respinto l'ultimatum. Secondo il presidente dell'Abkhazia, Sergei Bagapsh, qualsiasi negoziato è «impossibile con l'attuale governo georgiano», composto da «criminali di Stato». Le forze russe hanno conquistato Senaki, una base militare georgiana non lontana dall'Abkhazia, l'altra regione separatista della repubblica caucasica. Senaki è a una trentina di chilometri dal porto georgiano di Poti, distrutto nei bombardamenti dei giorni scorsi.
    Le vittime : A ieri il bilancio della guerra nel sud dell'Ossezia diramato da parte russa era di 1.600 civili uccisi, 18 soldati russi morti e 70 feriti. Secondo la Commissione europea erano circa 30mila i profughi provenienti dall'Ossezia del Sud giunti nell'Ossezia del Nord, in territorio russo, mentre 6.000 sono invece riparati nella capitale georgiana, Tbilisi.


    12/08/2008 Liberazione

    ARDITI NON GENDARMI

  9. #9
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Il sito internet debka
    Il sito internet debka.com ha svelato alcune rivelazioni provenienti da fonti militari israeliane molto riservate: Tel Aviv nutre forti interessi negli oleodotti e gasdotti che attraversano la Georgia; Tbilisi è molto interessata alle armi, alle tecnologie e alle tecniche di combattimento israeliane. La Georgia è un paese che spende moltissimo per la difesa nazionale e lo scorso anno ha commissionato a una società di sicurezza israeliana l'addestramento delle proprie truppe, militari e di intelligence. Diverse centinaia di consiglieri israeliani sono sbarcate a Tbilisi per esportare il know-how delle avanzate tecniche e tecnologie in possesso della Stella di David. I circa 1000 istruttori sono stati impegnati nell'addestramento delle truppe impegnate in operazioni di terra, aria e mare. Tbilisi ha proceduto anche all'acquisto di ingenti quantità di armi e tecnologie belliche. Questi "preparatori" sarebbero dunque fortemente coinvolti nelle attività di preparazione all'invasione di Tshkinvali da parte dei soldati georgiani. Nelle settimane che hanno preceduto l'escalation della violenza, la Russia aveva più volte chiesto a Israele di non prestare assistenza militare alla Georgia, arrivando a minacciare una brusca crisi nelle relazioni bilaterali. Israele si è sempre limitata ad asserire che le sue prestazioni riguardavano la fase difensiva e non quella di attacco.
    www.peacereporter.net


    ARDITI NON GENDARMI


  10. #10
    email non funzionante
    Data Registrazione
    25 Jan 2006
    Messaggi
    2,886
     Likes dati
    0
     Like avuti
    0
    Mentioned
    0 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito

    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Ricevo e pubblico

    Georgia, la libertà made in Usa
    di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci *
    «La Georgia è oggi un faro di libertà per questa regione e il mondo», diceva il presidente George Bush in visita a Tbilisi nel maggio 2005. A cosa si deve un tale riconoscimento della Casa bianca? Al fatto che questo piccolo paese di 4 milioni di abitanti è divenuto un avamposto della penetrazione Usa nell'Asia centrale ex sovietica: area di enorme importanza sia per le riserve di petrolio e gas naturale del Caspio, sia per la posizione geostrategica tra Russia, Cina e India.
    E' il petrolio del Caspio che alimenta il «faro di libertà» della Georgia. Da qui passa l'oleodotto che collega il porto azero di Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo: un «corridoio energetico» promosso nel 1999 dall'amministrazione Clinton e aperto nel 2005, lungo un tracciato di 1.800 km che aggira la Russia a sud. Per proteggere l'oleodotto, realizzato da un consorzio internazionale guidato dalla britannica Bp, il Pentagono addestra forze georgiane di «risposta rapida». Dal 1997 infatti il «faro di libertà» della Georgia è alimentato da Washington anche con un flusso crescente di aiuti militari. Con il «Georgia Train and Equip Program», iniziato nel 2002, il Pentagono ha trasformato le forze armate georgiane in un esercito al proprio comando. Per meglio addestrarlo, un contingente di 2mila uomini delle forze speciali georgiane è stato inviato a combattere in Iraq e un altro in Afghanistan. Secondo fonti del Pentagono citate dal New York Times (9 agosto), vi sono in Georgia oltre 2.000 cittadini Usa, tra cui circa 130 istruttori militari. Il mese scorso è iniziata in Georgia la «Immediate Response» 2008, esercitazione militare cui partecipano truppe di Stati uniti, Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Armenia. Per l'esercitazione, diretta dal Pentagono, sono arrivati in Georgia circa 1.000 soldati Usa appartenenti alle truppe aviotrasportate Setaf, ai marines e alla guardia nazionale dello stato Usa della Georgia. Sono stati dislocati nella base di Vaziani, a meno di 100 km dal confine con la Russia. Immaginiamo cosa accadrebbe se la Russia dislocasse proprie truppe in Messico a ridosso del territorio statunitense.
    Allo stesso tempo il «faro di libertà» della Georgia è stato alimentato con la «rivoluzione delle rose» che, pianificata e coordinata da Washington, ha portato nel 2003 alla caduta del presidente Eduard Shevardnadze. Secondo il Wall Street Journal (24 novembre 2003), l'operazione fu condotta da fondazioni statunitensi formalmente non-governative, in realtà finanziate e dirette dal governo Usa, che «allevarono una classe di giovani intellettuali, capaci di parlare inglese, affamati di riforme filo-occidentali». Sul piano militare, economico e politico, la Georgia è controllata dal governo statunitense. Ciò significa che l'attacco contro l'Ossezia del sud è stato programmato non a Tbilisi ma a Washington. Gli scopi? Mettere in difficoltà la Russia, vista a Washington con crescente ostilità anche per il suo riavvicinamento alla Cina. Rafforzare la presenza Usa nell'Asia centrale. Creare in Europa un altro focolaio di tensione che giustifichi l'ulteriore espansione della presenza militare statunitense, di cui lo Scudo antimissile è un elemento chiave, e l'allargamento della Nato verso est (tra poco dovrebbe entrare nell'Alleanza, sotto comando Usa, proprio la Georgia). Ciò Washington teme, e cerca di evitare, è un'Europa che, unendosi e acquistando ulteriore forza economica, possa un giorno rendersi indipendente dalla politica statunitense. Da qui la politica del divide et impera, che sta riportando l'Europa in un clima da guerra fredda. Da qui anche i i due pesi e due misure: mentre rivendica, riconosce e difende l'indipendenza del Kosovo dalla Serbia in spregio al rispetto dei confini internazionali - pensate se Belgrado avesse attaccato in armi Pristina a febbraio subito dopo la sua proclamazione unilaterale d'indipendenza -, Washington nega quella dell'Ossezia del sud, ribadendo «il sostegno della comunità internazionale alla sovranità e integrità territoriale della Georgia».

    * Da Il Manifesto del 10 agosto


    ARDITI NON GENDARMI

 

 
Pagina 1 di 7 12 ... UltimaUltima

Discussioni Simili

  1. La guerra del Caucaso: nuova frontiera della guerra infinita
    Di markos nel forum Sinistra Italiana
    Risposte: 2
    Ultimo Messaggio: 11-09-08, 22:34
  2. Tutta L'energia Del Caucaso
    Di ulver81 (POL) nel forum Politica Estera
    Risposte: 3
    Ultimo Messaggio: 23-03-07, 23:16
  3. Attenti al Caucaso!!!
    Di Tremendo nel forum Politica Nazionale
    Risposte: 0
    Ultimo Messaggio: 06-09-04, 22:48
  4. Il grande gioco nel Caucaso
    Di Der Wehrwolf nel forum Etnonazionalismo
    Risposte: 1
    Ultimo Messaggio: 27-01-04, 20:59

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito