del ministro Sacconi

Roma. Un nuovo Welfare intitolato al binomio opportunità-responsabilità, che esca dalle secche dell’assistenzialismo e rafforzi la tutela dell’individuo “dal concepimento alla morte naturale” e che metta costantemente al centro la sua autosufficienza: questo, in sintesi molto estrema, l’oggetto del Libro verde sul futuro del modello sociale presentato pochi giorni fa dal ministro del Lavoro, della Salute e delle Politiche sociali, Maurizio Sacconi.
Ventiquattro pagine dedicate alla “vita buona nella società attiva” che non sono, dice Sacconi al Foglio, “un punto di arrivo ma un punto di partenza: è una proposta sulla quale chiamiamo a una vasta consultazione anche i singoli cittadini che vorranno dire la loro”.

Il testo del documento è consultabile sul sito www.lavoro.gov.it e la consultazione pubblica è aperta fino al prossimo 25 ottobre, con la possibilità di proporre osservazioni e commenti sulla casella di posta elettronica libroverde@lavoro.gov.it.
Una prassi abbastanza inusuale, dal sapore più anglosassone che mediterraneo.
Proprio la settimana scorsa, nota il ministro, “il governo inglese ha prodotto un analogo Libro verde sul mercato del lavoro, che ha come titolo ‘No one written off’, nessuno sia escluso.
E’ una semplice coincidenza.
Per quanto ci riguarda, siamo partiti dalla convinzione che occorra un ripensamento radicale del nostro modello sociale e questa operazione non può essere realizzata solo da un governo. Il modello sociale è parte della costituzione materiale di un paese e quindi il suo ridisegno o almeno i valori e la visione sui quali il modello sociale deve basarsi è bene che siano ampiamente condivisi anche da larga parte dell’opposizione e delle parti sociali”.
I passaggi sono tre: “Il Libro verde apre la consultazione pubblica su ipotesi e pone quesiti per arrivare a un Libro bianco, nel quale si descriveranno più compiutamente i valori e la visione del futuro modello sociale. Si arriverà infine al programma di governo vero e proprio, che sarà nostra responsabilità”.

La visione proposta nel Libro verde – spiega il ministro – ha l’ambizione “di portare a sintesi varie culture che nel corso di questi anni si sono cimentate con il nuovo modello sociale.
Vi si trova soprattutto la riaffermazione della centralità della persona. Può sembrare retorica ma non lo è, perché quella centralità è spesso stata negata dall’autoreferenzialità di molti dei servizi offerti”.
Un male italiano, quello dell’autoreferenzialità, del quale Sacconi è convinto di conoscere l’origine:
“Una premessa personale: appartengo a una storia politica di persone impegnate ad abrogare il Sessantotto e sono convinto che il male italiano non sia così oscuro, ma che discenda dall’anomalia del lungo e strano Sessantotto italiano, per come si è intensivamente prolungato negli anni Settanta e si è propagato fino ai giorni nostri.
Bene, la parola che sintetizza l’anomalo Sessantotto italiano è irresponsabilità, e nichilismo diffuso e cinismo sono le caratteristiche prevalenti dei suoi figli”.

Il Libro verde parla di una crisi del modello sociale italiano che, prima di ogni altra cosa è “crisi culturale e di valori, a partire dal misconoscimento della centralità della persona, dalla insufficiente attenzione alla primaria difesa della vita, dalla ricorrente negazione del ruolo della famiglia”.
Il modello sociale – dice Sacconi – ha pagato le conseguenze di tutto questo “con quell’autoreferenzialità di cui parlavo prima, con la chiusura corporativa, con la negazione della centralità della persona.
L’accento portato dal lato dell’offerta, tendenzialmente tutta pubblica, ha esaltato i vizi del vecchio sistema risarcitorio e segmentato. Questo modello va superato perché è inefficiente ed è insostenibile, sia il bilancio dello stato sia per le famiglie.
Se guardiamo alla sostenibilità economica, il bilancio dello stato è destinato a più che raddoppiare entro il 2050”.
Colpa dell’invecchiamento della popolazione? “Non soltanto. Quell’aspetto pesa e agisce sul sistema previdenziale e sul sistema sanitario. Ma possono pesare anche le nuove tecnologie, se non sono combinate con una forte flessibilità organizzativa e con una forte riconversione, perché altrimenti possono costituire meccanismi di aggravio aggiuntivo”.

Il modello al quale si ispira la proposta del nuovo Welfare è “fondato sull’autosufficienza della persona, sulla ‘vita buona nella società attiva’, perché individui a lungo attivi fanno una società che non solo è più vitale e più competitiva, ma è anche più giusta e più capace di costruire relazioni sociali”. C’è chi ha interpretato la cosa concentrandosi sull’idea della pensione a sessantadue anni… “ed è la vecchia storia del saggio che indica il cielo con un dito e di quelli che guardano il dito.
La società attiva è qualcosa di più che una società nella quale semplicemente si lavora più a lungo nell’arco della vita. E’ innanzitutto la società del riequilibrio demografico, è una società ad alta natalità. E’ una società vitale.
Il primo messaggio che questo Libro verde vuol dare è un messaggio opposto al nichilismo, che noi leggiamo anche nella caduta della natalità.
E’ per questo che dobbiamo abrogare il Sessantotto. Perché dobbiamo abrogare la perfida incultura del declino, del rifiuto del futuro, della sfiducia”.

L’ex socialista Maurizio Sacconi (oggi di Forza Italia) ricorda a questo punto quello che sosteneva negli anni Settanta, il suo “maestro politico”, Gianni De Michelis: “Mi diceva: non devi credere che il ‘sessantottismo’ sia l’alba di una fase nuova. In realtà, è l’ultimo bagliore della società industriale che muore. Io sono rimasto affezionato a questa definizione data ‘in atto’, mentre le cose succedevano, e non oggi, decenni dopo, perché riusciva a cogliere l’aspetto di un Sessantotto ultimo figlio dell’illusione di uno sviluppo infinito.
Credo che sia stato proprio così, e che le derive prodotte dal Sessantotto, la perdita del senso della vita e del senso del futuro, in Italia siano state pagate a prezzi particolarmente alti.
Perché la bassa crescita degli ultimi quindici anni? Perché abbiamo avuto tangentopoli? E perché c’è stato un terrorismo quarantennale, ancora non del tutto risolto?”.

Nelle ventiquattro pagine del Libro verde si respira una certa aria neolaburista. Sacconi puntualizza che “gli influssi sono vari. C’è molta antropologia cristiana, per esempio, e c’è un vitalismo che arriva da più culture diverse. Certo, la sottolineatura della responsabilità individuale è molto ‘new labour’.
Se guardiamo il Libro verde britannico di questi giorni sulla riforma del welfare, vediamo che quell’aspetto è molto enfatizzato. Ma noi non ci preoccupiamo solo della persona isolata, perché entra in gioco in modo esplicito la nostra forte cultura della famiglia: guardiamo alla persona in sé ma anche alle sue proiezioni nelle relazioni, in particolare in quelle familiari”.
Il veneto Sacconi (è nato a Conegliano nel 1950) ha qualcosa da sottolineare, a questo proposito: “La mia terra veneta, che pure si è trasformata addirittura violentemente, se valutiamo l’intensità del fenomeno, da economia agricola a economia industriale, è riuscita a farlo senza traumi. C’è riuscita proprio perché, in quel passaggio, la famiglia è stato uno straordinario ammortizzatore. E perché in Italia non abbiamo avuto le banlieus? Perché abbiamo avuto le famiglie e altri ‘corpi intermedi’, tra i quali annovero la parrocchia come l’associazione di volontariato e l’associazione sindacale, e le più varie situazioni di rappresentanza di interessi”.

Nel Libro verde si dice, del Welfare che (forse) verrà, quanto sia fondamentale la sua capacità “di ‘fare comunità’, a partire dalle sue proiezioni essenziali che sono la famiglia, il volontariato, l’associazionismo e l’ambiente di lavoro, sino a riscoprire luoghi relazionali e di servizio come le parrocchie, le farmacie, i medici di famiglia, gli uffici postali, le stazioni dei carabinieri”.
Secondo Sacconi, “se vogliamo intervenire sull’antropologia della persona, e se vogliamo renderla autosufficiente durante l’intero arco della vita, abbiamo bisogno di riscoprire il territorio e, nel territorio, la comunità. La nostra è stata una società con forti reti comunitarie, che poi, nel tempo, si sono affievolite e burocratizzate. Alcune devianze, infatti, sono già espressione della solitudine che è tipica delle società nordiche, più che della nostra.
E allora dobbiamo rifare comunità, l’altra parola chiave del Libro verde accanto a natalità”.

Nel libro c’è anche il termine “occupabilità”, “che nasce dalla strategia di Lisbona – spiega Sacconi – e che fa il paio con lo stile di vita, per quanto riguarda la salute. Da un lato, vogliamo orientare la persona verso stili di vita che prevengono la malattia. Dall’altro, investiamo sulla persona attraverso la competenza, le conoscenze che la rendono, appunto, ‘occupabile’”.
Un momento: rispetto agli stili di vita, si pensa a qualcosa che assomiglia alla soluzione inglese, la quale discrimina, nelle prestazioni, tra chi smette di fumare e chi non lo fa, o tra chi è “colpevole” di stili di vita insalubre e chi fa le cose giuste?
“Certamente no. Da noi questa impostazione non è né accettabile né proponibile, perché nella nostra cultura l’universalità è un principio fondamentale del Welfare, e la selettività che accompagna l’universalità non arriva al punto di premiare o di punire la responsabilità della persona. Selettività, per noi, significa piuttosto tarare l’intervento sul grado di bisogno. Anche se noi non possiamo non introdurre nel nostro modello sociale il binomio ‘opportunità-responsabilità’. In forme meno ideologiche, però, rispetto al modello inglese”. Il binomio opportunità-responsabilità entra in ballo, invece, con l’idea che una vasta rete di ammortizzatori debba essere usata non in forma assistenziale ma per restituire al lavoro chi ne è stato escluso. Ma deve essere possibile pensare che, se al disoccupato sono offerte due opportunità che vengono rifiutate, allora perde il diritto all’ammortizzatore: “Il binomio opportunità-responsabilità richiede anche qualche deterrenza e qualche penalizzazione, altrimenti non inneschiamo comportamenti virtuosi”.

Bisogna tener conto dell’eccezione italiana, dunque, nel bene e nel male. Nel bene, c’è la centralità della famiglia: “E’, ancora una volta, un modello che troviamo in Veneto e che vede integrati i servizi sanitari e socio-assistenziali mentre sa riconoscere in sussidiarietà la funzione della famiglia.
Per una persona non autosufficiente, per un anziano, per un malato terminale, significa veder riconosciuta la dignità della persona anche nelle fasi più critiche, al termine del ciclo di vita.
Significa poter vivere nell’ambiente in cui si è sempre vissuti, senza che questo significhi scaricare sulla famiglia e sulle donne in particolare, il prezzo di questo intervento solidale.
Occorrono sistemi che sappiamo offrire varie alternative e, tra queste, privilegiare una solida assistenza domiciliare”.
Non è una cosa impossibile da ottenere, a giudizio del ministro, “ e lo dimostra proprio il modello veneto. Il Veneto ha saputo, per primo, chiudere gli ospedali. In anni in cui era ancora più difficile rispetto a oggi, abbiamo affrontato e realizzato la chiusura di tutti gli ospedali mandamentali, che pure erano strumento di identità di un territorio. La chiusura di queste strutture marginali ha consentito non solo di concentrare i servizi che corrispondono all’emergenza acuta e i servizi di eccellenza in alcuni (pochi) plessi, ma ha consentito di organizzare con efficienza la medicina del territorio. In Veneto le strutture territoriali sono solide e fortemente intrecciate con alti tassi di volontariato. Incoraggiati, a loro volta, dal fatto che il sistema li considera adeguatamente. Questa forte protezione territoriale riduce il bisogno di ospedalità e, così facendo, riduce la voce principale del costo sanitario”.

Il ministro Sacconi ha voluto inserire, nel Libro verde, un’eloquente tabella ripresa da un libro di Luca Ricolfi, “Profondo rosso” (lo vediamo in cima alla pila di volumi che il ministro tiene sulla scrivania del suo ufficio in via Veneto):
“Da quella tabella, elaborata su dati di varie fonti ufficiali, vediamo che come, a livello qualitativo, le prestazioni sanitarie in Veneto e in Emilia Romagna sono praticamente uguali, ma a un costo assai più alto in Emilia.
Insomma: il modello appenninico tosco-emiliano è di buona qualità ma, guarda un po’, costa molto di più, perché lì c’è meno vocazione alla sussidiarietà, tutto è molto più pubblico e pubblicistico”. Per non parlare, poi, delle grandi disparità ancora esistenti in “un paese spaccato a metà, con una parte meridionale arretratissima”.

Sacconi respinge l’accusa di voler tagliare la spesa sanitaria, “che invece vogliamo semplicemente riqualificare. In realtà investiremo più soldi, sia nel 2009 sia nel biennio 2010-2011, esattamente cinque miliardi in più, anche per accelerare la riconversione.
Dobbiamo imitare quello che in una parte d’Italia avviene già, passare da un sistema basato tutto su troppi ospedali a una medicina del territorio e della prevenzione, nella quale esistono strutture per l’emergenza.
E dobbiamo rifondare il ruolo del medico di famiglia”. Come? “Con un nuovo e irrobustito percorso di accesso alla professione. Deve passare l’idea della presa in carico della persona, il cui simbolo è il fascicolo sanitario elettronico, che ti accompagna quando dal medico di base si passa a un distretto di medicina territoriale per una visita specialistica o quando si va in un ospedale per un’emergenza”.
Una situazione in cui la sanità non faccia più notizia per gli scandali e gli sprechi, “in cui si affermino le pratiche migliori e si responsabilizzino le gestioni inefficienti. La prima sanzione di una gestione inefficiente è l’aumento della pressione fiscale, che oltre certi limiti non può andare. Dopo, scatta il fallimento politico degli amministratori, il loro commissariamento, la ‘consegna dei libri’ agli elettori. Abbiamo bisogno di interrompere il circolo vizioso, e se arrivano altri soldi per sanare i guai, devono necessariamente essere messi in mano a nuove persone”.

Quella grande riconversione prospettata nel Libro verde, culturale ma con aspetti concretissimi, ha naturalmente bisogno di risorse altrettanto imponenti. Da dove prenderle, se le divora soprattutto il sistema pensionistico? “Questo è senza dubbio un fortissimo condizionamento, e voglio dire che è stata davvero scellerata la decisione del governo che ci ha preceduto, quando ha riaperto la voragine della spesa previdenziale.
Lo dico fuori da polemiche che poco mi interessano.
Ma lo dico perché non si debba ripetere lo stesso errore”.
Crede che ci possa essere questa eventualità, anche con il centrodestra al governo?
“No. Ma se pensiamo che era la Cisl, cioè un sindacato, a chiedere al governo precedente di ‘non riaprire il vaso di Pandora’, capiamo l’entità e la gravità del problema.
Adesso dobbiamo puntare al meglio come modello sociale, e nel ‘meglio’ c’è necessariamente una rigorosa sostenibilità. Un’operazione non facile ma possibile”.

Il ministro Sacconi si rende conto che molte delle speranze di questo nuovo Welfare fanno leva sulle donne? “Direi anzi che la donna è il cardine di questo progetto”.
In concreto?
“Dobbiamo renderci conto dell’equazione, che vale ormai per tutti i paesi industrializzati, fra occupazione femminile e natalità. Dove le donne lavorano di più si fanno più figli, possiamo discutere a lungo sul perché, ma è così”.
Per una società vitale, dove nascano più bambini, è anche necessario, dunque, che le donne lavorino di più.
E poi ci sono i giovani, “e l’anomalia dei giovani-vecchi, come li chiama il demografo Massimo Livi-Bacci, che è l’ultima eredità tutta italiana della lunga stagione nichilista sessantottesca.
Da noi la laurea arriva in media a ventotto anni e senza fare Ingegneria, Fisica o Matematica.
Abbiamo corsi di laurea in Scienza delle comunicazioni che interpretano il ‘tre più due’ costringendo lo studente a un biennio dopo un pessimo triennio.
Una riforma pensata, in buona fede, per anticipare la fine del percorso di laurea e l’ingresso nel mercato del lavoro, finisce per ottenere l’effetto opposto, mentre il rapporto Pisa dice che i nostri studenti hanno un basso livello di conoscenze”.

Soprattutto, questi giovani-vecchi che cominciano a lavorare verso i trent’anni “non hanno il lavoro come parte del loro processo educativo”.
Nel Libro verde c’è un preciso passaggio in cui si dice che il lavoro non deve essere una maledizione o un’attesa delusa, ma deve costituire “fin da subito nel ciclo di vita, la base dell’autonomia sociale delle persone e delle famiglie”. Sacconi aggiunge che bisogna rimediare a una situazione che ha visto “famiglie che hanno compensato una certa distrazione con l’offerta generosa ma ingannevole di beni materiali al posto di scelte educative più impegnative. Si tende a scegliere l’università più facile, fregando se stessi. Gli anni dai venti ai trenta sono diventati quasi di riposo, mentre sono quelli che determinano la vita”.
Pensa al modello dello studente lavoratore, o all’università che integra nel percorso il lavoro?
“Intendo entrambe le cose, e la famiglia deve incoraggiare a esperienze lavorative, nel periodo estivo, dopo i quindici anni. Penso soprattutto a quello che Marco Biagi ha disegnato in modo originale, e cioè l’apprendistato che ti consenta di raggiungere titoli universitari” (del giuslavorista ucciso dalle Brigate rosse, Sacconi ha una foto incorniciata nel suo studio. L’unica, accanto a quella della moglie e del figlio).
“Per la formazione (qualcosa che deve interessare l’intero arco della vita) ora spendiamo moltissimo e malissimo – dice ancora il ministro – ed è il momento di riconoscere la centralità dell’impresa. Il vecchio impianto la negava, noi partiamo dall’idea che l’impresa è il luogo formativo, con opportuni accompagnamenti e con la verifica, non formale, delle conoscenze acquisite”.

Quanto tempo ci vorrà a uscire dal Sessantotto? “Oggi siamo alla battaglia finale, all’ultima chiamata. Se perdiamo, sarà il declino, la serie B. Dobbiamo liberare questo paese, liberarne la vitalità, la voglia di futuro. Abbiamo bisogno dei cambiamenti culturali e strutturali che ho appena descritto. Continueremo certo a litigare sulle pensioni o sulla riforma del mercato del lavoro, ma anche l’opposizione dovrebbe riconoscere che quella è la direzione. Poi, possiamo competere sulla coerenza rispetto agli obiettivi”.

su www.ilfoglio.it del 18 08 08

saluti