Aleksandr Isaevič Solženicyn

«C'è una parola che si usa molto oggi: "anticomunismo". È una parola molto stupida e mal composta perché dà l'impressione che il comunismo sia qualche cosa di primitivo, di basico, di fondamentale. E così, prendendolo come punto di partenza, anticomunismo è definito in relazione a comunismo. Per questo affermo che la parola è stata mal scelta e fu composta da gente che non conosceva l'etimologia: il concetto primario, eterno, è Umanità. Ed il comunismo è anti-Umanità. Chi dice "anti-comunismo", in realtà sta dicendo anti-anti-Umanità. Un costrutto molto misero. Sarebbe come dire: ciò che è contro il comunismo è a favore dell'Umanità. Non accettare, rifiutare questa ideologia comunista, inumana, è semplicemente essere un essere umano. Non è essere membro di un partito.» (Aleksandr Isaevič Solženicyn)



Aleksandr Isaevič Solženicyn Nobel per la letteratura1970


Aleksandr Isaevič Solženicyn (in russo Алекса́ндр Иса́евич Солжени́цын, traslitterato anche come Aleksandr Isaevič Solženitsyn o Aleksandr Isaevich Solzhenitsyn, pronuncia Aliksàndr Saljanìtsin) (Kislovodsk, 11 dicembre1918) è uno scrittore, drammaturgo e storicorusso. Attraverso i suoi scritti ha fatto conoscere al mondo i Gulag, i campi di lavoro sovietici, e, per questo merito, ricevette il Premio Nobel per la letteratura nel 1970 e fu esiliato dall'Unione Sovietica quattro anni dopo. Ritornò in Russia nel 1994. Nello stesso anno fu eletto membro dell'Accademia serba delle arti e delle scienze nel Dipartimento lingua e letteratura.



Biografia [modifica]

In Unione Sovietica [modifica]

Solženicyn passò i primi 56 anni di vita in Unione Sovietica, parte dei quali in "esilio interno" da un gulag all'altro. Fu espulso nel 1970. Ritornò in Russia 24 anni dopo.

I primi anni [modifica]

Aleksandr Solženicyn nacque a Kislovodsk in una famiglia di intellettuali cosacchi, figlio di una giovane vedova, Taisia Solženicyna (nata Ščerbak), il cui padre, un uomo di umili origini che si era fatto da solo, possedeva grosse proprietà nel Kurban, a nord delle colline del Caucaso. Durate la prima guerra mondiale Taisia andò a studiare a Mosca, dove incontrò Isaakij Solženicyn, un giovane ufficiale dell'esercito, anche lui originario del Caucaso (la sua famiglia è restituita in maniera vivida nei capitoli d'apertura di Agosto 1914 e nel ciclo di racconti Red Wheel). Nel 1918 Taisia rimase incinta, tre mesi dopo Isaakij fu ucciso in un incidente di caccia. Aleksandr è cresciuto in povertà con la madre e una zia a Rostov; i suoi primi anni di vita coincidono con la guerra civile russa e a causa del regime le proprietà di famiglia furono espropriate e trasformate in un kolchoz nel 1930. Solženicyn ha affermato che sua madre combatteva per sopravvivere e non disse a nessuno del passato di suo padre nell'esercito imperiale. Taisia lo incoraggiò sempre nei suoi studi scientifici e letterari; morì nel 1940.
Solženicyn avrebbe voluto andare all'università di Mosca, ma la salute precaria della madre e le condizioni economiche in cui versava la famiglia non gli permisero di trasferirsi nella capitale, quindi si iscrisse alla facoltà di matematica dell'università di stato di Rostov (si laureerà nel 1941), e allo stesso tempo frequentò per corrispondenza i corsi dell Istituto universale per gli studi di Filosofia, Letteratura e Storia di Mosca, in questo periodo di regime molto influenzato ideologicamente; come lui stesso chiarificò, non mise mai in dubbio l'ideologia di stato o la superiorità dell'Unione Sovietica prima di entrare nel gulag[citazione necessaria]. Costretto ad abbandonare gli studi partì per la seconda guerra mondiale e divenne comandante di artiglieria dell'armata rossa. Inizialmente, a causa della sua salute cagionevole, fu assegnato in un posto lontano dal fronte, ma poi venne trasferito in Prussia Orientale (grazie alle conoscenze qui acquisite pubblicò poi una delle sue opere più rilevanti Agosto 1914). Fu coinvolto in combattimenti al fronte e decorato due volte. Nel febbraio del 1945 fu arrestato per aver criticato Stalin in una lettera privata ad un amico e condannato a otto anni di campo di lavoro in un permanente esilio.

La prigionia nei gulag [modifica]


Aleksandr Solženicyn durante una perquisizione in un gulag (1953 circa)


« Per fare le camere a gas, ci mancava il gas »
Solženicyn scontò la prima parte della condanna facendo diversi lavori, la "fase intermedia", come la chiamò lui stesso, la passò in una sharashka, uno speciale centro per le ricerche scientifiche avviato dal Ministero per la sicurezza di stato. Quest'esperienza riemerge in Il primo cerchio, pubblicato nel 1968. Nel 1950 fu trasferito in un campo speciale per i prigionieri politici. Durante la sua permanenza nel campo della città di Ekibastuz in Kazakistan lavorò come minatore, muratore e operaio in una fonderia; da quest'esperienza trarrà Un giorno nella vita di Ivan Denisovich.
Dal marzo 1953 Solženicyn inizia una fase di esilio a Kok Terek, nel sud del Kazakistan. Si ammalò di tumore ma non gli venne diagnosticato e alla fine dell'anno andò vicino alla morte. Nel 1954 gli fu permesso di essere curato nell'ospedale di Taškent. Da quest'esperienza scrisse il romanzo Padiglione cancro e qualche eco c'è anche nel racconto The right hand. Fu durante questa decade di prigionia ed esilio che Solženicyn abbandonò il marxismo per posizioni più filosofiche e religiose; questo cambiamento trova un interessante parallelo in Dostoevskij e alla sua ricerca delle fede nel periodo passato in un carcere in Siberia un centinaio di anni prima. Tale cambiamento è descritto nell'ultima parte di Arcipelago Gulag.
Durante questi anni di esilio, e nella seguente commutazione della pena capitale e ritorno nella Russia Europea, Solženicyn, mentre di giorno faticava o insegnava nella scuola secondaria, passava le notti scrivendo segretamente.

Solženicyn scrittore e l'esilio dalla Russia [modifica]

« Fino al 1961 non solo ero convinto che non avrei mai dovuto vedere una sola mia linea stampata nella mia vita, ma, anche, a stento osai permettere ad alcune delle mie più vicine conoscenze di leggere quello che scrissi perché temevo che si venisse a sapere[1] »
Finalmente, a quarantadue anni, avvicinò il poeta e capo redattore del Novyj Mir Aleksandr Tvardovskij col manoscritto di Un giorno nella vita di Ivan Denisovich. Il romanzo venne pubblicato nel 1962 con l'esplicita approvazione di Nikita Chruščёv - Tvardovskij capì che era necessario per un romanzo di quel genere - e rimase l'unico lavoro Solženicyn pubblicato in Russia fino al 1990.
Un giorno nella vita di Ivan Denisovich ebbe molto successo (venne addirittura paragonato alla Casa dei morti di Dostoevskij) portò i gulag all'attenzione dell'occidente. Provocò molte reazioni anche in Unione Sovietica non solo per il crudo realismo e la franchezza, ma anche perché era il maggior romanzo di argomento politico nella letteratura sovietica dagli anni venti, scritto da un membro esterno ai partiti, addirittura da un uomo che era stato in Siberia per "discorsi diffamatori" (la lettera su Stalin) sui leaders politici, senza per questo subire censura. In questo senso la pubblicazione del romanzo fu un esempio quasi senza precedenti di libertà, un affrontare liberamente la politica attraverso il mezzo letterario. Molti lettori sovietici lo capirono, ma dopo che Chruščёv fu cacciato dal potere nel 1964, il tempo per tali romanzi si avviò lentamente verso la fine. Solženicyn non si arrese e tentò, con l'aiuto di Tvardovskij, di pubblicare Padiglione cancro in Unione Sovietica. Questo doveva però essere approvato dall'Unione degli Scrittori Sovietici, e sebbene molti lo apprezzarono, fu negata la pubblicazione in quanto non corretto e libero dal sospetto di insinuazioni e affermazioni antisovietiche (questo momento decisivo è documentato in La quercia e il vitello: saggi di vita letteraria).
La stampa di questo lavoro fu rapidamente fermata; dato che era uno scrittore, divenne una non-persona, e, nel 1965, il KGB sequestra molti dei suoi manoscritti, compreso quello di Il primo cerchio. Nel frattempo Solženicyn continua segretamente il febbrile lavoro ad uno dei suoi romanzi più sovversivi, il monumentale Arcipelago Gulag. Il sequestro di questo manoscritto lo fece inizialmente disperare, ma gradualmente essere libero dalla pretesa di essere uno scrittore "ufficialmente acclamato", lo fece avvicinare alla sua seconda natura, la quale fu sempre più irrilevante. Come sia sopravvissuto in questo periodo, senza alcuna entrata dalle sue pubblicazioni, sono oscure, dato che abbandonò il suo posto di insegnante quando sfondò come scrittore.
Nel 1970 Solženicyn fu insignito del Premio Nobel per la letteratura. A quel tempo non poté ricevere personalmente il premio a Stoccolma, perché temeva di non poter più ritornare dalla sua famiglia in Unione Sovietica una volta andato in Svezia. Propose di ricevere il premio in una speciale cerimonia all'ambasciata svedese a Mosca. Il governo svedese però rifiutò l'offerta perché tale cerimonia e la conseguente copertura mediatica potevano turbare il governo sovietico e quindi le relazioni diplomatiche con la Svezia. Alla fine Solženicyn ricevette il Premio Nobel nel 1974 dopo essere stato espulso dall'Unione Sovietica.
Arcipelago Gulag è un saggio narrativo, fra le più lucide e complete denunce dell'universo concentrazionario. Oltre alla propria esperienza personale, Solženicyn raccolse le testimonianze di altri 227 ex prigionieri e condusse alcune ricerche sulla storia del sistema penale sovietico. Il saggio tratta delle origini dei gulag all'epoca di Lenin e la vera creazione del regime comunista, descrivendo nei dettagli la vita nei campi di lavoro, gli interrogatori, il trasporto dei prigionieri, le coltivazioni nei campi, le rivolte dei prigionieri e la pratica dell'esilio interno. La pubblicazione del libro in occidente portò la parola gulag nel vocabolario della politica occidentale e gli garantì una veloce punizione da parte delle autorità sovietiche.
Solženicyn, a causa della sua popolarità in occidente, si guadagnò l'inimicizia del regime sovietico. Avrebbe potuto emigrare anche prima dell'espulsione, ma aveva sempre espresso il desiderio di restare nella sua madrepatria e lavorare dal suo interno per cambiarla. In questo periodo fu difeso dal violoncellistaMstislav Rostropovič, che a causa del suo supporto con Solženicyn fu costretto ad esiliare.
Il 13 febbraio del 1974 Solženicyn fu deportato dall'Unione Sovietica alla Germania Ovest e privato della cittadinanza russa. Il KGB trovò il manoscritto della prima parte di Arcipelago Gulag. Proprio qualche ora prima che venisse arrestato e mandato in esilio, il 12 febbraio 1974, Solženicyn scrisse forse la sua opera più siglificativa, l'appello "Vivere senza menzogna". Meno di una settimana dopo i sovietici fecero una rappresaglia contro Evgenij Evtušenko per li suo appoggio a Solženicyn.

In occidente [modifica]

Dopo qualche tempo passato in Svizzera si trasferì negli Stati Uniti invitato dalla Stanford University per "facilitare [il suo] lavoro e ospitare la sua famiglia". Andò ad abitare all'undicesimo piano della Hoover Tower, parte dell'Hoover Institute. Solženicyn si trasferì a Cavendish, nel Vermont, nel 1976. L'8 giugno1978 gli venne conferita una laurea ad honorem in letteratura dalla Harvard University al conferimento della quale tenne un famoso discorso[2] di condanna alla cultura occidentale.
Nei successivi diciassette anni Solženicyn lavora alacremente nel suo ciclo di quattro romanzi storici La ruota rossa completati nel 1992, all'infuori di questo portò a termine altri lavori più brevi.
Nonostante l'entusiasmo con cui fu accolto negli Stati Uniti, seguito dal rispetto per la sua vita privata, Solženicyn non si sent' mai a casa fuori dalla sua madrepatria. Il suo inglese non divenne mai scorrevole nonostante i vent'anni passati in America, anche se lesse i sui lavori in inglese fin dalla sua giovinezza incoraggiato dalla madre. Più importante, lui sdegnò l'idea di diventare una star mediatica e di addolcire le sue idee e il suo modo di parlare per adeguarsi al linguaggio televisivo.
Gli avvertimenti di Solženicyn sul pericolo di aggressioni comuniste e l'indebolimento della tempra morale dell'occidente sono generalmente ben accolte dagli ambienti conservatori occidentali, e ben si adattano alla durezza della politica estera di Reagan, ma i liberali e i laicisti sono sempre più critici e lo considerano un reazionario per il suo patriottismo e per essere ortodosso. Viene anche criticato per la sua disapprovazione della bruttezza e insipidità spirituale della dominante cultura pop, incluse la televisione e la musica rock.
« L'anima umana desidera cose più elevate, più calde e più pure di quelle offerte oggi ala massa... dallo stupore televisivo alla musica insopportabile. »

Ritorno in Russia [modifica]





Nel 1990 la cittadinanza sovietica di Solženicyn fu ripristinata e nel 1994 ritornò in Russia con sua moglie Natalia, che era diventata cittadina statunitense. I loro figli restarono negli Stati Uniti (più tardi il più vecchio, Ermolay, ritornò in Russia per lavorare per il Moscow office of a leading management consultancy firm). Da quel momento Solženicyn ha vissuto con la moglie in una dacia a Troitse-Lykovo (Троице-Лыково) ad ovest di Mosca, tra le dace di Michail Suslov e Konstantin Černenko.
Dal suo ritorno in Russia nel 1994, Solženicyn ha pubblicato otto racconti brevi, una serie di "miniature" o poesie in prosa, le memorie dei suoi anni in occidente e la storia in due volumi delle relazioni tra russi ed ebrei (Due secoli insieme). In quest'ultimo lavoro Solženicyn rifiuta l'idea che le rivoluzioni russe del 1905 e del 1917 furono il risultato di una cospirazione ebrea.[3] Nello stesso tempo però accusa sia i russi che gli ebrei di aver avuto rapporti con persone che agirono in complicità col regime comunista.
L'accoglienza di questo lavoro conferma la figura polarizzante di Solženicyn sia in patria che all'estero. Secondo i critici il libro conferma le idee antisemite di Solženicyn e della superiorità della Russia sulle altre nazioni. Il professor Robert Service della Oxford University ha difeso Solženicyn definendolo "assolutamente corretto", notando che Lev Trotsky stesso rivendicò la sproporzione rappresentata nella burocrazia sovietica.[4]
Un altro famoso dissidente russo, Vladimir Vojnovič, scrisse un polemico studio dal titolo Ritratto in posa da mito dal quele emerge un Solženicyn egoista, antisemita e poco abile nello scrivere. Voinovich canzonò Solženicyn anche nel suo romanzo Mosk'a 2042 (Москва 2042), ritraendolo con l'egocentrico Sim Simich Karnalov, un estremo, brutale e dittatoriale scrittore che cerca di distruggere l'Unione Sovietica e, alla fine, diventa il re della Russia. Usando una sottile argomentazione, Joseph Brodsky nel suo saggio Catastrophes in the Air (in Less than One) asserisce che Solženicyn, mentre era un eroe nel palesare le brutalità del comunismo sovietico, non riuscì a vedere la probabilità che i crimini storici che lui ha portato alla luce siano la conseguenza del carattere autoritario ereditato dalla della vecchia Russia e dello "spirito severo dell'Ortodossia" (idolatrato Solženicyn), non imputandoli quindi all'ideologia politica.
I suoi scritti politici più recenti, come Come ricostruire la Russia? (1990) e Russia in collapse (1998) Solženicyn critica gli eccessi oligarchici della nuova democrazia russa opponendo una nostalgia per il comunismo sovietico. Difende inoltre il moderato e autocritico patriottismo (come opposizione ad un estremo nazionalismo), indispensabile per l'autonomia locale in una Russia libera e manifesta preoccupazione per il destino dei venticinque milioni di russi negli stati dell'ex Unione Sovietica. Chiede inoltre che venga protetto il carattere nazionale della Chiesa ortodossa russa e lotta contro l'ammissione di preti cattolici e pastori protestanti in Russia da altri paesi. Per un breve periodo condusse un programma televisivo dove espresse brevemente le sue opinioni. Tale programma fu sospeso a causa dei pochi ascolti, ma Solženicyn continuò a mantenere un relativo alto profilo nei media.
Tutti i figli di Solženicyn sono cittadini statunitensi. Uno, Ignat, è un acclamato pianista e direttore d'orchestra.
Dalla morte di Naguib Mahfouz nel 2006 Solženicyn è il più anziano Nobel per la letteratura vivente.
La più completa edizione (30 volumi) delle opere di Solženicyn è in corso di pubblicazione in Russia. La presentazione dei primi tre volumi ha avuto luogo a Mosca.
Il 5 giugno2007 il presidente russo Vladimir Putin conferì un premio a Solženicyn. Il presidente Putin si è recato personalmente a casa di Solženicyn per consegnargli il premio il 12 giugno2007.

Visioni storico-politiche [modifica]


Visioni storiche [modifica]

Durante gli anni passati in occidente Solženicyn diede vita ad un intenso dibattito sulla storia della Russia, l'Unione Sovietica e il comunismo cercando di correggere quelli che considerava essere malintesi dell'occidente.

Comunismo, Russia e nazionalismo [modifica]

È una popolare opinione che la Rivoluzione d'ottobre del 1917 sfociata in un violento regime totalitario fu strettamente connessa alla storia della russia zarista, specialmente nelle figure di Ivan il Terribile e Pietro il Grande. Solženicyn afferma che questo è fondamentalmente sbagliato ed ha liquidato il lavoro di Richard Pipes come "visione polacca della storia russa"[citazione necessaria]. Secondo Solženicyn la Russia zarista non aveva le stesse tendenze violente dell'Unione Sovietica. Nella visione di Solženicyn la Russia imperiale non praticava la censura[citazione necessaria], i prigionieri politici obbligati al lavoro forzato e nella Russia zarista erano un decimillesimo rispetto a quelli dell'Unione Sovietica[citazione necessaria]; il servizio segreto dello zar era presente in sole tre grandi città, e non in tutto l'esercito[citazione necessaria]. La violenza del regime comunista non era in nessun modo comparabile con quella minore degli zar[5].
Lui ritiene una forzatura biasimare le catastrofi russe del ventesimo secolo con zar del sedicesimo e diciottesimo secolo quando ci sono molti altri esempi di violenza che possono aver ispirato i bolscevichi, e specialmente quello dei giacobini nel Periodo del terrore in Francia.
Invece di biasimare le condizioni russe, accusa gli insegnamenti di Karl Marx e Friederich Engels sostenendo che il marxismo stesso è violento[citazione necessaria]. Le sue conclusioni sono che il comunismo è sempre essere totalitario e violento ovunque sia praticato[citazione necessaria]. Non c'era niente di particolare nelle condizioni russe che abbia portato a quel risultato.
Critica anche l'idea che l'Unione Sovietica fosse russa in ogni suo aspetto, sostenendo che il comunismo era internazionale ed era scopo del nazionalismo usarlo come uno strumento per ingannare il popolo. Una volta al potere il comunismo tenta di cancellare ogni nazione, distruggendo la sua cultura e opprimendo il popolo.
Secondo Solženicyn la cultura e il popolo russo non erano dominanti della cultura nazionale dell'Unione Sovietica, dove non c'era una vera e propria cultura predominante perché oppressa in favore di una cultura ateistica sovietica; quando il regime sconfisse la paura di ribellioni da parte delle minoranze etniche ne oppresse anche la loro cultura. Quindi, il nazionalismo russo e la chiesa ortodossa non dovevano essere considerate una minaccia per l'occidente, ma piuttosto come alleati che dovevano essere incoraggiati.[6]

Seconda guerra mondiale [modifica]

Solženicyn criticò gli alleati per il ritardo con cui aprirono un nuovo fronte in occidente contro la Germania nazista, un ritardo che fu determinante per la dominazione e l'oppressione sovietica nelle nazioni dell'Europa orientale. Solženicyn sostiene che le democrazie occidentali si siano solo apparentemente curate dei morti nell'est, finché poterono finire la guerra velocemente e indolormente per loro in occidente[citazione necessaria].

Stalinismo [modifica]


Stalin e Lenin nel 1919


Solženicyn non era dell'idea che Stalin fosse il creatore di uno stato totalitario. Sosteneva infatti e Lenin e Trotsky i "veri comunisti". A prova di questo il fatto che Lenin cominciò le esecuzioni di massa, distrusse l'economia, fondò la Čeka che più tardi si chiamerà KGB e istituì i gulag sebbene al tempo non avessero lo stesso nome.

Guerra del Vietnam [modifica]

Nel suo discorso all'Harvard University nel 1978 Solženicyn dichiara che molti negli Stati Uniti non capiscono la guerra del Vietnam. Anche se ci sono molti pacifisti che sostengono la necessarietà di fermare la guerra il più presto possibile, loro diventano complici "del genocidio e la sofferenza oggi imposta a trenta milioni di persone". Retoricamente domanda se i pacifisti americani capiscano le conseguenze che le loro azioni hanno in Vietnam chiedendo "Questi pacifisti convinti ora sentono i gemiti del loro Vietnam?"[7]
Durante il soggiorno in occidente Solženicyn fece poche ma severe dichiarazioni pubbliche attirandosi anche alcune critiche, in particolare da Daniel Ellsberg che lo considerava un traditore[citazione necessaria].

Guerra del Kosovo [modifica]

Solženicyn ha duramente condannato i bombardamenti della NATO in Jugoslavia nel 1999 dicendo che "non ci sono differenze tra la NATO e Hitler".[8]

L'occidente [modifica]

« Finché non sono venuto io stesso in occidente e ho passato due anni guardandomi intorno, non avevo mai immaginato come un estremo degrado in occidente abbia fatto un mondo senza volontà, un mondo gradualmente pietrificato di fronte al pericolo che deve affrontare... Tutti noi stiamo sull'orlo di un grande cataclisma storico, un'inondazione che ingoierà le civiltà e cambierà le epoche.[9] »

Il mondo moderno [modifica]

Solženicyn descrisse i problemi sia dell'oriente che dell'occidente come "un disastro" radicato nell'agnosticismo e nell'ateismo, riferendosi alla "calamità di un'autonoma irreligiosa coscienza umanistica"[citazione necessaria].
« Ha fatto un uomo su misura di tutte le cose sulla terra - uomo imperfetto, che non è mai libero da orgoglio, interesse personale, invidia, vanità e da dozzine di altri difetti. Ora stiamo pagando gli errori che non si sono valutati correttamente all'inizio del viaggio. Sulla direzione dalla rinascita ai nostri giorni abbiamo arricchito la nostra esperienza, ma abbiamo perso il concetto di un'entità completa suprema che ha trattenuto le nostre passioni ed la nostra irresponsabilità.[10] »

Bibliografia [modifica]
Filmografia [modifica]

Conversazioni con Solženicyn. Documentario in 4 parti da 45 minuti ciascuna realizzato nel 1998 da Aleksandr Sokurov

Note [modifica]
  1. ^Fondazione NobelDal "discorso di Harvard" (in lingua originale)
  2. ^ Aleksandr Isaevic Solzenicyn. Due secoli insieme. Controcorrente, 2007. ISBN 883391362, capitoli 9, 14 e 15.
  3. ^ Walsh, Nick Patron. Solženicyn breaks last taboo of the revolution, The Guardian, 05.01.2003 ^ In Arcipelago Gulag l'autore confronta spesso le condizioni di vita dei reclusi e il numero dei condannati a morte del periodo comunista e del periodo degli zar
  4. ^ Per il rapporto tra Solženicyn e il nazionalismo russo vedi Rowley, David G. Alexandr Solzhenitsyn and Russian Nationalism in Journal of Contemporary History, col. 32, n°3 (luglio 1997), pp. 321-337
  5. ^Dal "discorso di Harvard" (in lingua originale)^ [http:/www.suc.org/news/tanjung/b030699_s.html#P13 (in yugoslavo)] ^ Discorso alla BBC del 26 marzo 1979
  6. ^Dal "discorso di Harvard" (in lingua originale)
http://it.wikipedia.org/wiki/Aleksan...ol%C5%BEenicyn


LA GRANDEZZA DI UN INATTUALE

di Vittorio Strada


da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio


La scena attuale del mondo è attraversata da una ridda di personaggi che ne occupano per qualche istante la parte centrale, recitando il loro effimero ruolo, senza che un forte testo drammatico ne illumini il significato. Sarebbe eccessivo, di fronte ad un simile squallore, rimpiangere un passato ricco di tragedie, ma neppure esso privo di farse. E’ però indegno il fastidio che spesso viene mostrato verso le residue figure di un’epoca fatta di autentiche grandezze, oltre che di autentiche miserie, e ormai consegnata alla storia, anzi alla revisione della falsa storia che ne è stata per lo più fatta. Una di queste figure, forse l’ultima, è Aleksandr Solzenicyn. Che l’autore dell’Arcipelago Gulag sia stato odiato dai suoi avversari diretti, i comunisti, è comprensibile e che, anche dopo la fine storica del comunismo, continui ad essere malvisto, o trattato con sufficienza, dai loro eredi è cosa che lascia indifferenti. E’ spiacevole, invece, che, al di fuori di quella cerchia particolare, il senso e il valore dell’opera di Solzenicyn spesso non siano adeguatamente compresi.

Aleksandr Solzenicyn è uno scrittore complesso e singolare, non inseribile nel grafico del movimento letterario a lui contemporaneo. Va considerato come una grande anomalia resa possibile da quella enorme anomalia che è stata la catastrofica esperienza storica del suo paese nel secolo scorso. Infatti, se ora che il ciclo storico iniziato nell’ottobre 1917 è sostanzialmente chiuso, consideriamo la vicenda comunista sovietica, che pure è stata al centro della storia mondiale, è difficile vederla altrimenti che come una grandiosa e tragica “deviazione” da quel corso di sviluppo in cui, all’inizio del XX secolo, anche la Russia sembrava entrata. Questa affermazione richiederebbe un approfondimento storico-teorico che qui è impossibile. Ma almeno l’impressione di una forte “eccezionalità” della vicenda sovietica, della “civiltà” totalitaria e concentrazionaria, nata come “scientifica” utopia, credo possa essere sentita da molti.

Aleksandr Solzencyn, figlio di questa “civiltà”, marxista e leninista in adolescenza, è stato colui che, novello San Giorgio, ha sfidato il drago comunista e ha collaborato a debellarlo. La sua lancia è stata la letteratura, una letteratura che era qualcosa di più della letteratura (e non qualcosa di meno). Egli non è stato uno scrittore “impegnato”, nel senso triviale di questa espressione. E’ stato uno scrittore dalla coscienza e dall’intelligenza libera che ha svolto un lavoro letterario unico, andando dal felice esordio di “Una giornata di Ivan Denisovic” alle belle memorie letterarie di “La quercia e il vitello” al monumentale, dantesco “Arcipelago Gulag” per giungere, infine, al ciclo storico della “Ruota rossa”. Anche oggi che il palcoscenico è popolato da infinite figure minori, non si può non riconoscere a Solzenicyn quel che è di Solzenicyn: la sua “inattuale” grandezza.

Altre banalità correnti: Solzenicyn Profeta, Solzenicyn Vate, Solzenicyn Predicatore, addirittura Solzenicyn Ayatollah, come un “progressista” russo, ancora ai tempi di Breznev e Gorbaciov, lo definì: quasi un Khomeini russo. Più in basso arrivò qualche “progressista” occidentale che, all’unisono col Kgb, lo qualificò “fascista” in nome, naturalmente, dell’antifascismo sovietico del Gulag. L’ultimo segretario del Pcus Michail Gorbaciov lo tacciò di essere un nostalgico della monarchia zarista. Antisemita: ecco un’altra accusa già usata contro di lui e ripresa di recente dopo il suo ultimo libro “Due secoli insieme” sui rapporti tra l’ebraicità e la Russia. Chi è, insomma, questo “mostro”, al quale simpatizzanti del terrorismo vorrebbero far togliere il Premio Nobel a suo tempo assegnatogli?

Il motto etico-intellettuale proclamato e seguito da Solzenicyn è stato “vivere fuori dalla menzogna”. Il che sembrerebbe l’equivalente di “vivere nella verità”. Ma quest’ultimo motto sarebbe presuntuoso e dogmatico, proprio di tutti gli assolutismi di vario colore, contro il maggiore dei quali Solzenicyn si batté. Che Solzenicyn abbia individuato la menzogna maggiore (non l’unica, naturalmente) del nostro tempo, quella che opprimeva il suo paese, e l’abbia denunciata con una forza d’intelligenza e d’animo esemplare, è certo. Che egli si sia impegnato con coerenza e passione non comuni nella ricerca della verità e, per quel che riguarda la sua forma più alta, quella religiosa, l’abbia trovata nel cristianesimo, anche questo è indubbio. Un cristianesimo orientale-ortodosso, libero da ogni clericalismo e anzi critico verso certe espressioni della politica della Chiesa russa. Tutto il resto è opinabile, cioè le verità parziali (politiche, letterarie, eccetera) di Solzenicyn sono discutibili come quelle di chiunque, senza che si debba trasformarle in enunciazioni intoccabili. Il fatto è, però, che ciò che per lo più Solzenicyn dice, a differenza di tante trivialità correnti, è degno di discussione, di una discussione adeguata, naturalmente, con cognizione di causa e con serietà d’intento.

Ha vinto Solzenicyn? O esce di scena sconfitto, sia pure con l’onore delle armi? Crollato ignominiosamente il drago con cui si era battuto, questo San Giorgio, a differenza del personaggio della leggenda agiografica, non è stato un trionfatore e nella Russia postsovietica, pur liberata dal giogo comunista, questo liberale conservatore non ha potuto trovare appagamento, ma motivo di una nuova azione critica. Ma chi può cantare vittoria, quando, anche senza fare del catastrofismo, tanti motivi di incertezza, d’ansia, di preoccupazione non abbandonano una coscienza sobria? Di Aleksandr Solzenicyn tuttavia si può dire che egli ha realizzato le sue potenzialità creative, lasciando un’opera che come poche altre ha segnato un’epoca. Se si dovesse indicare un’altra figura cui egli potrebbe idealmente affiancarsi, credo che, oltre a un altro cristallino testimone del nostro tempo come Andrej Sacharov (per quanto da Solzenicyn assai diverso), l’unica sia quella di Giovanni Paolo II nel primo periodo del suo pontificato. Ma il Pontefice, a parte le sue doti personali, ha avuto il sostegno, spirituale e materiale, della Chiesa. Aleksandr Solzenicyn è stato solo. Solo con quegli ex deportati dei Lager comunisti come lui che lo hanno aiutato a raccogliere il materiale per l’Arcipelago Gulag, e con le persone che gli sono state più vicine. Solitudine relativa, tanto più che accanto egli ha sentito il suo popolo martoriato, la passata grandezza della sua letteratura e la speranza di un nuovo futuro.



UN’IDEA DELLA LIBERTÀ



di Aleksandr Solzenicyn


da Ideazione 1-2002, gennaio-febbraio. Traduzione di Dianella Gambini


Testo tradotto del discorso che Solzenicyn pronunciò il 1 giugno 1976 presso la Hoover Institution (Stanford University, California) in occasione del conferimento dell’American Friendship Award, riconoscimento promosso dalla Liberty Foundation.

Sono profondamente commosso dalla vostra decisione di conferirmi il premio da voi tradizionalmente assegnato. Lo accetto con gratitudine e con il sentimento di aver contratto un impegno nei confronti dell’altissimo ideale che vive nel nome della vostra organizzazione e che rappresenta il simbolo che ci vede oggi qui riuniti. Di tale simbolo mi occuperò nel discorso di replica alla concessione del premio. Nella situazione attuale è assai facile dare libero corso alla retorica contro i foschi abissi del totalitarismo e cantare le lodi delle splendenti fortezze della libertà occidentale. Invece, è molto più difficile, ma anche più produttivo, sottoporre noi stessi ad un acuto esame. Nel mondo, il numero dei sistemi socialmente liberi diventa sempre più esiguo e, soltanto negli ultimi tempi, grandi continenti che hanno raggiunto la libertà, si vedono trascinati ai margini della tirannia. La colpa di tutto ciò non è solo dei totalitarismi, che impediscono alla libertà di svilupparsi, ma anche, con tutta evidenza, degli stessi sistemi libertari, che hanno perduto, nell’intimo, parte del loro vigore e della loro stabilità.

I vostri e i miei giudizi riguardo a fatti e avvenimenti si basano su esperienze di vita diverse. Questo è il motivo per cui possono divergere profondamente tra loro. Ma proprio la differenza dei punti di vista potrebbe aiutarci a conoscere il tema nelle sue più ampie dimensioni. Vorrei vantarmi di essere riuscito ad attrarre la vostra attenzione su certi aspetti della libertà che pur non appartenendo alle conversazioni di moda, non per questo cessano di avere importanza ed influenza. L’idea della libertà è difettosamente concepita se non diamo valore alle mete vitali della nostra esistenza terrena. Credo che gratificarci in modo illimitato con beni materiali non può rappresentare l’obiettivo della nostra vita; dobbiamo lasciare questo mondo purificati, migliori di quanto siamo a causa del retaggio dei nostri istinti. Dovremmo orientare il corso della vita lungo il cammino dell’arricchimento e del perfezionamento dello spirito. Solo il sommarsi di questi passi spirituali può essere definito progresso spirituale dell’umanità.

Partendo da questi presupposti, la libertà esterna non è la meta finale dei popoli e delle società, ma solo un mezzo che favorisce l’autentico sviluppo. Non è altro che la possibilità di vivere un’esistenza umana e non animale, la cornice entro la quale l’uomo può svolgere meglio la propria missione terrena. Ma per arrivare a questo, la libertà non è l’unica condizione necessaria. Non meno che della libertà esterna, l’uomo ha bisogno di uno spazio in cui potersi concentrare intellettualmente e moralmente e dove il suo spirito possa svilupparsi. Purtroppo, l’attuale forma civilizzata di libertà ci concede un tale spazio solo a costo di un grande impegno. E’ deplorevole che, rispetto a epoche anteriori, negli ultimi decenni l’idea di libertà sia stata così tanto demolita e svuotata. Il concetto si è quasi esclusivamente ridotto a libertà dalle pressioni esterne e dalla costrizione statale. La libertà è ormai intesa come concetto meramente giuridico.

Libertà, dunque, è la “libertà” di sporcare con rifiuti commerciali le cassette della posta, gli occhi, le orecchie, i cervelli degli uomini e le trasmissioni televisive, al punto che è impossibile vederne una dall’inizio alla fine senza interruzioni. “Libertà” di sputare pubblicità e propaganda sugli occhi e sulle orecchie dei pedone e degli automobilisti. “Libertà” degli editori di riviste e dei produttori di cinema di portare sulla strada sbagliata le nuove generazioni con immagini provocanti ed equivoche. “Libertà” dei giovani fra i quattordici ed i diciotto anni, che stanno crescendo, di abbandonarsi all’ozio e ai piaceri fatui, invece di imboccare la via del vero impegno e della crescita morale. “Libertà” delle persone giovani e sane di dedicarsi a nessun lavoro e di vivere alle spalle della società. “Libertà” degli scioperanti di usurpare diritti e di privare il resto dei cittadini di una vita normale, del lavoro, dei mezzi di trasporto e persino dell’acqua e degli alimenti. “Libertà” di presentare in tribunale testimoni di comodo anche quando l’avvocato sa che il proprio assistito è colpevole. “Libertà” di interpretare in modo così estremistico le regole assicurative da trasformare in usura persino l’azione di un samaritano. “Libertà” di volgari scrittorelli d’occasione, irresponsabilmente portati a trattare in modo superficiale i problemi, formando così l’opinione pubblica in modo frettoloso. “Libertà” del fabbricante di pettegolezzi, che riesce ad impedire al giornalista, per calcolo egoistico, di avere pietà del suo prossimo e della sua patria. “Libertà” di divulgare i segreti militari e di sicurezza del proprio paese al fine di perseguire fini politici personali. “Libertà” dell’uomo d’affari nelle transazioni commerciali, insensibile al numero di esseri umani che potrebbero essere pregiudicati dalle stesse e al danno che potrebbe arrecare alla patria. “Libertà” del politico di parlare irriflessivamente di ciò che piace ai lettori di oggi, senza curarsi della loro sicurezza e del loro benessere futuri. “Libertà” dei terroristi che sfuggono alla pena, il che significa che la pietà nei loro confronti si trasforma in una sentenza di morte nei riguardi della società. “Libertà” di restare indifferenti dinnanzi ad una libertà lontana, straniera, che sia stata calpestata. “Libertà” di non difendere neppure la propria libertà: “che siano gli altri a rischiare la pelle!”.

Tutte queste libertà, spesso giuridicamente inattaccabili, sono tuttavia moralmente false. Gli esempi fatti permettono di osservare che la somma di tutti i diritti alla libertà è ancora molto lontana dalla libertà dell’uomo e della società. Quest’ultima potenzialmente si realizza solo in altre forme. Tutte quelle menzionate sono forme subordinate di libertà, affatto elevate, precarie e intrise di decadenza. In fondo, la libertà è libertà interiore, quella che Dio ha dato all’uomo: libertà di decidere delle nostre azioni e omissioni, e di esserne moralmente responsabili. Ha capito veramente che cosa è la libertà, non colui che corre dietro ai suoi diritti legali e di essi si serve per ottenere vantaggi economici, ma chi ha una coscienza morale dalla quale si sente obbligato anche quando la legge sta dalla sua parte. La libertà non l’ha chi difende vittoriosamente un caso legale sicuro, ma chi è integro al punto da non curarsi dei suoi diritti e, rinunciando a questo, da non temere di mostrare i propri errori. Tutto ciò si designava con una parola molto antica e oggi dimenticata: onore.

Non mi sembra uno sproposito asserire che nel XX secolo, in alcuni paesi ben conosciuti del mondo occidentale, la parola libertà si sia distaccata dalle sue forme originali ed elevate. Oggigiorno non esiste in nessuna nazione del mondo questa forma elevata di libertà, propria degli uomini spirituali, i quali – pari ai nostri antenati – non svicolano fra le sinuosità serpentine delle leggi, ma si autolimitano liberamente e con la piena coscienza della loro responsabilità. E tuttavia credo profondamente nelle sane e vigorose radici della nazione nordamericana, importante e potente, e soprattutto nella probità e nel vigile senso morale della sua gioventù. Ho visto con i miei occhi la capacità innata dei nordamericani e per questo oggi vi ho parlato con i toni della più ferma speranza.



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