Pubblica Amministrazione e mercato: un’antitesi?
di Angelo Maria Petroni
Il rapporto tra liberalismo e pubblica amministrazione ha ricevuto un'attenzione senz'altro molto inferiore rispetto a quella che è stata data al rapporto tra liberalismo e democrazia.
Eppure il tema è senz'altro cruciale per chi sia interessato al futuro della società liberale, specialmente in Europa.
La pubblica amministrazione non nasce con illiberalismo, e non nasce con la democrazia.
La pubblica amministrazione nel significato che le viene correntemente dato è coeva alla nascita ed allo sviluppo dello Stato moderno, ed al duplice fenomeno della fine del particolarismo territoriale e del particolarismo giuridico medievale.
Essa nasce quindi come apparato al servizio dei sovrani assoluti.
Non è ovviamente casuale che il modello medesimo di pubblica amministrazione corrisponda all'apparato dei sovrani assoluti per eccellenza (quelli di Francia, ovviamente, ma anche quelli di Prussia), mentre l'Inghilterra, che dopo il periodo di Cromwell non ha conosciuto un potere sovrano che non fosse temperato da un parlamento e dai corpi intermedi, non ha mai avuto una pubblica amministrazione con le caratteristiche proprie dell'Europa continentale.
Ancora nel pieno del trionfo dello Stato liberale un modello di buona pubblica amministrazione sarà rappresentato dall' amministrazione dell'Impero austro-ungarico, il quale non ebbe mai una forma parlamentare compiuta.
L'affermarsi del costituzionalismo e del potere dei parlamenti sottrarranno la pubblica amministrazione all'esclusivo controllo del sovrano.
Così, alla pubblica amministrazione saranno assegnate due funzioni fondamentali: assicurare l'esercizio dei poteri regali dello Stato, e garantire l'esercizio dei diritti individuali garantiti dalle costituzioni.
La pubblica amministrazione, ereditata dai regimi assoluti, verrà messa al servizio dei regimi liberali.
Ma il rapporto tra liberalismo e pubblica amministrazione resterà sempre dialettico.
La pubblica amministrazione, infatti, rappresenterà sempre un potere con una ampia sfera di autonomia, se non di indipendenza.
In tal modo essa non avrà soltanto una funzione servente nei confronti tanto dei poteri regali dello Stato -esercitati questa volta nell'ambito delle costituzioni - quanto dei diritti individuali.
La logica del funzionamento della pubblica amministrazione, e quella della classe burocratica che ne assicura il funzionamento, sarà costantemente quella di espandere i propri poteri a scapito tanto del governo rappresentativo quanto dei cittadini.
Nella visione liberale allo Stato venivano attribuiti compiti precisi, chiaramente definiti, e chiaramente delimitati.
Allo Stato spettava far rispettare le regole della civile convivenza, difendere i cittadini dai nemici interni (ordine pubblico) e dai nemici esterni (esercito), tutelare i diritti di proprietà legittimamente acquisiti (giustizia), amministrare i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali.
Al di fuori delle sue competenze lo Stato non doveva avere alcun potere, mentre all'interno delle sue competenze lo Stato doveva avere poteri forti ed indiscutibili, superiori a quelli di qualsiasi privato singolo cittadino, associazione od impresa.
Lo Stato liberale, sociologicamente fondato sui ceti proprietari, e perfettamente funzionale all'estendersi del mercato, si distingueva nettamente da quest'ultimo e dalla sua logica.
Il paradosso era (ed è) soltanto apparente perché, per dirla con le parole di un celebre economista contemporaneo, Kenneth Arrow, 'la definizione dei diritti di proprietà basata sul sistema dei prezzi dipende proprio dalla mancanza di universalità della proprietà privata e del sistema dei prezzi.
Il sistema dei prezzi non è universale e forse, in un qualche senso fondamentale, non può esserlo.
Questa mancanza di universalità genera lo spazio dello Stato, delle sue funzioni tanto reali quanto simboliche, e quindi della burocrazia.
Il rispetto dei principi dello Stato di diritto - che nei Paesi di tradizione romanistica si congiungerà strettamente con il diritto amministrativo inteso come strumento per garantire i diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione medesima -, l'eguaglianza di trattamento dei cittadini, la neutralità rispetto agli interessi particolari, la neutralità politica, l'obbedienza, e la capacità di fornire i beni pubblici ed i servizi comuni e fondamentali, diventano i caposaldi dell'agire burocratico.
Essi sono i principi dell'etica della pubblica amministrazione.
Si tratta di standard formali, che in larga misura prescindono dai concreti obiettivi perseguiti dai titolari del potere politico.
Come è a tutti noto, quella visione liberale dello Stato è venuta progressivamente ad indebolirsi sin dai primi del Novecento, e resta essenzialmente come categoria ideologica e storiografica.
Dalla tutela dei diritti definiti nell'ambito privato si passò allo Stato produttore di beni e servizi di tipo "divisibile", con funzioni eminentemente di redistribuzione del reddito e della ricchezza attraverso la creazione dei diritti sociali.
La linea di distinzione tra ciò che appartiene allo Stato e ciò che appartiene alla società ed ai corpi organizzati è diventata molto meno netta, ed è anzi spesso inesistente, come avviene in particolare nei Paesi a struttura neocorporativa.
Nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato interventista, socialdemocratico o neocorporativo, la pubblica amministrazione ha subito un cambiamento fondamentale.
Il modello amministrativo, infatti, muta.
Il modello della gestione delle norme viene sostituito dal modello diretto alla produzione diretta o indiretta di beni "divisibili" e di servizi pubblici.
Valori come quello della neutralità rispetto agli interessi privati, e l'eguaglianza formale di trattamento dei cittadini, diventano impossibili da perseguire nel momento in cui le leggi sono sempre meno costituite da comandi universali ed astratti, e sempre più da comandi volti a realizzare particolari stati di cose, quali la redistribuzione del reddito, lo sviluppo economico di determinate aree di un Paese, o la nascita di un nuovo settore industriale.
La redistribuzione del reddito è senz'altro l'elemento cruciale, perché essa è al tempo stesso un fine dello Stato interventista, ma è anche il mezzo che rende possibili tutti gli altri fini.
La redistribuzione del reddito (e della ricchezza) implica quasi per definizione un'alta spesa pubblica, un'alta tassazione, ed una tassazione altamente progressiva.
Dal punto di vista liberale sia gli attuali livelli di redistribuzione, sia gli stessi meccanismi che la determinano, non sono giustificati, né in termini di diritti individuali né in termini di efficienza economica.
Ed è del tutto evidente come il contrasto con l'efficienza economica sia l'aspetto più rilevante, dal punto di vista politico.
Vi è una amplissima evidenza in base alla quale è possibile affermare che la redistribuzione nelle società contemporanee, la sua dimensione e i suoi profili sono il risultato della logica stessa dei processi della democrazia rappresentativa.
La redistribuzione delle risorse prelevate tramite la tassazione generale a favore di gruppi in grado di garantire il consenso elettorale è il meccanismo fondamentale sul quale puntano i politici che sono al potere per essere sicuri di restarci.
I politici non al potere, a loro volta, ripongono le loro speranza sulla capacità di persuadere una pluralità di gruppi sociali che saranno loro i beneficiari netti di una diversa politica redistributiva.
Tutto questo deriva dal fatto che ovunque si verifichino differenze di ricchezza fra i cittadini il reddito medio è più alto del reddito dell'elettore mediano.
In queste condizioni vi sarà sempre una maggioranza di elettori favorevoli alla redistribuzione (e alla tassazione progressiva), quale che sia il livello assoluto della ricchezza.
Poiché però i tassi marginale e medio di tassazione e redistribuzione sono determinati dall' elettore mediano, non vi è ragione alcuna per cui la redistribuzione debba andare a favore della parte più povera della popolazione.
L'analisi dei processi di organizzazione e rappresentanza politica degli interessi rafforza tale conclusione: i poveri infatti costituiscono il gruppo sociale meno capace di organizzarsi e di indirizzare i propri voti verso uomini politici determinati. Come ha efficacemente sintetizzato George Stigler, "la spesa pubblica viene attuata a beneficio soprattutto delle classi medie, e finanziata con tasse che pesano in buona parte su poveri e ricchi".
Vi sono quindi buone ragioni per credere che gli attuali alti livelli di tassazione non si giustificano affatto con lo scopo - che corrisponde ad un valore contenuto in tutte le moderne Costituzioni - di migliorare le condizioni dei meno fortunati.
Per molto tempo si è sostenuto che le politiche redistributive avrebbero fatto crescere non soltanto il benessere delle fasce più povere, ma anche la ricchezza globale di una Nazione.
L'assunto della validità della visione keynesiana era, naturalmente, un ingrediente essenziale di questa tesi.
Poiché la crescita economica è il risultato di una varietà di fattori, è notoriamente difficile isolare l'effetto della redistribuzione.
È difficile, inoltre, calcolare in modo esatto i reali effetti redistributivi della spesa pubblica in generale.
Tuttavia vi è una forte evidenza a favore di una correlazione negativa tra spesa pubblica e crescita economica.
Particolarmente rilevante è la conclusione alla quale sono giunti R. Gwartney, R. Lawson, e R. Holcombe, i quali hanno fornito una misura degli effetti negativi della spesa pubblica sulla crescita economica prendendo come riferimento i Paesi OCSE nel periodo 1960-1996: "se la spesa pubblica sul PIL è del 10%maggiore (per esempio, il35 piuttosto che il 25 percento) all'inizio del periodo di riferimento, il tasso di crescita sul lungo periodo del PIL è di un punto percentuale inferiore.
Conseguentemente, un aumento del 10%nelle dimensioni della mano pubblica durante un decennio ridurrebbe la crescita di mezzo punto percentuale".
Qui i dati econometrici concordano con la logica e con l'evidenza microeconomica.
Le politiche redistributive influenzano negativamente la produzione della ricchezza in diversi modi.
In primo luogo, le coalizioni politiche nate da accordi redistributivi distolgono risorse dai settori più produttivi, spostandole verso usi meno produttivi.
In secondo luogo, poiché tutelano interessi costituiti, indeboliscono presso i beneficiari della redistribuzione gli incentivi a innovare.
In terzo luogo, inducono forti pressioni contro l'apertura delle economie nazionali alla concorrenza internazionale, in quanto quest'ultima rende più difficile il godimento di rendite garantite dallo Stato.
In quarto luogo, le politiche fiscali implicate dalla redistribuzione disincentivano i membri più produttivi della società dall'utilizzare appieno le loro capacità.
Un'indicazione importante del fatto che le politiche fortemente redistributive sono errate è il fatto che le giustificazioni addotte per esse sono cambiate.
L'argomento originario era che la redistribuzione avrebbe posto la larghissima maggioranza dei cittadini in condizioni migliori di quelle che si sarebbero avute altrimenti.
Solo i più ricchi sarebbero stati necessariamente perdenti.
Oggi, però, l'argomento è del tutto diverso.
Oggi viene sempre più frequentemente affermato - come ha fatto anche Paul Samuelson - che la redistribuzione è una buona cosa anche se rende le società globalmente meno ricche.
Naturalmente, la ragione addotta per spiegare che la redistribuzione continua ad essere una buona cosa è che la grande maggioranza delle persone sta comunque meglio di quanto starebbe in una società più ricca ma senza redistribuzione.
In questo modo i sostenitori di politiche fortemente redistributive finiscono con il riconoscere che la loro tesi originaria è stata sostanzialmente confutata.
Questa seconda, tuttavia, si fonda sugli stessi identici assunti della prima: ossia, sulla stessa idea del funzionamento dell'economia e sulla stessa idea del comportamento umano.
È difficile cogliere la ragione per la quale l'asserzione rivisitata e corretta dovrebbe essere maggiormente vera.
E' agevole mostrare come vi sia una stretta correlazione tra le dimensioni della pubblica amministrazione ed i livelli di redistribuzione, nel duplice senso che una pubblica amministrazione estesa è necessaria per assicurare una forte redistribuzione del reddito e della ricchezza - sia in maniera diretta, sia in maniera indiretta, attraverso la fornitura gratuita ed universale di beni e servizi -, e nel senso che soltanto una forte redistribuzione del reddito permette il mantenimento di un alto livello di spesa pubblica necessario per finanziare una pubblica amministrazione estesa.
Tutto questo è sufficiente, sul piano dei principi, perché si possa affermare che vi è un trade-off tra dimensioni della pubblica amministrazione da un lato, e crescita economica/ricchezza dall'altro.
Per quanto la tesi possa essere considerata come generalmente vera, essa ha tuttavia un valore relativo quando se ne voglia indurre la conclusione comparatistica che la crescita economica/ricchezza è comunque migliore al diminuire delle dimensioni delle pubbliche amministrazioni.
Una dimostrazione viene dalla considerazione della misurazione della liberta economica nei diversi Paesi del mondo.
Come è noto, da diversi anni si sono affermate metodologie sistematiche di misurazione della libertà economica.
Le due misurazioni sistematiche più note sono quelle prodotte annualmente dalla Heritage Foundation (in collaborazione con il Wall Street Journal), e dal Fraser Institute.
Entrambe concordano nel fatto di trovare una forte correlazione positiva tra libertà economica e crescita economica, dando in tal modo una conferma empirica di straordinaria importanza alle classiche tesi liberiste.
Dal punto di vista che qui ci interessa, l'elemento importante è che entrambi gli indici comprendono, come elemento di misurazione della libertà economica, dei fattori che riguardano direttamente la pubblica amministrazione.
L'indice Heritage/Wall Street Journal si compone di dieci fattori, dei quali tre sono direttamente correlati al funzionamento della pubblica amministrazione.
Il primo di essi riguarda i "Property rights", ed è sua volta composto delle seguenti variabili: "Freedom ffom government influence over the judicial system; CommerciaI code defining contracts; Sanctioning of foreign arbitration of contract disputes; Government expropriation of property; Corruption within the judiciary; Delays in receiving judicial decisions; Legally granted and protected private property".
Il secondo fattore riguarda la "Regulation", ed è a sua volta composto delle seguenti variabili: "Licensing requirements to operate a business; Ease of obtaining a business license; Corruption within the bureacracy; Labor regulations, such as established workweeks, paid vacations, and parentalleave, as well as selected labor regulations; Environmental, consumer safety, and worker health regulations; Regulations that impose a burden on business".
Il terzo fattore riguarda l"'InformaI market", ed è a sua volta composto delle seguenti variabili: "Smuggling; Piracy of intellectual property in the informaI market; Agricultural production supplied on the informaI market; Manufacturing supplied on the infonnal market; Services supplied on the infonnal market; Transportation supplied on the infonnal market; Labor supplied on the informal market".
Come è evidente, questi parametri hanno un duplice aspetto.
Da un lato infatti essi misurano i limiti dei poteri dello Stato, e quindi anche degli ambiti di intervento della pubblica amministrazione.
Dall'altro essi sono una misura dell'efficienza della pubblica amministrazione, ovvero sono una valutazione dei servizi che essa rende alle attività economiche.
Per usare una celebre espressione di James Buchanan, essi riguardano non soltanto uno "Stato protettore" dei diritti individuali, ma anche uno "Stato produttore" di beni necessari per il funzionamento di una economia di mercato.
Analoghe considerazioni possono essere svolte riguardo all'indice del Fraser Institute.
L'indice considera cinque grandi aree, una delle quali è "LegaI structure and security of property rights", che si compone delle seguenti variabili: "Judicial independence; Impartial courts; Protection of intellectual property; Military interference in rule oflaw and the political process; Integrity ofthe legaI system".
Qui l'accento è senz'altro maggiormente posto sullo "Stato protettore", la cui esistenza è comunque dipendente da una pubblica amministrazione funzionante.
E' del tutto significativo che l'indice Heritage/Wall Street Journal classifichi in stretta sequenza di libertà economica la Svizzera, gli Stati Uniti, e la Svezia.
Quest'ultimo è il prototipo e l'esempio ancora ineguagliato di Stato socialdemocratico, neocorporativo ed interventista, con un elevatissimo livello di tassazione e di redistribuzione, e con una pubblica amministrazione che fornisce una quantità estesissima di beni e servizi.
Il buon funzionamento della pubblica amministrazione - specialmente per ciò che riguarda il sistema giudiziario, e quindi la protezione dei diritti di proprietà - contribuisce a dare alla Svezia un (buon) punteggio di libertà economica che altrimenti non avrebbe avuto sulla base del peso complessivo dello Stato.
Un punteggio migliore di quello di altri Paesi nei quali il peso dello Stato è senz'altro inferiore.
La conclusione di questa rapida analisi sembra piuttosto chiara.
I livelli attuali della pubblica amministrazione, sia nella sua funzione di redistribuzione "diretta" del reddito e della ricchezza, sia nella sua funzione di regolazione, sono molto più elevati di quanto sarebbe necessario per avere una forte crescita economica.
Da questo punto di vista non vi è dubbio che una riduzione del peso delle pubbliche amministrazioni rappresenterebbe generalmente un aumento di efficienza delle economie dei Paesi capitalistici, e quindi condurrebbe ad una maggiore crescita.
Tuttavia la capacità delle pubbliche amministrazioni di fornire in maniera adeguata beni e servizi che sono fruibili da parte del mercato costituisce un fattore importante di efficienza di un sistema economico.
Questo significa che, anche assumendo che il peso delle pubbliche amministrazioni non possa -per fattori essenzialmente politici - ridursi significativamente in un futuro prevedibile, il miglioramento delle loro performances può comunque contribuire in maniera importante all'incremento della crescita economica.
Il compito di un liberalismo moderno sembra pertanto duplice: perché se da un lato esso deve perseguire lo scopo di ridurre il peso dello Stato e quindi gli ambiti di intervento della pubblica amministrazione, dall'altro esso deve avanzare proposte e soluzioni attuabili affinché l'azione della pubblica amministrazione sia maggiormente coerente con la finalità dell'efficienza dei mercati.
Dal punto di vista liberale riformare la pubblica amministrazione è quindi oggi un obiettivo non meno importante di ridurre le sue dimensioni.
Considerando la realtà politica ed economica delle democrazie moderne, è molto probabilmente un obiettivo più realistico.
Esso merita pertanto una maggiore attenzione da parte delle forze intellettuali e politiche liberali rispetto all'obiettivo ideale - condivisibile forse sul piano dei principi, ma oggettivamente utopistico - di prospettare soluzioni radicali, le quali presuppongono un mondo ideale nel quale non esistono decisioni collettive, non esistono costi di transazione, e non esistono conflitti distributivi.