Altro che Robin Hood. La manovra del commercialista di Berlusconi spalma tagli su tutta la spesa, affonda il federalismo fiscale, colpisce welfare e assistenza. L’opinione di tre economisti: Lapadula, Petretto, Pizzuti
di Manuele Bonaccorsi
da LEFT
Tremonti riprende in mano la calcolatrice. Ma stavolta la sua manovra ha poco di finanza creativa. Il divo Giulio del secondo millennio ne è consapevole e retrocede se stesso da genio dell’economia ad amministratore di condominio: «Faremo come in un palazzo, ciascuno pagherà i suoi millesimi, in proporzione». Tagli a pioggia, quindi.
Per raggiungere il pareggio di bilancio, annunciato da Prodi per il 2011, servono 35 miliardi in tre anni. Proprio quanti Padoa Schioppa, quando i cieli dell’economia mondiale erano ben più rosei, riuscì a procurarne in un solo anno, il 2007, con una stangata che contribuì ad alienare i consensi dei cittadini al governo Prodi.
Ora le forbici le ha in mano Tremonti: tredici miliardi nel 2009, 7 nel 2010, 15 nel lontano 2011.
Equamente divisi così come è divisa la spesa attuale. Nove li dovranno pagare gli enti locali, dov’è concentrata gran parte della spesa in welfare del Paese.
Tagliata l’Ici, bloccate le tasse locali, Comuni e Regioni, spogliati da ogni residuo di federalismo, non potranno far altro che tagliare servizi. Meno tasse per tutti, meno welfare per chi ne ha bisogno.
C’è da credere che la riunione di condominio, a cui parteciperanno sindacati, Comuni e Regioni, sarà più litigiosa di quanto previsto. Non solo il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani e il suo collega dell’Associazione dei Comuni Leonardo Domenici, ambedue del Pd, ma anche il sindaco di Milano Moratti e 170 primi cittadini leghisti del nord-est hanno già annunciato battaglia.
«È pura aritmetica», spiega Alessandro Petretto, docente di Economia pubblica a Firenze.
«La manovra è di 12 miliardi all’anno per 3 anni. Poiché gli enti locali rappresentano il 55 per cento della spesa, pagheranno di conseguenza. È la seconda volta che il governo Berlusconi fa questo errore: tagli orizzontali, senza distinguere tra voci di spesa. E senza che gli enti locali possano ritoccare le aliquote verso l’alto, per ricoprire i tagli».
Tra le novità dell’ultimo decreto fiscale, infatti, c’è il blocco delle tasse locali: non solo l’abolizione dell’Ici, l’unica vera tassa federale, ma anche il divieto per i Comuni di ritoccare verso l’alto le addizionali Irpef e l’Irap. Altro che federalismo: «Si tolgono le imposte proprie e si sostituiscono con trasferimenti centrali sempre più bassi. è come se, mentre si aspetta Godot, qualcuno decidesse di ucciderlo».
Ma gli enti locali riusciranno a sopportare tagli così corposi? «Sarà faticoso. Tre miliardi in tre anni sulla Sanità è una bella riduzione, considerando che la spesa cresce per motivi demografici».
Il rischio è che gli enti locali siano costretti a scegliere tra due strade senza sbocco: aumentare il loro debito finanziario, che ha ormai toccato la cifra record di 111 miliardi, circa 2mila euro a cittadino, compresi anche i pericolosissimi “derivati”; o tagliare la spesa sociale che, per Felice Roberto Pizzuti, docente de La Sapienza di Roma, è tra le più basse d’Europa.
Secondo l’economista, che il 2 luglio presenterà il suo Rapporto sullo Stato sociale, l’Italia spende per l’assistenza (povertà, famiglia, disoccupazione, esclusione sociale) solo l’1,6 per cento del Pil, contro il 4,8 dell’Ue a 15. Un terzo, rispetto a Paesi come Francia e Germania. «Buona parte delle spese per l’assistenza e la lotta alla povertà è concentrata nei Comuni.
È verosimile che, almeno in parte, il taglio colpirà proprio questo capitolo», spiega Pizzuti. «Non solo la spesa italiana in assistenza è tra le più bassa dell’Ue, ma è anche mal distribuita. I maggiori indici di povertà si concentrano proprio dove la spesa è più contenuta, perché sono minori anche le disponibilità finanziarie degli enti locali», spiega Pizzuti.
Pochi numeri, forniti dall’Ifel-Anci, bastano a rendersi conto dell’emergenza-assistenza, concentrata nel Sud del Paese: su 5,6 miliardi di spesa sociale dei Comuni, 3,2 sono destinati al Nord e solo uno al Sud. La spesa procapite è di 122 euro al Nord, 104 al Centro e solo 40 euro al Sud, dove vive il 65 per cento dei poveri. Proprio qui i tagli potrebbero farsi sentire di più.
«Il segno prevalente della manovra è chiaro: lo sforzo è concentrato sui più deboli», commenta Beniamino Lapadula, responsabile economico della Cgil.
«Mentre il beneficio fiscale sull’Ici si spalma su tutti i contribuenti proprietari di casa, cioè l’80 per cento degli italiani, con un risparmio maggiore per chi abita case dal maggior valore, i tagli si concentreranno su una minoranza dei cittadini, su chi ha più bisogno: handicappati, anziani, asili nido, poveri, disoccupati». Nessuna risposta ai sindacati è giunta, invece, sul potere d’acquisto di salari e pensioni.
Lo scorso autunno, Cgil, Cisl e Uil avevano strappato, nella finanziaria del rigoroso Padoa Schioppa, la promessa di destinare l’intero extragettito a ridurre la pressione fiscale sul lavoro dipendente. Per alcuni mesi il Paese fu immobilizzato dal giallo del tesoretto, il cui ammontare rimase nascosto negli scrigni dell’ex ministro dell’Economia.
Oggi non se ne parla più. Anche se un comunicato del ministero dell’Economia del 3 giugno recita testualmente:
«Nei primi cinque mesi del 2008 si è registrato complessivamente un fabbisogno di 39.900 milioni di euro, inferiore di circa 5.600 milioni a quello dell’analogo periodo del 2007, pari a 44.894 milioni di euro».
L’interessante notizia è stata del tutto ignorata nel dibattito pubblico: anche perché il tesoretto era già stato speso col decreto fiscale: 2,2 miliardi per l’abolizione dell’Ici, 1,5 per il taglio della contribuzione su straordinari e salario variabile, più il prestito ponte ad Alitalia.
«Finora il governo non ha dato alcuna risposta alla piattaforma sindacale varata l’anno scorso, che chiedeva di destinare l’extragettito a salari e pensioni», afferma Lapadula.
Eppure, nonostante il rallentamento dell’economia, le entrate rimangono superiori a quanto preventivato: il governo ha preferito spendere quei fondi per Ici e straordinari. In assenza di risposte su questo punto il sindacato farà le sue considerazioni».
Piatto vuoto anche per lavoratori dipendenti e pensionati, quindi. A meno che la Robin Hood tax, immaginata da Tremonti per colpire le rendite dei petrolieri, non procuri altro denaro sonante. Lapadula è scetticco: «è una mossa propagandistica, che si ridurrà in una semplice partita di giro.
Colpirà principalmente l’Eni, di cui il Tesoro è il massimo azionista. Sarà lo Stato a pagare la tassa, in forma di dividendi più bassi sui proventi dell’Eni». «Il vero problema - continua Lapadula - è la mancanza di concorrenza nel settore, la costruzione di un cartello che in passato ha fatto crescere il prezzo del carburante in corrispondenza con l’aumento del costo del barile, senza fare scendere i prezzi quando il valore del barile scendeva».
La crescita del prezzo del petrolio, è questo l’incubo più grande per l’economia italiana, scivolata in un mix di alta inflazione e bassa crescita, che i tecnici chiamano stagflazione: qualcosa di simile alla crisi petrolifera che mise in ginocchio l’economia mondiale nel ’73. «Dinanzi allo scenario dell’economia mondiale, il governo ha scelto una manovra di tipo restrittivo. Si programmano ingenti tagli proprio durante un ciclo economico di crescita nulla, nel quale sarebbe importante sostenere i consumi.
I risparmi, concentrati sul reddito reale dei redditi bassi, potrebbero comprimere i consumi. Mentre per i redditi alti, che pagheranno meno tasse, l’aumento del reddito disponibile potrebbe dirigersi verso il risparmio, invece che verso il consumo. La manovra, quindi, riccia di produrre effetti recessivi», conclude Lapadula.
20 giugno 2008
da LEFT