di Leonardo Butini
La scuola sta per ricominciare, e come oramai accade puntualmente ogni anno, qualunque sia il colore del governo di turno, impazza il “toto-riforme”: grembiule si o grembiule no? Torna il voto in condotta? Esami si o esami no? E con quali commissioni, interne o esterne? Esami di riparazione si o no? E via così, di delirio in delirio, in un interminabile susseguirsi di provvedimenti che hanno come unico risultato quello di gettare il mondo scolastico, già malconcio di suo, nel più completo caos. Nessuno però che si azzardi neppure lontanamente a proporre l’unica vera, sensata riforma: privatizzare l’intero sistema.
Già, la scuola è da sempre un vero e proprio tabù: in nessun altro campo lo schieramento a difesa del ruolo e dell’intervento dello Stato è tanto vasto e compatto: dai professori, ai genitori agli alunni, un blocco monolitico si schiera a favore della scuola pubblica, ed i partiti, che da tempo hanno cessato di essere fucine di idee per trasformarsi in grigi votifici sempre e soltanto in cerca di consenso a buon mercato, si sono adeguati alla vulgata corrente senza troppo penare.
Eppure la scuola non è un classico esempio di bene pubblico, ammesso e non concesso che la nota definizione di Samuelson abbia un senso: trattasi infatti di un bene che non gode né della non escludibilità, né della non rivalità nel consumo, dal momento che, come scrive Alberto Mingardi in “Lettera ad un amico no global”, "l'educazione scolastica è un bene radicalmente diverso. Potremmo perfino dire che l'esclusione è parte della sua natura, dal momento che la scuola si articola per istituti, ordini e classi reciprocamente esclusivi. Inoltre impedire a qualcuno di beneficiare dei servizi offerti dalla tale istituzione o dal tal precettore è facilissimo. Chi non si iscrive alla facoltà di scienze politiche quasi certamente non ne seguirà le lezioni..."
Nonostante questo, i difensori della scuola pubblica non demordono, insistendo costantemente su due motivazioni a loro dire fondamentali ed imprescindibili: da una parte si sostiene che solo la scuola pubblica consenta alle famiglie meno abbienti di fornire un’educazione ai propri figli, dall’altra si ritiene invece che solo la scuola pubblica possa fornire ai ragazzi un’educazione “neutrale”, imparziale, “scientifica”, scevra da qualsiasi visione di parte.
Inutile dire che entrambe le argomentazioni fanno acqua da tutte le parti. Cominciamo con l’analizzare la prima.
Che la scuola pubblica aiuti i più deboli è davvero difficile da sostenere: le tasse pagate ogni anno da ciascuno di noi infatti, finiscono in unico indistinto calderone, da cui non è dato sapere chi prelevi cosa e a quale scopo. Scrive ancora Mingardi: "è possibile che siano addirittura i "poveri" a finanziare l'istruzione dei figli dei ricchi. E' la conclusione di un famoso saggio di Armen Alchian. La ragione di una situazione così odiosa è intuitiva: i figli delle persone con reddito basso hanno meno probabilità di frequentare un'università; data la situazione della loro famiglia, è probabile che siano spinti ad entrare in fretta nel mondo del lavoro, indispensabile veicolo di emancipazione sociale. Il risultato è che con le loro tasse sul reddito finanzieranno gli studi dei loro coetanei più fortunati"...alla faccia della solidarietà!!!
Altra questione è poi quella morale, spesso sottovalutata ma certo non meno importante: anche se finisse davvero con l’aiutare i più deboli, la tassazione continuerebbe comunque, in punta di vocabolario e di diritti naturali, a costituire un furto in piena regola. Ed un furto resta sempre e comunque un crimine, qualunque sia l’uso che poi si fa del bottino. E’ giusta e desiderabile una società fondata sul furto?
Venendo invece alla presunta neutralità della scuola pubblica, ci vengono in soccorso le parole di Luca Serena: "la retorica laica si alimenta di un principio tanto ridicolo quanto pericoloso: quello della neutralità dello Stato. In realtà, per definizione, ogni organizzazione umana è caratterizzata da culture, scelte e volontà ben precise...nei fatti, d'altra parte, se pensiamo anche solo alla storia italiana noi ritroviamo innumerevoli appelli all'autonomia delle istituzioni pubbliche e al tempo stesso, però, dobbiamo rilevare come gli ordinamenti che si sono succeduti siano stati - di volta in volta - variamente utilizzati da questo o quel gruppo di potere culturalmente ben definito: massonico-risorgimentale, clerico-fascista, democristian-socialista, tecnocratico-comunista.
Insomma, le argomentazioni degli statalisti in grembiulino non reggono, se solo ci si sofferma ad analizzarle con un briciolo di attenzione. Eppure, quando va bene, i “liberali” di casa nostra si limitano a parlare di buoni-scuola, che del mercato altro non sono che una sbiadita e poco efficace imitazione. Di privatizzazione, nemmeno a parlarne…forse perché quando si parla di privati ed istruzione la mente corre subito agli istituti privati attualmente esistenti nel nostro paese, che schiacciati dalla concorrenza sleale dello Stato ed inseriti in un contesto che definire scarsamente competitivo è poco, sono in effetti costretti a praticare prezzi che appaiono troppo elevati in relazione alla qualità dei servizi resi.
Ma quello che occorre per rilanciare davvero il sistema scolastico è una riforma rivoluzionaria che riconsegni l’educazione dei figli alla libera scelta delle famiglie, sottraendola alle grinfie di quello Stato che se ne serve all’unico scopo di creare docili soldatini. "Meglio che una massa di marmocchi cresca senza istruzione scolastica anzichè diventi istruita per essere poi mandata a farsi ammazzare o mutilare in guerra una volta adulta",avrebbe sentenziato Ludwig Von Mises.
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