Grazie, Neva, per aver apprezzato la poesia riguardante la Sicilia, grazie Carmelo C per avermi indicato il vidio di Sgarbi/Lombardo; che dire in proposito : Solo in apparenza esiste discordanza fra i due, "fur cognoscit furem, lupus lupum ". Il primo, da Ferrara, che viene a fare il sindaco a Salemi si commenta da sè, in una terra veramente povera se c'è bisogno di un Sindaco del Nord, anche se preparato ed innamorato delle bellezze del Sud ( povera quella nazione che ha bisogno di eroi ); il secondo, il Presidente, che forte del 64% dei suffragi, tiene un comportamento molto, molto coerente, un colpo quà, uno là.
Eppure, fra una parte del restante 36%, il 17 giugno scorso, ho visto alcuni, non molti per la verità -visionari, nostalgici, illusi, forse anche folli- piangere dinanzi alla bandiera della Sicilia, sulla tomba di Canepa, Rosano e Lo Giudice, dentro il cimitero di Catania; e poi, ancora dopo, al bivio di Randazzo, sul cippo che ancora li ricorda.
D'altronde stiamo tutti bene, i nostri politici, regionali e nazionali, fanno il loro dovere, le scelte di politica economica sono oculate, la lotta alla mafia è praticata senza tregua, parlo della mafia vera, quella descritta dai giornali, non quella di cui parlava Giuseppe Fava nel dicembre del 1983, una settimana prima di essere ucciso ( di cui rimando al video su internet ); ed ancora, il territorio è salvaguardato, la disoccupazione eliminata o quasi, l'avvenire dei giovani è assicurato : Abbiamo tutto, dovremmo essere felici e, da ingrati,invece, ci lamentiamo.
Ma quello che mi arrovella il cervello non è tanto questa felicità non compresa, nè il fatto che ci considerano terroni, mafiosi, straccioni, nulla facenti, e magari ci azzeccano; quello he non capisco è perchè, perchè ci vogliono per forza con loro ???
Bè, ad onta di una soddisfazione che sprizza in me da tutti i pori, a rischio di passare per ingrato, io sono e rimango Indipendentista, seppure non mi faccio illusioni nel breve periodo. Penso, infatti, che l'Indipendenza dell'Isola sarà il frutto di un movimento culturale, lontano dai politici e della politica che resta i vero avversario dell'Indipendenza, un movimento partorito nell'ambito dalla nostra Gioventù, dopo che la stessa avrà peso coscienza della nostra storia e della nostra cultura.
Magistralmente si affannano a parlare della cultura dell'Europa e dell'Occidente, ma nessuno spiega ai giovani che sono gli stessi principi di 25 secoli fa, partoriti nel Sud, nella Magna Grecia, fra i Siciliani o altrimenti detti Sicilioti, che trovarono in Sicilia, e nel sud in genere, la loro nuova patria : Ducezio parlava da Siciliota nel 460 a.C. quando combattè contro i Greci Sicilioti che volevano schiavizzare le città sicule, malgrado l'aiuto ricevuto nel 480 nella guerra contro Cartagine; Ermocrate, nel 424 a.C, a Gela, fa appello a tutti i Sicilioti nella lotta contro Atene; Re Ruggero si sentiva più sicilino di me, come pure Re Federico imperatore che difese sempre e comunque la Sicilia, contro i Guelfi e gli anatemi del cristianissimi papi romani. E così re Pietro d'Aragona o Federico III.
Parlano di lingua italiana, ma nessuno, tranne Dante che apertamente lo lascia intendere, ha spiegato che essa è la lingua siciliana, riveduta e corretta, parlata nel 1200 in Sicilia;
parlano di Parlamento Europeo ( un parlamento, peraltro, dove non si fanno leggi ma decreti amministrativi ), eppure nessuno spiega dove nacque il primo parlamento europeo.
Se, ad onta della storia raccontata a modo loro, ad onta di interessi sostenuti dai potentati di turno, si riuscirà ad insegnare ai Giovani le verità vere e documentate, bè allora il commiato sarà certo e inarrestabile.
Termino con la pubblicazione integrale della poesia di prima, sperando di non suscitare risentimenti negli Italici, ai quali chiedo anticipatamente venia, se dovessero riscontrare pensieri ed idee non condivise, come il Ponte sullo Stretto.
Un abbraccio.
Paololucio
A Carmelo Rosano
caduto a Randazzo nel suo ventiduesimo compleanno,
il 17 giugno 1945, vivendo il sogno di una Sicilia libera e indipendente.
PER RICORDARE UN SOGNO
Chiara la luna, alta,
per i cieli vaporosi,
guidava sicura i candidi destrieri della notte
e rivelava, per un attimo, il mostro orripilante,
prima che si occultasse fra le rocce,
là, sulla zanclèa spiaggia.
Terror mi prese,
sì che la peluria tutta arricciòssi,
ed immobile restai, esterrefatto!
Vidi, poi, ergersi parte di sì grandiosa massa,
informe e scura - che poi per fauci compresi -
e sovr’essa roteavan vermiglie luci, orrende!
E, poi, udìi tremenda voce :
- “ Chi sei, tu, dunque, che osar violasti,
a me possente,
mia tana occulta e segreto inveterato ? “-
Ed io, fragile, a lui : - “ Siculo sangue io tengo nelle vene,
e per tant’anni tenni, là, nel pelago silente,
una sponda della terra di Sicilia,
avanti che l’italico pilastro me congedò, ingrato,
di contro all’ordine sovrano del pio sovran Ruggero.
Cola Pesce son io
che obliterai, mill’anni e passa,
l’umìle albergo e pargoli innocenti, e sposa inconsolata,
per sostener, stremato, il terzo basamento,
instabile ed incerto, del nostro suol ferace “.
E il mostro, a me, con voce meno truce,
e poi gentile, il disse :
- “ Non fosti forestiero, adunque,
e parimenti a me, tu fosti poi sloggiato,
per costruir lo ferreo manufatto,
mischiando la calabra regione
al siculo fanale.
E per tanto manufatto
molti intesi annunci poi mendaci :
La figlia della Terra, di Ceo ed Encelado sorella,
la Fama sconfinata, veloce più dell’Euro,
con cento e cento orecchia, con mille e mille lingue,
spandea le veritade :
La nuova età dell’oro per la sicula contrada,
ov’essa si legasse all’enotreo appezzamento.
Ma tu ascolta, Cola, chi furo i miei parenti,
per rimarcare ognora
i turpi intendimenti di una ciurma infame,
malefica ed estranea al siculo lignaggio:
Nepote io vegno a Zeus, il sire onnipotente
ed Ade suo germano,
e traggo i miei natali da Posidon possente,
signore degli oceani e dalla Madre Terra che,
quivi, me generaro;
nella heliade contrada emisi il primo pianto
e fui fanciullo gaio nella bionda età dell’oro,
nella quale eterno nacqui.
E vidi, ancora poi,
avidità e risse e guerre,
iniquità e torti e brame,
infamia e crimini feroci,
che ruppero la magnifica armonia;
e del Fato io fui strumento
e fui e son Cariddi,
terror dei naviganti e divorator di ciurme un tempo,
seppur lo scaltro Odisseo allora mi beffò,
che lesto lesto al fico ratto si aggrappò.
Ma tu non abbi angoscia, caro e buon vicino,
unito al mio destino dalla nobile Triscèle;
orsù racconta lesto e bada a non tacer
eventi, e fatti, e gesta di tua mortal natura “.
Di poi così si tacque e muto diventò.
- “ Or son più chèto per tuo loquar sentito
-“diss’io lui –
“ non ch’io fossi in tema per mia vita –
solo terrore assai tu mi donasti -
quia perennità promisemi lo biondo sire amico,
il Ruggero dopo il primo,
il conquistator di Gerbe e Tunisia,
d’Etolia, d’Acarnaia e di Corinto,
castigator di Pisa e di San Marco,
avvampator del Trullo,
ma costruttor del templo Palatino,
e di Zancle, e Cefalù,
colui che pose la semenza del grande Federico.
Ma or correggi presto fallace convinzione,
ch’io pria ti dissi di mia perennità;
è vero ch’io non ebbi chiara schiatta alcuna,
per ch’io non fui barone, né conte o cavaliero,
chè saraghi, e alìci, e sgombri,
e polipi scovai pel mio sostentamento,
ma ebbi da Ruggero, il sire boreale,
esplicito decreto
qual premio a mio dovere di Siculo leale,
che ora ti narrerò :
Se ne venìa, un dì lontano,
il magnifico sovrano sul mare del reame,
da Palermo a Caronìa,
e poi appresso, su un magnifico vascello.
E quante e quante navi, forse venti o più velieri
scortavano l’augusto cavaliero fin dentro il porto di Messina.
E quì tamburi, e squilla, e corni, e festa,
e che baldoria,
e conti e cavalieri, e nobili e baroni,
prelati, vescovi, eccellenze
e financo le eminenze,
per dare il buon saluto al nobile monarca.
E poi la gran marea,
la gente assai ridente, per dare tanto amore
all’amato suo signore;
e grida, e gioia,
e gran calore al suo nobile sovrano.
E poi ci fu la festa, e poi financo il ballo,
e musica ed orchestra per tutta la semana;
e poi ci fu la giostra, e i drappi,
i giochi, il vino e la baldoria.
Ed io che fui da sempre provetto nuotatore
scendevo lesto lesto sotto in fondo al mare,
a riprendere felice il prezioso vasellame,
buttato dal veliero per la nobile tenzone;
e quanti e ricchi premi,
e coppe, e vasi splendidi di nobile metallo
all’aria riportai,
che poi lo biondo sire, a me, magnanimo, donava,
qual premio a tanto ardore per sì gravoso compito
a tanta prode gara,
sì che ebbi tosto onore, e beni e gioie.
Ma poi, nell’ultima mia fiata,
io vidi - orrore! - in fondo al mare,
lo zoccolo diruto del terzo piedistallo che Sicania sorreggea;
e così pensai ai parenti, ai pargoli piangenti,
al sire coronato che tanto m’avea donato,
e con immensa forza donatami dal Cielo,
poggiai il dorso e l’omero, e stabile mantenni
la dolce terra mia.
E a Re Ruggero inquieto, che afflitto mi chiamava,
io subito risposi :- Maestà, sugnu “ccà,
e “ccà haiu a ristari pi” l’eternità- .
E quando poi comprese il sommo sacrificio,
lo sire e buon amico emise il suo decreto :
ch’eterno il nome mio nei secoli rimanga,
fin quando esisterà la sicula contrada.
Or son mill’anni scarsi
ch’io non rivedea il caldo suolo aprìco
e nel pelago silente
niuno mi contò gli eventi, i fatti e gli atti;
or, canuto il capo, decrepito ed afflitto,
ozioso sono ormai,
e dai profondi abissi all’aria ritornai
e presi a respirare l’asciutto etere.
E così rividi Eolo e il suo regno,
ed anche luci e fiamme, ed acre nebbia ostile,
ch ‘ io pria non conoscevo.
Orsù, Cariddi caro, per i tuoi siculi natali,
racconta a me germano le cronache isolane,
perdona l’insistenza
e narrami le gesta, nel lungo mio ritiro,
del trigono diletto;
esponi facile, ti prego,
conferma ancora le dolci mie memorie
dei rustici Sicani e dei Punici fenici,
dell’Ellade feconda - che qui divenne magna -
dei romuli Quirini;
dei mori Saraceni e degli aurei guerrieri
del grande re Ruggero;
e poi non seppi nulla,
se non che dopo venne il grande Federico,
splendido rampollo dell’ultima Costanza,
nipote del buon re ch’eterno rèsemi.
E gli altri ?
E poi, chi furo i siri
che ancora seguitaro
a rendere fiorente il tricuspide potente ? “.
E il mostro a me, in flebili singulti, così risposemi :
-“ Perdonami fratello,
se triste e disilluso rimarrai da tanto sfogo;
da troppo tempo, e son tant’anni,
che la Sicula Regione è trìbade oramai,
sordida fantesca oppressa e sterile
di un ‘ avida narcotica malìa
che le offusca l’animo;
miserrima lei gode senza senno,
da quando le tolsero il suo regno
e i viceré le diedero d’allora,
cani muniti di catena
che leccano i calzari del padrone
e melensi abbaiano alla luna,
bugiardi apostoli del sogno
di un’Italia benefica e feconda.
Nelle Sicule Contrade il grande dio Pan è morto
ed Ermes sconsacrò la sua destrezza;
ora col melograno nutriscono Persèfone,
obliandole la venuta sulla terra,
sì che Dèmetra sdegnata se ne andata;
invano i buoi trascinano gli aratri
e l’orzo candido rinsecca nei solchi sterili e infecondi.
Anche i Penàti restano adirati,
e ai bambini rifiutano i regali,
dopo che furono scartati
da una vecchia lurida e puttana,
che altrove chiamano Befana.
La Sicilia è stanca della sua tristezza,
della bestemmia che ode in mille lingue,
dei fumi e dei vapori che appestano i suoi fondi,
con scorie fetenti per i residenti,
e la preziosa nafta mondata
arricchisce soltanto la nordica contrada.
Eppure, un dì,
noi fummo i prediletti
dalla grande Madre Gaia
che benedisse, col sole e col suo mare,
i nostri lidi e i prati variopinti dai fiori profumati.
Noi fummo figli dell’indomito Ducezio
e suscitammo epiche memorie,
ricordando la stella più fulgida del mondo,
la grande e possente Siracusa e il suo vegliardo figlio,
che costrinse i fortissimi Quirini a trasformarsi in sorci,
per raggirare l’inaccessibile muraglia.
Alla corte del gran Svevo,
che primo diede dignità di uomini ai suoi sudditi,
noi parlammo per primi la dolce lingua -poi carpita-
e restiamo i nepoti dei grandi eroi di Imera
che col sangue disfecero la punica barbaria,
seguita poi dal Vespro sanguinante
sulle carni del Gallico invasore.
Niuno comprende, caro buon fratello,
che la buona sorte svanì dalla Sicilia
da quando le tolsero il suo regno,
e i Viceré meschini
s’inchinano alla corte del Cesare più forte.
Già fummo liberi e felici
per tutto il tempo che fummo un forte regno
e torneremo savi, grandi e fortunati,
quando saremo con l’Italia federati.
Se il sangue siculo irrequieto
non scaccerà le false verità,
meglio che si avveri la profezia del monaco di Mene:
Sconvolta e martoriata, Terra mia,
in due parti alfin sarai tagliata,
e sprofondata nel pelago vorace,
distrutta e, peggio ancor, sarai scordata.
E così, vegliardo Cola,
la pace e il riposo tu otterrai,
fidando nel credo del tuo Dio,
e nelle eterne sfere abbraccerai
la dolce sposa ed i pargoli diletti.
Vuolsi così, per Fato e per semenza,
ch’io mai morissi fin quando dura il Cosmo,
e sciagurato vagherò infelice,
per ricordare un sogno ormai svanito “.
Di poi si tacque e nell’antro ritornò.
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