Risultati da 1 a 8 di 8
  1. #1
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    Predefinito Due belle notizie dal SudAmerica!!!

    Esercitazioni navali Russia-Venezuela in Atlantico. Risposta russa alla presenza USA in Mar Nero?
    Annunciato per il prossimo ottobre l'inizio di esercitazioni congiunte tra le flotte russa e venezuelana in Atlantico.

    Secondo i politologi questa iniziativa rientra nelle risposte di Mosca alla presenza di navi USA in Mar Nero, anche se le autorità di entrambi i Paesi stressano che queste esercitazioni erano già state pianificate lo scorso anno.

    Secondo quanto anticipato dal capitano Igor Dygalo alle manovre parteciperà, tra gli altri, l'incrociatore lanciamissili "Петр Великий" ("Pietro il grande") e la nave antisommergibile ''Ammiraglio Ciabanienko''. Lo riferisce l'agenzia Interfax citando Andrei Nesterenko, portavoce del ministero degli Esteri russo.

    Entro fine anno, la Russia pensa di dispiegare temporaneamente in Venezuela anche aerei antisommergibili e di tenere esercitazioni militari congiunte, ''se la parte venezuelana sara' interessata''.

    Interfax, ANSA

  2. #2
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    Brasile e Argentina rinunciano al dollaro!
    08/09/2008

    Brasile e Argentina abbandonano il Dollaro quale moneta di scambio tra i due Paesi.

    In un'intervista rilasciata ai media brasiliani il Presidente Luis Ignacio Lula da Silva ha dichiarato che per gli scambi trasnazionali si utilizzerà una divisa che sarà il risultato del valore medio corrente di peso e real.

    Ciò contribuirà a rafforzare i legami economici tra i due Paesi. Inoltre tale decisione rappresenta un importante passo nella direzione dell'autonomia del "Cono Sud" dal potente vicino nordamericano la cui moneta soffre attualmente una caduta verticale di credibilità a livello planetario.

    Oggi stesso sarà siglato un accordo in tal senso.

    Fonte


  3. #3
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    :::: 3/2007 :: lug./set.:::: L'America indiolatinaEditoriale
    Il risveglio dell’America indiolatina (Tiberio Graziani)

    Dossario: Il risveglio dell’America indiolatina
    L’America latina in sintesi (Aldo Braccio)
    Il Sudamerica come katechon metapolitico (Alberto Buela Lamas)
    La prima America contro lo “America first” (Come Carpentier de Gourdon)
    Rafael Correa: per una vera unità sudamericana (Francisco de la Torre)
    Il Sudamerica come zona di pace (Philip Kelly)
    Paradossi di una guerra in territori lontani (Jorje A. Lagos Nilsson)
    I letterati e l’indio americano (Claudio Mutti)
    Il programma nucleare dell’Argentina (Alessandro Lattanzio)
    Brasile contro Stati Uniti: la predizione di Hegel (Luiz Alberto Moniz Bandeira)
    Argentina e Brasile nello spazio sudamericano: una prospettiva argentina (Félix Peña)
    Difesa nazionale e integrazione regionale (Carlos A. Pereyra Mele)
    La questione dell’identità nazionale in America Latina. Lezioni per l’Europa (Maria Poumier)
    A quarant'anni dalla morte di Ernesto Che Guevara. Riflessioni storiche, politiche e geopolitiche. (Costanzo Preve)
    Integrazione continentale in America latina (Federico Roberti)
    Geopolitica del Brasile: pensiero, motivazioni e azione (Shiguenoli Miyamoto)

    Interviste
    Gianfranco La Grassa, economista (Tiberio Graziani)
    Carlo Bertani, scrittore (Federico Roberti)
    Oscar Abudara Bini, psichiatra e cineasta (Maria Poumier)
    Noam Chomsky, linguista (Daniele Scalea)
    Jesus Arnaldo Perez, ambasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Francia (Jean-Louis Duvigneau)
    Massimo Campanini, studioso del pensiero politico islamico contemporaneo (Enrico Galoppini)

    Continenti
    La ‘primavera di Praga’ e le mosche cocchiere italiane. Seconda parte (Giovanni Armillotta)
    L’enigma della nuova sinistra italiana 1956-1991. Seconda parte (Costanzo Preve)
    Elezioni in Turchia: referendum sul modello islamico (Ernest Sultanov)
    Il sogno panarabo. Seconda parte (Ercolana Turriani)

    Recensioni
    Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana (Claudio Mutti)
    Elisa Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia; Emanuele Giordana, Afghanistan. Il crocevia della guerra alle porte dell’Asia (Claudio Mutti)
    Paolo Affatato e Emanuele Giordana (a cura di), A oriente del Profeta (Enrico Galoppini)
    Luis Nieves Falcón (a cura di), Violation of human rights in Puerto Rico by the United States. Violación de los derechos humanos en Puerto Rico por los Estados Unidos (Daniele Scalea)

    :::: 3/2007 :: lug./set.:::: L'America indiolatinaEditoriale
    Il risveglio dell’America indiolatina (Tiberio Graziani)

    Dossario: Il risveglio dell’America indiolatina
    L’America latina in sintesi (Aldo Braccio)
    Il Sudamerica come katechon metapolitico (Alberto Buela Lamas)
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    Brasile contro Stati Uniti: la predizione di Hegel (Luiz Alberto Moniz Bandeira)
    Argentina e Brasile nello spazio sudamericano: una prospettiva argentina (Félix Peña)
    Difesa nazionale e integrazione regionale (Carlos A. Pereyra Mele)
    La questione dell’identità nazionale in America Latina. Lezioni per l’Europa (Maria Poumier)
    A quarant'anni dalla morte di Ernesto Che Guevara. Riflessioni storiche, politiche e geopolitiche. (Costanzo Preve)
    Integrazione continentale in America latina (Federico Roberti)
    Geopolitica del Brasile: pensiero, motivazioni e azione (Shiguenoli Miyamoto)

    Interviste
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    Continenti
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    L’enigma della nuova sinistra italiana 1956-1991. Seconda parte (Costanzo Preve)
    Elezioni in Turchia: referendum sul modello islamico (Ernest Sultanov)
    Il sogno panarabo. Seconda parte (Ercolana Turriani)

    Recensioni
    Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana (Claudio Mutti)
    Elisa Giunchi, Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia; Emanuele Giordana, Afghanistan. Il crocevia della guerra alle porte dell’Asia (Claudio Mutti)
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  4. #4
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    http://www.eurasia-rivista.org/cogit...TlKHEwiz.shtml

    Il risveglio dell’America indiolatina
    :::: 24 Ottobre 2007 :::: 14:46 T.U. :::: Editoriali :::: Tiberio GrazianiIl risveglio dell’America indiolatina

    di Tiberio Graziani

    Accedere alla bi-oceanità, cioè possedere contemporaneamente una facciata sull’Atlantico ed una sul Pacifico al fine di sfuggire un sicuro accerchiamento, costituisce uno dei principali motori della geopolitica sudamericana dai tempi dell’indipendenza.
    François Thual (*)

    Un nome per il continente dei malintesi (1)

    Se, sulle orme di Yves Lacoste, intendiamo la geopolitica come un metodo utile per analizzare le relazioni tra la geografia e i processi storici, possiamo affermare che ogni designazione geografica racchiude, generalmente, un significato geopolitico. Certamente non sfugge a questa regola il subcontinente americano che abitualmente indichiamo con l’espressione America latina. Per Lacoste, anzi, quest’espressione è, a ragione, doppiamente geopolitica. Non solo perché esprimerebbe, mediante una qualificazione culturale, una opposizione all’altro grande blocco geopolitico dell’emisfero occidentale, l’America del Nord, ove è maggioritaria la cultura anglosassone (2), ma anche perché, storicamente, l’attribuzione “latina” fu opera di geografi, letterati e uomini politici francesi che la utilizzarono durante la guerra di Secessione (1861-1865), a sostegno della spedizione dell’imperatore Napoleone III in Messico (1862). Con tale espressione i propagandisti del Secondo Impero evocavano la possibilità di nuovi legami geopolitici – a fondamento culturale – tra gli Stati ispanici e lusofoni del Continente americano e gli Stati europei linguisticamente affini.

    L’avventura francese in Messico fu possibile in un momento storico di debolezza degli Stati Uniti che, nel pieno di una guerra civile, non erano in grado di far rispettare agli Europei i termini della dichiarazione Adams-Monroe, con la quale, anni prima (1823), si erano candidati alla sovranità sull’intero “emisfero occidentale”. Il tentativo francese di rientrare in gioco nel Continente americano, terminato, come noto, tragicamente con la fucilazione di Massimiliano d’Asburgo (1867), fu accompagnato da una vasta opera di sensibilizzazione delle opinioni pubbliche europee e americane. Già nel 1836, lo scrittore francese, e consigliere di Napoleone III, Michel Chevalier aveva, nelle sue Lettres sur l’Amérique du Nord, identificato la latinità e la cattolicità quali caratteri distintivi del Sudamerica, apparentandolo in tal modo all’Europa meridionale e opponendolo all’America del Nord, protestante e anglosassone. Qualche anno dopo, fu l’abate Emmanuel Domenech, autore di un Journal d’un Missionnaire au Texas et au Mexique (1846–1852), a includere nel concetto di America latina anche il Messico e l’America centrale. L’espressione venne in seguito, nel 1861, utilizzata da L. M. Tisserand per indicare ciò che fino a quel tempo era comunemente chiamato, in Europa, Sudamerica o Nuovo Mondo.

    Nello stesso torno di tempo, parallelamente al crescente impiego del termine “America latina”, si andavano sempre più affermando, in Francia, le tesi del panlatinismo. Queste tesi, in un primo tempo sostenitrici dell’orientamento euromediterraneo della politica estera del Secondo Impero, ben presto lo divennero anche della politica parigina verso il Sudamerica. Vicente Romero (3) rintraccia la caratteristica e il ritmo del “discorso panlatino” nell’evoluzione della “Revue espagnole et portugaise” creata dall‘“agente e propagandista del Secondo Impero” Gabriel Hugelmann. La rivista che “serviva da tribuna alla politica estera francese verso la penisola iberica” (4), cambiò il suo nome in “Revue des races latines” (1857–1861) nel 1857, anno in cui la prospettiva eurolatina andava allargandosi verso gli orizzonti extracontinentali.

    La latinità aveva indubbiamente, osserva Alain Rouquié, “il vantaggio, limitando i legami particolari della Spagna con una parte del Nuovo Mondo, di conferire alla Francia doveri legittimi nei confronti delle sorelle americane, cattoliche e romane” (5). Il panlatinismo francese, però, fu combattuto dalla Spagna in nome della ispanità e dagli Stati Uniti in nome del panamericanismo.

    In realtà, sulla base degli studi di Arturo Ardao (Génesis de la idea y el nombre de America, 1980) e di Miguel Rojas Mix (Los cien nombres de América, 1991), è ormai attestato che il concetto di America latina venne utilizzato per la prima volta nel 1856 dal cileno Francisco Bilbao Barquin (1823-1865) e dal colombiano José Maria Torres Caicedo (1830–1889) (6), con un significato assai diverso da quello attribuito ad esso dai Francesi. Per Bilbao Barquin e Torres Caceido, infatti, il termine voleva esprimere una netta opposizione sia all’espansionismo degli “egoisti” Stati Uniti, sia a quello della “dispotica” Europa. Il termine, che acquisì un vero e proprio contenuto geopolitico solo a partire dal 1862, come più sopra ricordato e nel particolare contesto del panlatinismo (7), divenne d’uso comune soltanto quando le organizzazioni multilaterali lo adottarono dopo il secondo conflitto mondiale (8). Prima, negli anni venti e trenta, diversi intellettuali e politici proposero nuove denominazioni, sempre in opposizione agli Stati Uniti, che tenevano conto dell’elemento indigeno e della sua storia e cultura. Il peruviano Haya de la Torre (9), ad esempio, parlò di Indoamerica, mentre Augusto “César” Sandino teorizzò il concetto di America indolatina. Queste espressioni, tuttavia, non riuscirono ad imporsi.

    È stato giustamente rilevato che il sintagma America latina indica una “rappresentazione geopolitica relativamente recente che si oppone alla divisione classica e geologica del continente americano in tre parti: America del nord, America centrale e America del sud” (10). Tuttavia, tale rappresentazione, inclusiva di Messico e America caraibica, fino a pochi anni fa largamente accettata, è oggi nuovamente messa in discussione da chi rifiuta la “latinità” quale elemento unificante della massa subcontinentale, come i discendenti politici degli autoctoni (10), che ne sottolineano, peraltro giustamente, l’origine imperialista e l’esplicito richiamo a una unilaterale egemonia culturale, e da chi, come Moniz Bandeira (12), le contrappone, con argomentazioni geografiche, geopolitiche ed economiche il Sudamerica, a partire dalla Comunità sudamericana delle nazioni, quale nuovo attore della politica ed economia mondiali.

    La ricerca di una designazione “autonoma” per il subcontinente dell’emisfero occidentale - laddove non ricada nell’ambito di un’esiziale involuzione accentuatamente ed esclusivamente identitaria, che potrebbe risolversi, per un verso, in un inedito panismo indigenista oppure, al contrario, in un nuovo panlatinismo imperniato sull’idea di un’America essenzialmente iberica o romanica - rappresenta un importante elemento dell’ormai acquisita consapevolezza, da parte delle nuove dirigenze indiolatine (13), delle potenzialità geopolitiche del proprio spazio; uno spazio ove poter esercitare, finalmente fuori della tutela nordamericana, la propria legittima sovranità a partire dalle peculiarità geografiche e storico-culturali che lo contraddistinguono.

    Al di là delle contraddittorie e sovente deformanti rappresentazioni elargiteci dagli organi di informazione, e al di là delle analisi, spesso imprecise, fuorvianti e ideologicamente impostate, forniteci dagli addetti ai lavori, sinergicamente tese a veicolare un’immagine di un Sudamerica ora populista, ora militarista, ora “rivoluzionario”, il tratto che accomuna le dichiarazioni e le conseguenti azioni politiche delle nuove classi dirigenti di alcuni Paesi del subcontinente americano, come il Venezuela di Chávez, la Bolivia di Morales o l’Ecuador di Correa, è proprio la consapevolezza della sovranità territoriale e dell’integrazione continentale sudamericana (o indiolatina), quali imprescindibili elementi per rendere il subcontinente americano uno degli attori globali del XXI secolo.

    L’ecumene indiolatina

    Mentre l’America del Nord (Canada, USA e Messico) possiede, a partire dalla rivoluzione americana, un suo centro geopolitico ben definito (14), costituito dagli Stati Uniti d’America, che ne svolgono l’essenziale funzione di regione pivot, così non è per lo spazio indiolatino.

    Infatti, a fronte dell’esistenza di un’area culturale, politica e sociale identificabile come ecumene indiolatina, notiamo che essa è geopoliticamente suddivisa in almeno due entità: il Messico, appartenente peraltro allo spazio geopolitico nordamericano, e il Sudamerica; a queste due entità principali va aggiunto un terzo spazio di condivisione che è costituito dall’America caraibica.

    Le cause della diversa evoluzione storica e politica delle due Americhe - che hanno consentito l’unità geopolitica per quella settentrionale ed una eccessiva frammentazione per quella centromeridionale - sono da mettersi in relazione, oltre che, ovviamente, alle diverse modalità di emancipazione dalle Potenze europee (Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo), principalmente alla determinazione perseguita dalle classi dirigenti statunitensi di costituirsi dapprima come nazione bi-oceanica ed in seguito come potenza–guida dello spazio panamericano.

    Fattori quali le ottime condizioni climatiche, la posizione centrale nello spazio nordamericano e la sovranità dei litorali pacifico e atlantico hanno permesso agli USA di svilupparsi in autonomia ed assumere un ruolo egemonico nell’intero emisfero occidentale, a spese proprio del Sudamerica, verso il quale hanno esercitato, fin dalla dichiarazione Monroe, una continua politica di pressione che non ha esitato a utilizzare mezzi coercitivi e in apparente contraddizione con i proclamati ideali di “libertà e democrazia”. Si pensi per un istante al sostegno di Washington alle dittature militari del Cile e dell’Argentina, all’aggressione di Panama, alla massiccia presenza, durante il secolo scorso, di “consiglieri militari” statunitensi nelle varie repubbliche sudamericane.

    Oltre al fattore bi-oceanico, un altro elemento, che può aiutarci a comprendere perché il Sudamerica non sia riuscito a costituirsi come unità geopolitica, è da rintracciarsi nei differenti percorsi con cui l’America “spagnola” e l’America “portoghese” si resero indipendenti dalla Spagna e dal Portogallo.

    Osserviamo, infatti, che, mentre il Brasile giunse all’emancipazione in maniera indolore, grazie al principe Pedro, la cui decisione di proclamare l’Impero del Brasile e l’indipendenza da Lisbona (1822) permise il mantenimento dell’integrità territoriale e successivamente la sua trasformazione in Repubblica (1889), l’America spagnola “nonostante l’ideale d’unità che animava le lotte per l’indipendenza non tardò a frammentarsi” (15). La creazione di diverse repubbliche, con il patrocinio della Gran Bretagna e degli USA, alleate nell’escludere la Spagna dal bottino sudamericano, ma concorrenti nella sua spartizione, fu favorita “dall’immensità geografica, dalle difficoltà di comunicazioni interne che rafforzarono l’intensità dei regionalismi esistenti e all’espansionismo di alcune capitali” (16). I regionalismi esistenti furono poi, assieme ad altri fattori, tra cui certamente l’ingerenza straniera nordamericana e britannica, una delle cause dell’instabilità politica e delle guerre che segnarono la storia degli stati sudamericani per tutto il XIX secolo.

    Il filosofo e politologo argentino Alberto Buela, descrivendo le forme e la crisi dello stato contemporaneo, ha giustamente scritto, riguardo alla particolare genesi degli Stati sudamericani: “La finalità dello Stato–nazione americano, dal carattere repubblicano e liberale creato al principio del XIX secolo, sarà la creazione delle nazioni. Questo Stato-nazione tenderà ideologicamente al nazionalismo ‘de fronteras adentro’, espressione dei localismi più irriducibili incarnati dalle oligarchie vernacolari, impermeabili a una visione continentale” (17). Il localismo e il nazionalismo di matrice illuminista concorreranno, dunque, ad impedire la costituzione di un grande spazio politicamente ed economicamente coeso, tale da contenere l’espansionismo nordamericano, mentre, al contrario, il retroterra politico (e culturale) “imperiale” permetterà al nuovo Brasile indipendente di organizzarsi come paese-continente e mantenere, per tale motivo, la propria autonomia. Anzi, a differenza della frammentazione degli ex vicereami spagnoli in una ventina di stati, il Brasile allargherà, dal 1822 al 1910, proprio a spese delle “patrias chicas”, le proprie frontiere lungo direttrici geopolitiche e strategiche volte ad assicurargli sicurezza e stabilità. Degno di nota, per l’analisi geopolitica, è inoltre il fatto che la proclamazione dell’Impero del Brasile, oltre a conferire a quest’ultimo l’indipendenza dal Portogallo, ne determinò, per così dire, il carattere “terrestre” e continentale: il passaggio insomma da possedimento dell’impero coloniale e “oceanico” del Portogallo a grande spazio geopoliticamente autocentrato. Ne è testimonianza la dislocazione delle sue capitali: dalle costiere Salvador de Bahia (XVIII sec) e Rio de Janeiro (XIX sec.) alla “continentale” Brasilia (XX sec.).

    Il risveglio dell’America indiolatina tra tensioni locali ed integrazione continentale

    L’integrazione del Sudamerica è un antico progetto politico e geopolitico che ha sempre stentato a realizzarsi a causa, principalmente, delle ingerenze extracontinentali e dell’egoismo delle oligarchie locali.

    La coscienza, infatti, delle strette relazioni che intercorrono tra indipendenza nazionale, sovranità subcontinentale e giustizia sociale è sempre stata viva nelle dirigenze autenticamente sudamericane. A tale coscienza, tuttavia, non è stata mai associata una pratica politica conseguente, giacché lo strabismo ideologico e gli interessi nazionalisti e classisti hanno continuamente inficiato tutte le opportunità d’integrazione subcontinentale ed anzi sono stati strumentalizzati, prima dalla Gran Bretagna poi, nel corso del XX secolo, dagli USA, proprio al fine di mantenere lo spazio sudamericano gepoliticamente frammentato.

    Nel passato, in particolare, le incomprensioni tra alcuni Paesi come il Brasile, l’Argentina e il Cile, nonché la loro concorrenza nell’assumere un ruolo egemonico nell’intera regione, hanno a lungo allontanato la prospettiva d’integrazione continentale. Oggi, dopo le dittature degli anni ‘70 e l’ubriacatura liberista degli anni ‘80 e ‘90, fenomeni che trovano una delle proprie ragioni d’essere nel confronto geopolitico mondiale tra USA e URSS, per i Paesi del Sudamerica sembra riaprirsi lo scenario di un’integrazione regionale su base non soltanto economica, ma soprattutto politica. Ne sono un esempio i grandi progetti di infrastrutture continentali, gli otto Assi di sviluppo e integrazione dell’Iniciativa para la Integración de la Infraestructura Regional Suramericana (IIRSA), tra cui i quattro importanti assi “bi-oceanici”: l’Asse delle Amazzoni, che metterà in contatto i porti di Tumaco (Colombia), Esmeraldas (Ecuador), Paita (Perú) con quelli brasiliani di Manaos, Belén e Manapá; l’Asse Interoceanico Centrale che collegherà Brasile, Perù e Cile passando per la Bolivia ed il Paraguay ed infine l’Asse del Capricorno e quello Mercosur-Cile. Questi assi permetteranno alla nuova America indiolatina di proiettarsi contemporaneamente sui mercati asiatici, europei e africani.

    Le nuove infrastrutture bi-oceaniche, la nazionalizzazione delle risorse strategiche e un’equa ridistribuzione delle ricchezze nazionali sono gli elementi che renderanno il Grossraum sudamericano una vera unità geopolitica ed un protagonista del nuovo sistema multipolare.

    Affinché ciò avvenga, tuttavia, occorre che le personalità più lucide dei vari governi nazionali e le forze più autenticamente sudamericane sappiano bilanciare le forze centripete e quelle centrifughe che determinano la politica interna e quella estera dei propri Paesi, sappiano cioè resistere alle tentazioni localistiche e, contemporaneamente, ai tentativi statunitensi di coinvolgerli in un raggruppamento regionale panamericano, subordinato agli interessi mondiali di Washington.

    Se così sarà, Simon Bolivar non avrà inutilmente “arado en el mar”.

    Se così sarà, l’indipendenza continentale sarà assicurata e il sacrificio degli antichi abitanti riscattato.

    Note

    * François Thual, Abrégé géopolitique de l’Amerique latine, p. 48, Paris 2006.

    1. Scrive il diplomatico ed esperto di America latina Alain Rouquié a proposito dell’America: “Già dall’epoca di Colombo, l’America è il continente dei malintesi. L’ammiraglio cercava la via delle Indie, ma scoprì gli indios, vale a dire il Nuovo Mondo” (L’America latina. Introduzione all’Estremo Occidente, p. 11, Milano 2007). Il termine America per designare il Nuovo Mondo appare per la prima volta nel 1507, nella mappa che accompagnava il libro Cosmographiae Introductio dell’umanista e cartografo tedesco Martin Waldseemüller.

    2. Yves Lacoste, Géopolitique. La longue histoire d’aujourd’hui, Paris 2006, p. 132. In riferimento all’omogeneità linguistica dell’America del Nord, ricordiamo che in Canada le lingue ufficiali sono l’inglese e il francese e i gruppi etnici così suddivisi: inglesi 34,2 %, francesi 22,7 %, amerindi 2%, meticci 1 %, inuit 0,1 %, altri 40 % (fonte: Calendario Atlante De Agostini 2006, Novara 2005, p. 390.

    3. Vicente Romero, Du nominal “latin” pour l’Autre Amérique. Not sur la naissance et le sense du nom « Amérique latine » autour des années 1850, “HSAL – Histoire et Société de l’Amérique latine”, n. 7, 1998, pp. 57-86.

    4. Vicente Romero, op. cit., p. 64.

    5. Alain Rouquié, op. cit., p. 19.

    6. Vicente Romero, op. cit., p. 57.

    7. Alfred Mercier, Du Panlatinisme, nécessité d’une alliance entre la France et la Confédération du Sud, 1862.

    8. Luiz Alberto Moniz Bandiera, ¿America latina o Sudamerica?, “Clarin”, 6/5/2005.

    9. Haya de la Torre, Víctor Raúl, A dónde va Indoamérica? Editorial Ercilla, Santiago de Chile 1935.

    10. Olivier Dollfus, Amérique latine, in Dictionnaire de Géopolitique (sous la direction de Yves Lacoste), Paris 1995, p. 134.

    11. "Es necesario precisar que los únicos “latinoamericanos” que existen en nuestros países son los descendientes directos de los españoles, franceses y portugueses; quienes, anotamos de pasada, a pesar de que son una minoría absoluta, detentan todo el poder político, económico, militar y hasta religioso. Ellos son los que imponen en los planes de estudios la versión de los vencedores europeos así como el culto a los valores de la civilización occidental moderna. De otro lado, es bastante claro que el proceso educativo en nuestros países se transforma en un verdadero “lavado cerebral”, en algunos casos se hace en forma sutil en otras es terriblemente brutal, todo ello al amparo de la “democracia”, de los “derechos humanos” y de la “libertad”. Si piensan que exageramos revisen los planes de estudios –de primaria y secundaria- de los países mencionados arriba, el objetivo es claro: hacer desarraigar al amerindio e indo-mestizo de su verdadera identidad étnica y cultural, castrarlo espiritualmente y anular su memoria histórica... podríamos concluir afirmando que “latinoamérica” o “américa latina” no es para nada una realidad territorial, sea de carácter subcontinental o regional, sino más bien ella es la expresión hegemónica de una minoría de origen europeo (los latinos), quienes gobiernan nuestros países, y son propietarios de las riquezas nacionales" (Intisonqo Waman, ¿Existe verdaderamente la llamada América Latina asì como los susodichos latinoamericanos? Anos 5506 de la Era Andina, agosto de 1998 de la era vulgar).

    12. Luiz Alberto Moniz Bandeira, ¿America latina o Sudamerica?, “Clarin”, 6/5/2005.

    13. Utilizziamo il termine “indiolatini” per designare gli abitanti dello spazio che va dal Messico sino alle estreme propaggini del Sudamerica, con lo scopo di sottolineare la specificità del processo storico che accomuna gli attuali discendenti degli Europei e dei primi abitatori di questa porzione dell’emisfero occidentale. L’espressione “indolatino”, spesso usata, non ci pare appropriata, giacché l’elemento “indo” riporta, semanticamente, all’India asiatica.

    14. Messo tuttavia in crisi dalla Guerra civile del 1861-‘65.

    15. François Thual, op. cit., Paris 2006, p. 13.

    16. François Thual, ibidem.

    17. Alberto Buela, Formas del Estado contemporáneo in Notas sobre el peronismo, Buenos Aires 2007, pp. 86-87.

  5. #5
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    Rischioso.
    Da un lato potrebbe far desistere gli USA dalle ingerenze in Georgia e, più in generale, nell'area ex-sovietica (per la serie "occhio per occhio, dente per dente").
    Dall'altro lato, la cosa potrebbe degenerare. Queste reciproche "invasioni di campo" vanno bene nel breve periodo, nel lungo periodo possono degenerare.

    Ma queste sono solo ipotesi delle 00:26. Nulla di più.

  6. #6
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  7. #7
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    http://www.claudiomutti.com/index.php?url=6&imag=1&id_news=133

    I letterati e l'indio americano


    Gli Stati Uniti sono incrollabili e grandi,
    (…) Siete ricchi,
    voi che Denaro e Forza sugli altari scolpite
    (…)
    Ma l’America nostra che nutriva poeti
    fino dai tempi antichi di Netzhualcoyotl,
    (…)
    l’America del grande Montezuma, dell’Inca,
    (…)
    è viva, e sogna, e pulsa, è la figlia del Sole:
    non lo dimenticate che l’America è viva!
    (…)
    E a voi che tutto avete, manca una cosa: Dio!
    Rubén Darío, A Roosevelt




    Dietro la maschera degli dèi aztechi: la dottrina Monroe

    Amputato dei suoi territori settentrionali (Texas e California), sconvolto da continui disordini, politicamente ingovernabile per la spaccatura che separava l’oligarchia terriera dalla borghesia liberale, a metà del XIX secolo il Messico era immerso in una grave crisi strutturale. Nel 1858 il governo liberale di Benito Juárez, che si era insediato a Vera Cruz, si contrappose al presidente eletto, il generale conservatore Miramón; sconfitti dai liberali, che erano riusciti a impadronirsi di Città del Messico, i conservatori sollecitarono un intervento europeo. Nel 1862 una spedizione anglo-franco-spagnola occupò Vera Cruz; nell’anno successivo la Francia di Napoleone III, desiderosa di recuperare nel Messico quell’influenza che aveva perduta nel 1803 cedendo la Louisiana a Jefferson, occupò la capitale messicana ed organizzò un plebiscito che sancì la nascita della monarchia e l’ascesa dell’arciduca Ferdinando Massimiliano d’Absburgo, fratello di Francesco Giuseppe, sul trono del Messico.
    Accompagnato dalla moglie Carlotta, figlia di Leopoldo re del Belgio, Massimiliano partì il 14 aprile 1864 dal suo castello di Miramar presso Trieste per andare a regnare sul neonato “impero del Messico”. Ma i liberali, capeggiati da Juárez e appoggiati dagli Stati Uniti, passarono alla riscossa ed obbligarono i Francesi a ritirarsi. A nulla valse il disperato tentativo della sposa di Massimiliano, la quale tornò in Europa per supplicare Napoleone III di restituire al Messico il presidio francese; ricevutone un rifiuto, si rivolse anche al Papa, ma anche questo passo fu inutile, sicché Carlotta irrimediabilmente impazzì. Così Juárez poté costringere Massimiliano a ritirarsi coi suoi pochi fedeli a Queretaro, dove il 19 giugno 1867 venne fucilato.
    Undici anni dopo la morte di Massimiliano, da una visita di Giosue Carducci al castello di Miramar nasce un’ode in saffiche barbare (Miramar) che rievoca la partenza di Massimiliano per l’oltreatlantica “Spagna degli Aztechi”. Il poeta immagina che la partenza dell’Absburgo venga accompagnata da un presagio sinistro: le vecchie fate dell’Istria o le anime dei marinai veneti morti in battaglia cantano una lugubre nenia, mentre sull’imbarcatoio la sfinge di pietra assume davanti a Massimiliano diversi aspetti: quello di Giovanna la Pazza (1479-1555), che impazzì per la morte del marito Filippo il Bello come di lì a poco impazzirà Carlotta; quello di Maria Antonietta, decapitata nel 1793; e infine quello di Montezuma, il re azteco ucciso nel 1520 dagli Spagnoli al seguito di Fernando Cortés. Quindi la fantasia del Carducci inserisce nel canto la maledizione di Huitzilopochtli, il dio che dal suo tempio messicano annusa il sangue della prossima vittima: “Tra boschi immani d’agavi non mai – mobili ad aura di benigno vento, - sta ne la sua piramide, vampante – livide fiamme – per la tenèbra tropicale, il dio – Huitzilopotli, che il tuo sangue fiuta, - e navigando il pelago co ‘l guardo – ulula: Vieni”.
    Per il Carducci il corso degli eventi storici è governato da una misteriosa forza immanente, una sorta di Nemesi che tutela l’ordine e l’equilibrio delle cose. Come Eugenio Napoleone trafitto dalla zagaglia degli Zulù paga il fio del colpo di Stato del 2 dicembre 1851 fatto da suo padre Napoleone III (In morte di Napoleone Eugenio), così Massimiliano d’Absburgo sconta a Queretaro le colpe degli avi, sicché il poeta può attribuire al nume azteco queste parole: “Quant’è che aspetto! La ferocia bianca – strussemi il regno ed i miei templi infranse: - vieni, devota vittima, o nepote – di Carlo quinto”. Non dunque gli Absburgo malati o smaniosi di potere, ma il giovane Massimiliano fiorente di bellezza e di vigore è la vittima espiatoria prescelta dalla feroce divinità azteca, sicché i mani di Guatimozino, ultimo imperatore del Messico, non potranno ricevere offerta sacrificale più degna: “Non io gl’infami avoli tuoi di tabe – marcenti o arsi di regal furore; - te io voleva, io colgo te, rinato – fiore d’Absburgo; - e a la grand’alma di Guatimozino – regnante sotto il padiglion del sole – ti mando inferia, o puro, o forte, o bello – Massimiliano”.
    Riprendendo le indicazioni proposte da Károly Kerényi, che al “mito genuino” sgorgato spontaneamente dalle profondità dello spirito umano ha contrapposto il “mito tecnicizzato” elaborato in maniera interessata per servire a uno scopo ben preciso di natura politica (1), Furio Jesi considerava la manipolazione del mito una prerogativa caratteristica di quella “cultura di destra” che, a suo parere, avrebbe avuto i suoi esponenti di spicco in Eliade, Evola, D’Annunzio, Pirandello e… Liala (2). Orbene, se per rappresentare degnamente la “cultura di destra” bastasse essere “manipolatori” di miti ed “atteggiarsi efficacemente a veggenti” (3), chi più del Vate della Terza Italia meriterebbe di essere ascritto a tale corrente? E invece Carducci non è per nulla un esponente della “cultura di destra”, anche se “nel classicismo democratico, anticlericale, massonico e nazionalista, monarchico e bellicista di Carducci convivono molte anime” (4). E tuttavia è fuor d’ogni dubbio che in Miramar abbiamo un caso esemplare di “tecnicizzazione del mito”, poiché Huitzilopochtli e Guatimozino non sono altro che finzioni poetiche, maschere dietro le quali si nascondono realtà niente affatto numinose e sacrali, ma profane e volgari: l’imperialismo statunitense e la dottrina Monroe. Quest’ultima, enunciata il 2 dicembre 1823, era stata violata dall’invio delle truppe francesi nel Messico; e l’Unione non avrebbe mai riconosciuto il governo di Massimiliano, anzi, si sarebbe opposta con ogni mezzo alla presenza di truppe europee sul territorio dell’America, “probabilmente reso sacro dalla presenza degli Stati Uniti stessi” (5).

    La rinascita degli dèi aztechi come metafora della rivolta autoctona

    Nei Letterati e lo sciamano, che è una rassegna storica dell’immagine dell’aborigeno del Nuovo Mondo quale essa via via appare nelle opere letterarie ed etnologiche degli scrittori europei e nordamericani, Elémire Zolla dedica poco più di una mezza pagina a David Herbert Lawrence (1885-1930), narratore inglese che “percepì la presenza dell’Indiano oltraggiato nello spirito della terra americana, nella strana brutalità che ne emerge” (6). Zolla cita The Hopi Snake Dance (uno dei racconti di Mornings in Mexico), in cui Lawrence “giunse al cuore della vita indiana, centrata sul sole, fonte vivente della vita” (7); ma stranamente non fa alcuna menzione di The Plumed Serpent, che Lawrence scrisse in Messico tra il 1923 e il 1925 e pubblicò nel 1926.
    The Plumed Serpent, che fu tradotto in italiano nella prima metà degli anni Trenta da Elio Vittorini, quando per lui gli Stati Uniti non erano ancora diventati “una grande metafora di libertà e di futuro” (8). È “il romanzo dell’antidoto al volontarismo, all’americanismo” (9), poiché gli indios di Lawrence “rappresentano tutto quello che evade dai confini della moderna civilizzazione” (10). È la storia di una vedova irlandese quarantenne, Kate Leslie, la quale in Messico incontra due uomini: il generale Don Cipriano, un indiano puro che ha studiato a Oxford e l’archeologo e storico Don Ramón. Identificandosi rispettivamente con Huitzilopochtli e con Quetzalcoatl, i due aspirano a far rivivere l’antica religione azteca, convinti che solo la rinascita degli dèi autoctoni possa salvare il loro popolo. Non solo il Messico, ma tutto il continente americano è infatti precipitato nella decadenza da quando ha avuto luogo “l’esodo immane verso il Nuovo Mondo, l’esodo di tutte le anime esaurite verso il regno della democrazia senza Dio” (p. 123), da quando “uomini d’ogni colore e d’ogni razza, (…) quelli cui era venuto a mancare l’impulso di Dio, (…) accorrevano al grande continente della negazione, dove la volontà umana si dichiara ‘libera’ per opprimere e annientare l’anima del mondo” (ibidem). Attratta e affascinata da un’atmosfera impregnata di psichismo arcaico, Kate accetta di assumere il ruolo della dea Malintzi sposando Don Cipriano; ma ben presto avvertirà una sorta di orrore nei confronti nell’ambiente e si risolverà di tornare in Irlanda. All’ultimo momento, però, cambierà idea e resterà in Messico.
    Don Cipriano e Don Ramón sono una proiezione dell’Autore, così come Kate Leslie rispecchia sua moglie Frieda von Richtofen ed altre figure del romanzo riflettono personaggi realmente esistiti. Don Ramón, in particolare, sarebbe la trasposizione letteraria di José Vasconcelos, il “Ministro a cavallo” che negli anni Venti andava a controllare di persona come veniva applicato presso le tribù indiane del Messico il programma governativo di istruzione popolare. Ma non in questo risiede l’interesse di The Plumed Serpent, che, “inteso alla rappresentazione d’un propugnato ritorno alle manifestazioni di vita indiana da contrapporre all’americanismo” (11), nelle intenzioni di Lawrence “doveva essere il romanzo dell’illusione in un potenziamento del mondo indiano, indigeno, dell’America autoctona, anteriore alla nuova America, all’America posteriore all’invasione europea” (12).
    Alla protagonista del romanzo, la nuova America appare come “un immenso continente di morte, la suprema negazione opposta al Sì dell’Europa, dell’Asia e perfino dell’Africa. Era il grande crogiolo dove gli uomini dei continenti positivi venivano di nuovo posti a fondere, e non per una nuova creazione, ma per raggiungere l’omogeneità della morte? Era il gran continente del disfacimento e quelli che l’abitavano erano gli operai della mistica distruzione! (…) Era il grande continente della morte, e distruggeva tutto quello che gli altri continenti avevano edificato? Era abitato da uno spirito che voleva cavar fuori gli occhi dal volto di Dio? Era questa l’America?” (p. 123).
    Contro la barbarie della nuova America, Lawrence intravede la possibilità di un’alternativa: la riscossa dell’America indigena. In Messico, circa metà della popolazione è costituita di Indiani puri; “poi c’è una piccolissima percentuale di spagnoli e altri stranieri. E infine c’è la massa di sangue misto, ch’è la maggioranza. E questi dal sangue misto sono i messicani veri e propri” (p. 105). Dai discendenti dei conquistadores non ci si può aspettare nulla, perché sono svuotati di ogni energia: “una razza soggiogata, se non le si innesta una nuova ispirazione, lentamente succhia il sangue dei conquistatori nel silenzio della sua notte e con la pesantezza della sua volontà priva di speranza. È così che ora nel Messico la razza dei conquistatori è molle e disossata” (p. 125). I possidenti messicani sono perciò una classe di vigliacchi: “Tutti desiderano l’intervento degli Stati Uniti. Odiano gli americani, ma desiderano l’intervento degli Stati Uniti per la salvezza del loro denaro e delle loro proprietà” (p. 155). Parlando ai suoi soldati, Don Cipriano fa dunque appello al sangue di Montezuma: “Il Messico è pieno di gringos. Abbiamo lasciato che venissero. E ora bisogna lasciarli restare. Come potremmo mandarli via? (…) Ma non abbiamo ancora perduto il Messico. Non ci siamo ancora perduti. Noi siamo il sangue dell’America, siamo il sangue di Montezuma” (p. 469).
    Ma la riscossa del Messico non può aver luogo senza il risveglio degli antichi dèi e la distruzione della religione cristiana imposta dagli stranieri. Don Ramón “dice di voler stabilire un nuovo rapporto tra il popolo e Dio” (p. 235) e lo stesso presidente della repubblica, Montes, che “non aveva simpatia per la Chiesa e già meditava di espellere dal Messico tutti i preti stranieri” (p. 349), parlando con Don Cipriano approva il progetto di Don Ramón: “Io voglio salvare il paese dalla miseria e dall’oscurantismo, lui vuol salvarne l’anima” (p. 265). Dall’idea di Don Ramón nasce un movimento popolare che, propagandosi in tutto il paese, provoca un vero e proprio scontro religioso. “L’Arcivescovo si era dichiarato contro, e Ramón e Cipriano e i loro seguaci erano stati scomunicati. S’era anche attentato alla vita di Montes. I partigiani di Quetzalcoatl avevano trasformato la chiesa di San Giovanni Battista, a Città del Messico, in Casa Metropolitana di Quetzalcoatl, e il popolo la chiamò la chiesa del Salvatore Nero (…) Le strade erano percorse da bande vestite delle serapes bianche e azzurre di Quetzalcoatl, o di quelle rosse e nere di Huitzilopotli, che marciavano al suono dei tom-tom (…) Nelle chiese i preti incitavano i fedeli alla guerra santa, mentre altri preti convertitisi a Quetzalcoatl arringavano la folla nelle piazze. (…) In seguito Montes dichiarò illegale la Chiesa Cattolica nel Messico e promulgò una legge che proclamava religione nazionale della Repubblica quella di Quetzalcoatl” (pp. 534-535).

    Il sogno dell’impero inca

    “L’importanza dell’opera di Lawrence è enorme, incalcolabile”, scrisse nella prefazione a L’homme qui connut la mort Pierre Drieu La Rochelle (1893-1945), “uno dei pochissimi intellettuali francesi di ieri e di oggi che abbia compreso D.H. Lawrence” (13). “Buon Europeo” al pari di Lawrence, anche Drieu denunciò la decadenza dell’Europa e il pericolo americano; ma, diversamente da Lawrence, Drieu ripose nel Terzo Reich la speranza della nascita di un’Europa unita e forte, sicché nel 1943 vide naufragare le proprie aspettative. La delusione dello scrittore francese ispira L’homme à cheval (14), il suo penultimo romanzo, che appare in quello stesso anno presso Gallimard. La trama, suggerita a Drieu da una conversazione avuta undici anni prima con Borges a Buenos Aires, è abbastanza semplice. Nella Bolivia del 1868 il capitano Jaime Torrijos elimina il vecchio dittatore reazionario e si impadronisce del potere, che deve difendere contro gli intrighi del clero cattolico e della massoneria. Successivamente Jaime concepisce il disegno grandioso di ridare vita all’impero inca attraverso l’unione politica di Bolivia, Perù e Cile, ma l’esercito boliviano viene sconfitto da una coalizione militare cileno-peruviana. Accompagnato dai suoi seguaci, tra i quali svolge un ruolo di consigliere il musico-teologo Felipe, deuteragonista del romanzo, Jaime raggiunge il lago Titicaca; lassù, in un antico santuario inca, immola il proprio cavallo in un rito sacrificale. Quindi s’avvia a piedi, da solo, verso l’Amazzonia, dove gl’Inca si erano rifugiati quattro secoli prima.
    Nelle vene del giovane ufficiale di cavalleria scorre il sangue dei guerrieri inca, misto a quello dei conquistatori spagnoli; perciò, alla domanda se si consideri spagnolo o indio, egli risponde: “Sono sudamericano” (p. 219). In gran parte del Sudamerica è difficile dire se si è indiani o spagnoli, sicché Jaime può proclamare: “Io sono un meticcio e, a cominciare da me, in Bolivia avrete sempre dei meticci per capi. È come dire che il sangue indiano finirà per trionfare” (p. 184). A determinare il senso di identità non è tanto l’origine razziale, quanto l’appartenenza ad un ambiente dominato dal genius loci: “Non è questione di sangue, è l’aria del paese. Ora su questi altipiani, noi, venuti da un luogo così diverso, respiriamo da trecento anni la stessa aria degli Indiani” (p. 78). Lo stesso concetto viene ribadito da Felipe: “Io non ho una goccia di sangue indiano. Ma si può vivere dopo una serie di generazioni su un suolo senza essere conquistati dagli spiriti di questo suolo?” (p. 81). Jaime può dunque enunciare il suo progetto politico solo nei termini seguenti: “Voglio rinnovare il popolo indiano. Come uomo di Stato voglio questo, che è inevitabile. Il sangue spagnolo non è ormai quasi più nulla nell’America del Sud. Sarà affogato. La razza indiana rinascerà dal colpo terribile che ha ricevuto, si adatterà, assimilerà la vita dei suoi antichi vincitori. Uscirà dalla sua pigrizia, che è quella di un malato, di un convalescente” (p. 191).
    In ogni caso, è l’eredità spirituale degli Inca ad animare l’azione di Jaime Torrijos. “È il grandioso, splendente mito inca, che Torrijos vuole rigenerare, conferendo così rinnovata dignità ed autorità ad un decaduto popolo sudamericano rammollitosi nell’oppressione e nello spregio arrecato al suo glorioso passato dai nuovi dominatori. Bisogna che questa umiliata, calpestata massa amorfa riscopra le sue radici, la sua dignità di sangue, affinché possa infine scuotersi e reagire agli oppressori” (15).
    Secondo il progetto di Jaime, tale rigenerazione doveva avvenire nel quadro dell’edificazione di un impero: occorreva “distruggere gli oligarchi, svegliare gli Indiani e rifare l’impero inca” (p. 114). Ma che significa impero? Come scrive lo stesso curatore dell’edizione italiana del romanzo di Drieu, “ciò che contraddistingue e qualifica l’impero rispetto alle altre costruzioni politiche, o più precisamente geopolitiche, sembra essere (…) la funzione equilibratrice che esso tende ad esercitare nello spazio che lo delimita. (…) La funzione regolatrice assolta dall’impero trova la propria ragion d’essere, oltre che nella coscienza del comune spazio abitato, soprattutto nella comune visione spirituale, seppur variamente intesa ed espressa nelle culture delle differenti popolazioni dell’impero” (16).
    Se Jaime avesse conquistato il Cile e il Perù e li avesse aggregati alla Bolivia, “tutte queste repubbliche non sarebbero più delle piccole province frivole e piacevoli, ma costituirebbero un impero, qualcosa che strappa gli uomini da loro stessi” (p. 222). Drieu affida al teologo Felipe il compito di enunciare la necessità dell’unità continentale: “Noi eravamo di quelli, Jaime ed io, che hanno bisogno della loro patria e di altre patrie ancora” (p. 217-218). E ancora: “Che cos’è un palazzo boliviano per chi ha sognato l’America? La patria è amara per chi ha sognato un impero. Che cos’è per noi una patria, se non una promessa d’impero?” (p. 231)
    D’altronde i tipi eroici evocati come paradigmi ideali dal personaggio di Jaime Torrijos sono proprio i grandi costruttori d’imperi: “Ho pensato (…) ad Alessandro, a Gengis, a Tamerlano, a quelli che hanno oltrepassato tutte le speranze, a quelli che hanno unito due continenti; io, io mi sarei accontentato della metà d’un continente” (p. 222). Ma vi sono anche altri modelli, europei e sudamericani, ai quali il capitano Jaime paragona se stesso: “Forse anch’io sono in anticipo di un secolo, come Lopez e Rozas, come Bismarck e Napoleone” (p. 215). Più che a questi personaggi, “l’uomo a cavallo” larochelliano, coi suoi cavalleggeri indios, potrebbe indurci a pensare ad Ungern Khan, l’“eurasiatista a cavallo” che avrebbe voluto guidare i mongoli della sua Divisione Asiatica di Cavalleria alla conquista di un impero nel cuore dell’Eurasia.
    Il sogno di Jaime è sfumato come quello di Ungern. Resta la predizione di Felipe: “Il tempo degli imperi verrà; consolati, Jaime” (p. 235).



    1. Károly Kerényi, Dal mito genuino al mito tecnicizzato, in Atti del colloquio internazionale su “Tecnica e casistica”, Roma 1964, pp. 153-168; Idem, Il rapporto con il divino, Einaudi, Torino 1991, p. 117 e sgg.
    2. Furio Jesi, Cultura di destra, Garzanti, Milano 1979.
    3. Furio Jesi, Mito, Isedi, Milano 1973, p. 81.
    4. Alberto Asor Rosa, Storia d’Italia, IV, Dall’Unità a oggi, Einaudi, Torino 1975, p. 795.
    5. Agostino degli Espinosa, Imperialismo U.S.A., Augustea, Roma 1932, pp. 199-200.
    6. Elémire Zolla, I letterati e lo sciamano, Bompiani, Milano 1978, p. 247.
    7. Ibidem.
    8. David Herbert Lawrence, Il serpente piumato, Traduzione di Elio Vittorini, Mondadori, Milano 1935. Le mie citazioni fanno riferimento alla IV ristampa degli Oscar Mondadori, giugno 1975. – Alcuni anni dopo aver tradotto The Plumed Serpent, nel 1942, Elio Vittorini pubblicò presso Bompiani l’antologia Americana. È stato detto che per Vittorini e per coloro che lo affiancarono in questa iniziativa in qualità di traduttori (tutti più o meno gravitanti nell’orbita del Partito Comunista clandestino) “la letteratura americana contemporanea (…) diventò una sorta di bandiera; e fu anche e forse soprattutto come un implicito manifesto di fede antifascista che Vittorini concepì e realizzò la sua antologia. L’America doveva risultare anche per i lettori, come era per lui, una grande metafora di libertà e di futuro” (Giovanni Raboni, E un giorno la sinistra si risvegliò americana. Sessant’anni fa la mitica antologia di Vittorini smontò l’idea fascista sugli Usa “Impero del Male”, “Corriere della sera”, 24 settembre 2002, p. 35).
    9. Piero Nardi, Introduzione a: D. H. Lawrence, op. cit., p. 18.
    10. Franz Altheim, Romanzo e decadenza, Settimo Sigillo, Roma 1995, p. 68.
    11. Piero Nardi, op. cit., p. 19.
    12. Piero Nardi, op. cit., p. 18.
    13. Fabrice Valclérieux, Le roman de la résurrection païenne, “Éléments” , n. 16, giugno-agosto 1976, p. 34.
    14. Pierre Drieu La Rochelle, L’uomo a cavallo, Il Sigillo, Venezia 1978. – Drieu scrive nel Diario, in data 8 febbraio 1943: “Sto per pubblicare L’Homme à cheval, scritto fra i primi mesi dell’anno e l’agosto”. E in data 15 marzo: “Quanto vale L’Homme à cheval? Tra poco uscirà, e l’eterna delusione tornerà nel mio cuore che pure non se ne cura” (P. Drieu La Rochelle, Diario 1939-1945, Il Mulino, Bologna 1995, pp. 331 e 341.
    15. Moreno Marchi, Drieu La Rochelle. Una bibliovita, Settimo Sigillo, Roma 1993, p. 46.
    16. Tiberio Graziani, Prefazione a: Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 8-9.

  8. #8
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    Citazione Originariamente Scritto da Gen. Bava Visualizza Messaggio
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    Da un lato potrebbe far desistere gli USA dalle ingerenze in Georgia e, più in generale, nell'area ex-sovietica (per la serie "occhio per occhio, dente per dente").
    Dall'altro lato, la cosa potrebbe degenerare. Queste reciproche "invasioni di campo" vanno bene nel breve periodo, nel lungo periodo possono degenerare.

    Ma queste sono solo ipotesi delle 00:26. Nulla di più.
    Come si dice a Roma, "ma magari ce cascano".

 

 

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