OMNIA SUNT COMMUNIA

Ricevo e pubblico

Salvatori della patria
di Domenico Moro

Finalmente sappiamo le motivazioni che hanno spinto Colaninno a salvare l’Alitalia. Infatti, nell’intervista rilasciata ad Ezio Mauro ed apparsa venerdì scorso sulla Repubblica, alla domanda sul perché si sia deciso a muoversi il top manager risponde: “Provo a dirlo in modo semplice: la responsabilità. Se fai l’imprenditore, una sfida come questa ti chiama, come un dovere.” Ma perché proprio l’Alitalia, chiede imperterrito il giornalista? “Perché si chiama come il mio paese.” Risponde con orgoglio il patron della Piaggio e aggiunge “…Santo Dio è una partita che non possiamo perdere, tutti insieme.”

Che siamo davanti alla versione mediterranea dell’idealtipo weberiano del capitalista calvinista, “chiamato” all’intrapresa dall’etica e in sovrappiù dal patriottismo? Nessun dubbio su questo, tanto più che quando Mauro chiede a Colaninno se ha dimenticato che l’opzione Air France avrebbe comportato minori costi per il contribuente e più rispetto per il mercato, Colaninno, sicuro, risponde: “Lo so benissimo.” E, alla constatazione che tutto il debito di Alitalia si scarichi sullo Stato, chiarisce: “Mi scusi, ma lei sa dirmi come possiamo salvare questa azienda se non si fa così? Io con tutta la buona volontà, non sono mago Merlino.” E, infine, riguardo alla contraddizione tra concorrenza di mercato e monopolio delle tratte interne più redditizie a seguito della fusione Alitalia-AirOne, il salvatore afferma perentorio: “Ma non contiamoci balle: la concorrenza vera la fai solo se hai certe dimensioni, se no scompari. Dunque, sarò sfacciato (ma dai!), ma le dico che non credo ad un cielo solcato da tante piccole compagnie, ma ad una robusta concorrenza tra pochi vettori grandi e solidi.”

Del resto, non dobbiamo preoccuparci troppo, perché l’uomo è sperimentato sia sul piano della difesa dell’italianità dei “campioni nazionali”, sia sul piano della gestione dei monopoli ex pubblici. Infatti, dopo la privatizzazione di Telecom con gli Agnelli, come si ricorderà, il controllo del colosso della telefonia venne preso da Colaninno attraverso Olivetti, che controllava anche Omnitel. E’ proprio per conquistare Telecom che Colaninno cedette Omnitel al socio tedesco, Mannesmann, e, in questo modo, l’Italia perdette il maggiore successo del capitale privato degli ultimi quindici anni, come rileva Mucchetti in “Licenziare i padroni?”. Ma la questione vera è un’altra: Colaninno diede inizio in Telecom ad una pratica finanziaria che avrà conseguenze devastanti, il leverage buy out. Di che si tratta? Il leverage buy out è una operazione di acquisizione di una società attraverso la costituzione di un’altra società con ridotto capitale di rischio e ampio indebitamento con le banche. Il debito viene trasferito sulla società acquisita, il cui presumibile ampio flusso di redditi dovrà rimborsarlo. Telecom, da questo punto di vista, rappresentava la preda ideale, perché, proprio per il fatto di operare in un monopolio naturale, quello delle reti, garantisce flussi di cassa notevoli.

Ad un certo punto Colaninno, però, si ritirò da Telecom con ottimi profitti, ma lasciandola con bei debiti. Subentrò allora Trochetti che, oltre a non avere le capacità imprenditoriali di Colaninno, portò all’estremo limite la pratica del leverage buy out, scaricando su Telecom un ulteriore ed enorme debito contratto per l’acquisizione dell’azienda. Il metodo è chiaro: acquisire società investendo e rischiando il minimo, attraverso un complicato sistema di società organizzato come scatole cinesi. Il risultato nel caso di Telecom è risaputo: l’azienda, nonostante il notevole flusso di cassa, ed appesantita dai debiti, subì il tracollo del valore azionario, finendo poi sotto il controllo delle banche. Ma la cosa peggiore è che anni di gestione privata hanno indebolito Telecom come azienda che produce servizi.

Mentre i manager pubblici, potendo contare sull’autofinanziamento, investivano la maggior parte delle risorse (61,7 %) nell’allargamento ed ammodernamento della base produttiva, i privati, invece, solo nei primi quattro anni di gestione dimezzarono tali investimenti (31,8%), profondendosi in nuove partecipazioni finanziarie e remunerazioni di capitale. Il caso dell’Alitalia, dove ritroviamo non solo Colaninno, ma anche altri protagonisti del caso Telecom, come Tronchetti ed i Benetton, presenta preoccupanti analogie, ma in realtà è, se possibile, peggiore. Anche in Alitalia si assiste alla presenza di una pletora di investitori (sembra siano fino ad ora diciotto), che intervengono nell’operazione con capitali limitati. In totale un miliardo. Secondo il Sole24ore solo Colaninno ed Intesa investiranno più di 100 milioni di euro, la maggior parte degli altri partecipanti oscillerebbero tra i dieci e i cinquanta milioni.

Il riscontro si ha sulla capacità produttiva della nuova azienda, che sarà molto ridotta rispetto alla somma di Alitalia e AirOne. Meno aerei e meno rotte. Soprattutto aerei e rotte intercontinentali, quelle, per intenderci, che garantiscono margini più alti. Così, invece di confrontarsi col mercato e con le sfide globali, cui tutti a parole fanno sempre riferimento, ci si affida al monopolio delle tratte nazionali e alla solita panacea della riduzione del personale e del taglio del costo del lavoro, oltre all’aumento dei ritmi e alla esternalizzazione di attività di manutenzione che danno invece garanzie sulla sicurezza dei voli, messa in discussione dagli ultimi drammatici incidenti internazionali. La proposta Air France era molto meno onerosa sia in termini di taglio del personale e degli aerei che in termini di tratte operate, oltre al fatto che l’investimento era di quasi due miliardi. Tutto questo per garantire all’Italia una compagnia di bandiera? O per favorire il turismo italiano come ha sostenuto Berlusconi?

Prima di tutto è comunque previsto l’ingresso di un grande vettore estero con una quota del 20%, il cui peso nella nuova società è facile da immaginare dato il ridotto investimento individuale degli altri azionisti e la loro sostanziale estraneità a questo tipo di business. E, se è vero quello che diceva Colaninno a proposito della concorrenza possibile solo per chi è fortemente concentrato, fra cinque anni niente vieta ai “capitali coraggiosi” d’Italia di rivendere al partner straniero, questa volta però affrancato dai debiti, e ritirarsi con bei profitti. L’elemento di novità, in peggio, rispetto al caso Telecom è che lo Stato consegna su un piatto d’argento, a privati, un altro monopolio e quindi una occasione di profitto sicuro, dopo essersi accollato tutti i debiti, trasferiti nella bad company. E ai debiti di Alitalia si sommano quelli di AirOne, il cui salvataggio a spese della collettività, mediante incorporazione nella nuova società, sembra essere passato inosservato ai più. E senza contare che i Benetton, già beneficiati dalla privatizzazione di un altro monopolio ex pubblico, quello delle autostrade, si trovano in palese conflitto d’interesse, essendo presenti nella Società degli Aeroporti di Roma.

In questo modo, è molto più facile assumere il ruolo di salvatore della patria, anche se non si è mago Merlino. La difesa dell’italianità e del turismo non c’entrano evidentemente nulla. C’entra molto di più un capitale che fugge la concorrenza e ricerca i monopoli, e che tanto più si arricchisce quanto più si impoverisce la società civile italiana. E tanto più si arricchisce quanto più frequentemente avvengono i fallimenti nel settore pubblico, sulla cui “spontaneità”, francamente, sorge a questo punto qualche dubbio. Il governo Berlusconi sta dimostrando di essere il governo migliore per questo tipo di capitale e la Confindustria, a cominciare da Marcegaglia, presente nella cordata con una quota simbolica (in tutti i sensi!), non può che ringraziare. Tutto questo mentre i grandi mezzi di comunicazione, in genere così attenti a stigmatizzare le “caste”, sembrano ignorare perfino l’esistenza di un’altra “casta”, quella degli imprenditori. Chissà perché.

ARDITI NON GENDARMI