I dissidenti di tutto il mondo rivogliono Bush alla guida degli Stati Uniti


Nel 2006, Al-Hendi stava curiosando su di un sito web pro-democrazia in un internet cafè di Damasco quando dei poliziotti in borghese fecero un’incursione armati di pistole automatiche nel locale, lo perquisirono e lo gettarono nel bagagliaio di una macchina. Passò più di un mese in prigione, la maggior parte del tempo passato in una cella 5x3 senza finestre dove potè ascoltare dalla porta accanto il suo amico che veniva torturato. Queste urla – disse – lo rabbrividirono ma almeno sapeva che non era stato ucciso.

Hendi è stato tra i fortunati: ora vive nel Maryland come rifugiato politico dove lavora per un’organizzazione chiamata “cyberdissident.org”. Lo scorso lunedì ha partecipato con altri dissidenti internazionali alla conferenza sponsorizzata dal “Bush Institute” della Southern Methodist University per discutere il modo in cui gli strumenti digitali possano essere impiegati per resistere ai regimi repressivi.

E’ anche riuscito a incontrare il 43° Presidente. In una colazione privata offerta da Bush e signora, il messaggio di Hendi all’ex Presidente è stato semplice: “Ci manchi”. Ci sono stati “molti cambiamenti” sotto la nuova Amministrazione, ha aggiunto, e non in meglio.

Adrian Hong, imprigionato in Cina nel 2006 per aver aiutato alcuni nordcoreani a fuggire dal loro Paese (tramite una moderna ferrovia sotterranea), ripete il concetto. “Quando sono stato rilasciato [dopo 10 giorni] mi hanno detto che è stato grazie alla forte connessione tra la Casa Bianca e la cultura che tu stesso hai promosso”, ha spiegato a Bush.

L’ex Presidente, che sfoggia una intensa abbronzatura, non ha menzionato il Presidente Obama né a microfono spento né acceso. La cosa più eclatante che avrebbe detto è stata: “Sono davvero preoccupato per questa mentalità isolazionista… non penso faccia onore ai valori del nostro paese”. I dissidenti non erano così diplomatici.

Hendi ha focalizzato l’attenzione sui cambiamenti che dal suo punto di vista il Presidente Obama abbia operato nella politica verso il suo paese. “In Siria, quando un singolo dissidente veniva arrestato durante l’amministrazione di George W. Bush il portavoce ufficiale della Casa Bianca avrebbe almeno condannato l’azione. Sotto l’amministrazione Obama: nulla”.

Hendi non è nemmeno un sostenitore degli sforzi di questa amministrazione volti a ricucire i rapporti con il regime, come il caso recente dell’invio di un ambasciatore a Damasco per la prima volta dal 2005. “Questo dà fiducia al regime”, dice, “perché non sono capaci di dialogare: non credono in questo. Credono nell’uso della forza”.

Hong pone le cose in questo modo: “Se guardiamo il sostegno offerto ai dissidenti… e anche la retorica, è tutto bruscamente crollato”. Dice che con Bush c’erano molti incontri di alto profilo con i dissidenti nord coreani. “Si sono davvero esposti per dimostrare che era una loro priorità”.

Poi c’è Marcel Granier, Presidente di RCTV, il più longevo e popolare canale televisivo del Venezuela. Dà lavoro a diverse migliaia di persone – o almeno così faceva fino a quando Hugo Chavez non ha tolto la licenza al network nel 2007. Ora sta lottando per mantenere un canale indipendente sulla tv via cavo: in gennaio Chavez ha ordinato ai network via cavo di non trasmettere più il canale gestito da Granier. Nonostante gli attivisti filo-governativi abbiano attaccato due volte la sua casa con gas lacrimogeni, Granier risiede ancora nel paese sostenendo instancabilmente la libertà dei media.

Come molti dei democratici presenti alla conferenza, Granier era eccitato dalla storica elezione di Obama, e da come ha stimolato l’elettorato americano. Ma un anno e mezzo dopo, è infastidito dal silenzio dell’amministrazione mentre il suo paese si sta dirigendo rapidamente verso una dittatura. “In Afghanistan”, scherza, “almeno sanno che l’America sarà impegnata per i prossimi 18 mesi”.

Questo senso di abbandono è stato alimentato dai cambiamenti della politica attuale. Giusto questa settimana è giunta notizia che l’amministrazione ha tagliato della metà i fondi impiegati per promuovere la democrazia in Egitto. I programmi in paesi come Giordania e Iran hanno già subito tagli. Poi ci sono anche i gesti simbolici: l’aver lasciato il Dalai Lama fuori dalla porta, le insignificanti dichiarazioni di supporto ai dimostranti iraniani, i sorrisi e le strette di mano con Chavez, e via discorrendo.

Daniel Baer, un rappresentante del Dipartimento di Stato che ha partecipato alla conferenza, quando ho sollevato la questione ha respinto l’idea che la Casa Bianca abbia preso le distanze dalla promozione dei diritti umani come fosse un “mantra” senza fondamenta. Ma, in concreto, tutto ciò non è altro che una parte della strategia centrale di Obama per far capire in maniera chiara che lui non è come il suo predecessore.

Bush è quasi certamente conscio che l’“agenda della libertà”, colonna portante della sua presidenza, è diventata indelebilmente collegata alla guerra in Iraq e con il cambio di regime ottenuto con la forza. Peccato. La pacifica promozione dei diritti umani e della democrazia – in parte attraverso la perdita di vite umane per la libertà – è conforme con i più basilari valori dell’America. Difenderli non dovrebbe essere una questione di appartenenza.

Eppure, per il momento Bush non è il testimonial giusto di questa campagna: non può rinnovare l’immagine e de-politicizzare con successo la sua “agenda della libertà”. Così, forse spera che, restando dietro le quinte, gli americani che ancora diffidano dall’abbracciare pubblicamente questa causa possano invece tornare a essere a loro agio con essa. Per il bene dei coraggi]osi democratici in paesi come Iran, Cuba, Corea del Nord, Venezuela, Colombia, Cina e Russia, speriamo sia così.

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