Giovedì scorso, durante un’audizione alla commissione Trasporti della Camera, il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli ha affermato di ritenere prevedibile “un’esplosione della domanda di trasporto pubblico locale” e di credere che “sempre più cittadini lasceranno l’auto a casa”. Per il Ministro, infatti, appare impensabile che, ad esempio, in una città come Roma dove l’abbonamento annuale per bus, tram e metropolitana costa 230 euro, i cittadini continuino a spendere da 3 a 4mila Euro per muoversi in auto.
Matteoli ha poi aggiunto che lo spostamento modale dall’auto al trasporto collettivo comporterà “gravi problemi di saturazione della capacità” e, quindi, la necessità di reperire risorse aggiuntive per potenziare l’offerta. Sia la previsione di una forte crescita della domanda che l’ipotesi di incrementare i fondi pubblici per il tpl destano però più di una perplessità. Proviamo a vedere perché.
L’ipotesi avanzata dal ministro delle infrastrutture relativamente all’evoluzione dell’utenza del trasporto collettivo sembra essere fondata su un’estensione al lungo periodo del trend di modesta riduzione del traffico privato e crescita dell’utenza di bus e tram registratasi nei primi mesi del 2008 a seguito del rincaro dei carburanti. Anche volendo prescindere dall’inversione di tendenza del costo del petrolio manifestatasi nel corso dell’estate ed ipotizzando che in futuro il greggio torni a crescere, è verosimile che l’impatto sulla ripartizione modale della mobilità sarà limitato. In termini di costi monetari complessivi dell’utilizzo dell’auto, una crescita del prezzo di benzina e gasolio dell’ordine del 50% si traduce in un aumento intorno al 10%. Se nel breve periodo tale variazione si traduce in una contrazione della mobilità individuale, nel lungo termine è prevedibile, come già accaduto al termine degli anni ’70, che l’incremento dei prezzi comporti un miglioramento dell’efficienza dei mezzi con conseguente riduzione o annullamento dell’impatto sulla spesa per i carburanti.
Ma vi è un’altra ragione che induce a ritenere limitato l’effetto del caro benzina. L’esborso monetario costituisce infatti solo una componente delle risorse impiegate negli spostamenti. Ad esso occorre aggiungere il valore del tempo. Ipotizziamo che, in media, il cittadino attribuisca ad un’ora del proprio tempo un valore pari a 10 Euro. E immaginiamo che uno spostamento in ambito urbano venga effettuato ad una velocità media di 20 km/h. Il valore del tempo di un chilometro percorso risulta quindi pari a 0,5 Euro ossia è dello stesso ordine di grandezza di quello monetario. Tenuto conto di tale elemento, la rilevanza del prezzo del carburante ai fini della ripartizione modale risulta essere ancora più contenuta. La principale ragione per la quale la maggioranza dei cittadini è disposta a spendere molto di più per spostarsi in auto piuttosto che con il trasporto pubblico è dovuta al risparmio di tempo che il mezzo individuale garantisce rispetto a quello collettivo. E, infatti, il tpl detiene quote non marginali di domanda esclusivamente per il segmento di mercato degli spostamenti diretti verso le aree centrali delle grandi aree urbane ossia laddove i tempi di viaggio sono paragonabili o addirittura inferiori a quelli dell’auto. Quanto più ci si allontana dal centro, tanto più cresce il divario fra trasporto collettivo ed individuale come testimoniano, ad esempio, i dati relativi agli spostamenti in Lombardia dove, in media, un viaggio in auto dura 25 minuti a fronte dei 39 necessari per un viaggio (più corto) sui mezzi pubblici. Tale divario fa sì che, in Italia come in tutti i maggiori Paesi europei, l’auto soddisfi una quota intorno all’85% della domanda di trasporto passeggeri ed i mezzi pubblici circa l’8% (il restante 7% è rappresentato dagli spostamenti in ferrovia). Non vi è ragione per ritenere che tale quadro possa mutare radicalmente a seguito di variazioni anche significative del prezzo del petrolio.
Peraltro, laddove si registrasse un’effettiva crescita dell’utenza dei mezzi pubblici, non sarebbe necessario accrescere l’ammontare di risorse destinate al settore. Da un lato, infatti, l’attuale offerta di servizi risulta essere per la maggior parte del periodo di esercizio largamente sottoutilizzata. In una grande area urbana il rapporto fra passeggeri trasportati e posti offerti risulta essere di 2 a 10 e la frequentazione dei mezzi risulta essere ancor più ridotta per quanto concerne i trasporti in ambito extraurbano; in tale ambito le corse effettuate con pochissimi passeggeri a bordo costituiscono la regola piuttosto che l’eccezione.
Dall’altro, in presenza di punte di domanda che eccedono la capacità dei veicoli, l’ampliamento della offerta potrebbe essere effettuato senza sussidi pubblici. Il costo unitario di produzione dei servizi su gomma in ambito urbano in Italia è oggi intorno ai 5 Euro. Immaginando di applicare una tariffa per passeggero pari a 0,1 Euro/km, all’incirca il 20% del costo dell’auto, sarebbero sufficienti 50 passeggeri, valore di gran lunga inferiore alla capacità del veicolo, per rendere profittevole per un azienda l’espansione del servizio. E tariffe ulteriormente dimezzate potrebbero essere applicate qualora nel nostro Paese si raggiungessero livelli di efficienza analoghi a quelli del Regno Unito dove, all’infuori di Londra, i costi di produzione sono pari a meno della metà rispetto a quelli italiani.
Come ha scritto Alberto Alesina sul Sole 24 Ore a proposito della scuola, il problema del trasporto locale non è dato dalla scarsità di fondi a disposizione ma, piuttosto, dall’assenza di concorrenza. La situazione è del tutto analoga a quella del trasporto aereo. Le aziende di tpl che operano nel nostro Paese sono tante piccole Alitalia. Tale realtà non è immediatamente evidente per un solo motivo: mentre i cieli sono stati liberalizzati ed i vettori più efficienti hanno progressivamente sottratto quote di mercato agli ex monopolisti, lo stesso processo non ha avuto luogo nel settore del trasporto locale. Se ciò accadesse, non mancherebbero tante “Ryanair” disposte a produrre servizi, soddisfare domanda aggiuntiva e a fare profitti laddove le attuali “Alitalia” generano perdite ripianate dal contribuente.
Da Libero Mercato, 16 settembre 2008
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