User Tag List

Visualizza Risultati Sondaggio: Votate il racconto che vi e' piaciuto di piu'.

Partecipanti
7. Non puoi votare in questo sondaggio
  • Taglio

    1 14.29%
  • Come Barnaba

    1 14.29%
  • Un Fuoco Segreto

    0 0%
  • L’Alchimista e il Diavolo

    0 0%
  • L’APPESO

    2 28.57%
  • Andrea Negrini, detto il Negus

    1 14.29%
  • Primo tarocco: l'Alchimista. Altri tarocchi: Forza, Carro, Giudizio.

    1 14.29%
  • La Giustizia.

    1 14.29%
  • Volta la carta

    0 0%
Pagina 1 di 3 12 ... UltimaUltima
Risultati da 1 a 10 di 28
  1. #1
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Arrow I racconti del contest IV. Votate!!!

    Votate!!!
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  2. #2
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Taglio

    Due uomini al tavolo, il prima mescola le carte, il secondo le taglia in quattro mazzetti poi le riunisce in due mazzetti e li rimescola. Il primo le distribuisce.
    Sul tavolo il quattro e il sei di cuori, il due e il re di picche.

    Quattro di fiori.
    Il primo uomo : - Quella cosa che avevamo detto.
    Sette di picche.
    Il secondo uomo : - Bah.
    Sette di fiori.
    - Per i non bilingue cosa significherebbe “bah”?
    Asse di picche.
    - Che te l'ho già detto.
    jack di fiori.
    - Ma allora non mi ascolti.
    Sette d'ori.
    - No, ti ascolto, sei te che continui a girare intorno a sta cosa.
    Carte.
    “Asse d'ori!”
    Cinque di cuori.
    Cinque di picche – Scopa!
    Jack di picche.
    - E?
    Re di quadri.
    - Te lo vuoi proprio sentir ripetere?
    Tre di picche.
    - Si.
    Carte.
    - La cosa è molto semplice, ti fai una barca di seghe mentali.
    Asse di cuori.
    - Vedo che ti sforzi ogni volta per elaborare qualcosa di nuovo, di orginale...
    Re di picche.
    - Mi chiedo perchè mi chiedi ogni volta un parere se sai quello che ti dirò.
    Tre di cuori.
    - Perchè a volte penso che potresti evolverti e dire qualcosa di più.
    Asse di fiori.
    - E allora ti dico qualcosa di più...
    Tre d'ori.
    Regina di picche.
    Carte.
    - Devo aspettare ancora molto perchè l'oracolo proclami il suo vaticinio?
    Sei di picche.
    - Pensavo alle carte... come ti ho detto ti stai facendo una marea di seghe mentali che ti tengono lontano dal punto centrale.
    Due di cuori.
    Regine di cuori.
    Tre più due, cinque d'ori..
    - Che sarebbe? Vedi anche di tirare fuori qualcosa prima che ci buttino fuori per la chiusura.
    Jack di cuori.
    - E il punto centrale sarebbe che preferisci restare inchiodato in un limbo piuttosto che rischiare un nuovo fallimento in nuova impresa.
    Regina di fiori.
    - Hai fatto il corso di tarocchi per corrispondenza? E poi chiamarla “impresa”...
    Carte.
    - E chiamala avventura, storia d'amore, come ti piace a te. È che ti rifugi in una speranza irrazionale per fuggire da una paura razionale di fallire ancora.
    Quattro di picche.
    -E per fortuna che c'è il Freud dei poveri a spiegarmelo, e poi se fosse solo una cosa razionale me la sarei già levata da un bel po'.
    Sei d'ori..
    - E sei te che mi chiedi opinioni.
    Cinque di fiori.
    - Ma se pensi che sia tutta una questione di pensiero...
    Quattro d'ori.
    - Non è tutta una questione di pensiero.
    Sette di cuori.
    - L'hai appena detto, hai detto che è tutta una questione di pensieri che mi faccio!
    Sei di fiori.
    - No, ho detto che continuare così è una questione di pensieri che ti fai.
    Carte.
    Re di cuori.
    Due d'ori.
    - Secondo me non hai la minima idea di dove andare a parare, ti sei incartato.
    Due di picche.
    Tre di fiori.
    - L'unico incartato seriamente sei tu. E ti ripeto che tu chiedi un parere, io rispondo, se poi secondo te c'è qualcosa su cui andare a parare, sta a te...
    Regina d'ori.
    Jack d'ori.

    Primo uomo: - Solo mazzo, che merda.
    Secondo uomo :- Primiera, sette bello, scopa e ori pari. 3 a 1. E la prossima volta fai meno il figo quando tagli.
    __________________
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  3. #3
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Come Barnaba

    Me ne stavo lì da un po'. 3 ore? 10? Chi poteva dirlo. Avevo pensato sicuramente molto, questo si. No, dieci ore no. Sarei svenuto, morto, seccato al sole come quelle pere. Mentre ero lì le avevo nominate una ad una. Erano ormai le mie compagne di giochi..."E tu che ci fai su quell'albero?". Chi era? Ah. Buon dio! Qualcuno finalmente mi avrebbe salvato...
    "Buon uomo, mi libera la gamba?"
    "Perchè ti han appeso all'incontrario?"
    "Son stati degli stolti! Lo fanno sempre! Si divertono!"
    "Non mi fido! Se sei lì è perchè hai fatto qualcosa!"
    "No, glielo giuro!"
    "Non ci credo io ai delinquenti!"
    "Posso pagarla, se vuole. Ho dei denari là per terra, che mi son caduti dalle tasche!"

    L'uomo posò il carrettino. Raccolse le monete. Poi, dalla folta barba fecero comparsa un paio di dentini giallastri, che tastarono l'oro.
    "Non valgono niente! Volevi fregare pure me, eh?"
    "La prego mi faccia scendere!"
    "Nossignore. Ma se stasera sarai ancora qui, magari ti libero", disse richiamando all'ordine i suoi dentini e sfoggiandoli in un misero sorrisetto di sfida.

    Sapeva che non potevo durare ancora molto appeso qui... Sarei morto. Seccato al sole come Tobia ed Esaù, che tralaltro ormai si stava imputridendo come Barnaba. Forse, se avessi fatto un figlio non avrei saputo come chiamarlo. I nomi erano così belli. Avevano tutti un significato particolare. Nascosto e a volte inimmaginabile. Il nome, si diceva, era scritto in ognuno di noi. Ci simboleggiava. A volte poi, trovavi delle strane combinazioni. Mario ("forte", "virile") su un omino gracile. Oppure Milena ("benigna", "d'animo buono") su una donna sanguinaria. Si. Il nome era scritto in ognuno di noi. Eppure alle volte sembrava quasi che ci volesse prendere in giro.. Ma del resto, la vita è strana. A volte accade il contrario di quel che ti aspetti. Vedi persone che si dimostrano il contrario di come li conoscevi. Tutto l'opposto di come li immaginavi. Da come li vedevi. E magari scopri che il loro nome aveva proprio ragione, in fin dei conti...

    "Scusi, non vorrei disturbarla. Da che parte è il villaggio?"
    "Se glielo dico mi libererà?"
    "Non credo", fece lui.
    "Come mai così crudele?"
    "Crudele?" rise lui, e continuò: "Sono senza braccia. La vedo dura..."
    "Uh, mi scusi, non avevo visto!"
    "Sta guardando questi? Sono due pezzetti di legno. Me li ha fatti un amico. Eh eh! Sembran braccini, ma non sono avaro, eh!"

    Era molto allegro e positivo, quel pover'uomo. Io mi sentivo in gabbia già solo per subire le angherie di alcuni pazzoidi, ma lui invece sembrava godersi la vita. E forse era proprio la mancanza delle braccia che gli faceva assaporare anche l'aria che respirava..

    Si sedette sul masso di fianco all'albero e si mise a parlare con me. Mi chiese come mai stessi lassù. Come mai mi avessero legato, e un sacco di altre cose voleva sapere il mio nuovo amico sbracciato.
    Gli raccontai del tempo che avevo passato qui, più che altro, dato che pareva non finire mai. Di tutto quel che avevo pensato. Fantasticato. Argomentato a me stesso. Prima di quel giorno quasi mi sembrava di non esser mai vissuto. Ma invece no. Avevo vissuto lo stesso. Magari non benissimo, ma via, coi denari guadagnati come aiutofabbro e con la bella Kezia.
    Mi aveva rifiutato per il bel Gabriele. Eh beh. Dopotutto era normale. La bella Kezia col bel Gabriele formavano una coppia già scritta. Come diceva mio padre.. La coppia deve vedersi già da fuori. Se è stonata, pure la gente del paese capisce che quella coppia non può durare. E dire che loro dovrebbero esserne fuori dai propri sentimenti. Non dovrebbero riuscire a capirle certe cose. Eppure, il segno della coppia e il suo destino, era già scritto. E chiunque lo percepiva. No. Effettivamente il bel Gabriele e la bella Kezia formavano una coppia eccezionale. Questo si..

    Il mio amico sbracciato pareva essere un buon ascoltatore, devo dire. Mi disse che era d'accordo con la teoria di mio padre, e mi disse che faceva la guida dei castelli. Aiutava chi poteva, ma solo a parole, perchè era menomato. Quindi ascoltava e dava consigli a tutti. Il suo lavoro era questo. Ed era davvero utilissimo. Era pieno di storie che portava con sè. Tutte confidategli da fabbri, mercanti, assassini e dame di compagnia. Le portava con sè, e le regalava in cambio di pochi denari e qualche tozzo di pane per i villaggi della contea.
    Mi raccontò di Samuele, un tizio cieco che però una volta ci vide, per salvare una bambina dalle fiamme. Più che miracolato, s'era scoperto non esser davvero cieco. Mi narrò di Rachele, una dama di compagnia che finito di accompagnare la regina, doveva prodigarsi sotto le coperte del re. Ma no! Che avete capito! Fosse così sarebbe pure normale.. E invece no.. Doveva raccontargli una favola. Ogni sera. Un re bambinone! Chi l'avrebbe mai detto..
    E mi raccontò di Giuseppe, che pur avendo avuto l'età del Matusalemme, con il solo aiuto del suo bastone, una volta, fece tacere cento uomini e li fece prostrare a lui con assoluto rispetto. Quelli che, fino a poco tempo prima, lo volevano derubare e uccidere.

    Era davvero un brav'uomo, il mio amico sbracciato. Ma se ne andò al villaggio. Il cammino era ancora lungo e lui doveva pur mangiare. Avrebbe raccontato al locandiere la storia di Adma, quella che con il suo cavallo pro.."Ehi! Quello è il mio albero! Che diavolo ci fai??"
    "Mi scusi, mi han legato qui, non sapevo fosse il suo albero.."
    "Si che lo é! E ora verrai giustiziato per averlo rovinato!"
    "Come??"
    "Si esatto. Andrò a chiamare le guardie al villaggio e poi verrai giustiziato!"
    "No, mi scusi ma io non volevo esser legato qui! Io sono stato legato senza la mia volontà, la prego si ferm..."

    Se n'era già andato. Temevo mi desse fuoco da un momento all'altro, sembrava pazzo..

    "Lo perdoni", fece un bel ragazzotto nascosto dietro un cespuglio. Stava mordicchiando Abele. Che doveva esser molto succosa, tralaltro..
    Aveva un bel sorriso candido e lineare. Gli zigomi alti e gli occhietti vispi.
    "Permette? Il mio nome è Malachia, ma tutti mi chiamano il furetto", si tolse il cappello di paglia e sfoggiò capelli altrettanto di paglia.
    "Salute a te, Malachia. Puoi liberarmi? Hai sentito quel pazzo. Vuol farmi giustiziare!"
    "Quello? Si. Forse lo farà.."
    "Ma perché?"
    "Perchèè? Perchè è il diavolo..."
    "Eh?"
    "Si. E' il diavolo"
    "Ne sei sicuro?"
    "Si. così come son sicuro che quello è il matto del villaggio", disse indicando un tizio con una spada in mano che con grandi sciabolate tagliuzzava fili d'erba.
    "Uriele!!", lo chiamò lui. "Uriele!", continuò.
    Il matto continuava a tagliuzzare fili d'erba.
    "Uriele! Vieni qui!"
    "Sono occupato. Me ne mancano ancora diecimilacentosettantatre!"
    "Uriele vieni un attimo!"
    "Sono occupato. Me ne mancano ancora diecimilacentosessantadue!"
    "Ma quanti ne tagli al colpo?"
    "Dipende dal colpo"
    "Ah, beh si. E' ovvio..", asserì lui riconoscendone la logica..

    Spazientito, mi misi a gridare: "Allora?? Anzichè chiacchierare col suo amico pazzo, mi libera si o no?? Sono in pericolo!"
    "Oh si certo.."
    Il mio urlo fece distrarre Uriele. Che si avvicinò con aria sorpresa. Non aveva visto il mio corpo appeso, ancora. Aveva la testa china forse da tre giorni a tagliuzzare fili d'erba, e così, l'alzare il collo gli fece un gran male.
    Cadde a terra. Malachia lo aiutò. E io ero ancora appeso, per la miseria!

    "Comunque quello era il diavolo in persona, amico", disse Uriele. Che pareva meno stolto di quel che sembrava..
    "Come fate a dirlo?"
    "Lo san tutti in paese! Ogni mese cambia forma. E vediamo un tizio nuovo nella stessa casa. Si diverte a far giustiziare gente!"
    "Si ma io non andrò comunque all'inferno"
    "Ci ha provato, però. Facendoti provare rancore per un crimine non commesso, anche solo per un attimo, avrai desiderato la sua morte o il suo malessere. Avrai desiderato di fargli del male fisico o morale.. Beh. Qualunque maledizione tu gli avrai augurato e gli augurerai, per questo andrai all'inferno"
    "Per un desiderio??"
    "Soprattutto per un desiderio.." fece Uriele inarcando il sopracciglio e scuotendo la test.. "Ahi!"
    "Che c'è?"
    "Il collo.."
    "Smettila di fare la donnicciuola.."
    "Mi sarei dato dell'invertebrato al posto tuo, hai perso un'occasione.." disse sorridendo lui.
    "Si, ma il serpente l'hai già fatto per due mesi, e poi, quando ti rialzasti non ti sentisti più la schiena, razza di idiota!"
    "Tu dici idiota a me solo perchè un dio in cui credi ha detto che devi essere un uomo e nient'altro. Io posso esser cosa voglio.. Chi è l'idiota?"

    Malachia ci pensò su per rispondere a tono ma fu fermato da me che lo ammonì sul serio, stavolta.
    "Allora ti decidi???"
    "Uh? Si. Forza che ti libero.. Oh-oh!"
    "Oh-oh cosa?"
    "Fiaccole incendiarie e spade!" fece Malachia, che si rimise il cappello, ed indietreggiando velocemente sorrise e fece un inchino.
    "E' stato un piacere conoscerti, buonuomo!".
    Subito si dileguò tra i cespugli e scomparve.

    Uriele, invece, riprese la sua spada, e non temendo in alcun modo le guardie, fece che salutarle col saluto a spada tesa. Come si soleva nelle grandi cerimonie.. Erano così diversi, quei due..
    "Uriele, il tuo amico è un ladro. E lo sai.. La prossima volta mettiamo in cella te e lui. Chiaro??"
    "Chiarissimo signore!" sorrise lui, e andandosene, iniziò a trottare e ad agitare la spada in aria, come se, su un bel destriero, dovesse andare alla carica.."


    Il diavolo barbuto indicava alle guardie l'uomo che deturpava il suo albero, ma, avvicinandosi, percepì una strana sensazione di amore nei suoi confronti. Perchè? Perchè provava amore per lui? Era assurdo! Lo stava facendo giustiziare. Doveva odiarlo! Non v'era ragione alcuna per l'amore che stava sentendo provenire dal suo cuore. Cuore che si, era posizionato al contrario,
    ma non per questo doveva provare sentimenti opposti al normale..

    Lui sentì la mia sensazione d'amore. In realtà non la provavo per lui. Bensì, mi concentrai, e intensamente pensai a Kezia. L'avevo amata sin da ch'ero piccolo e al sol pensare di starle vicino il mio cuore palpitava emozioni d'amore intense. Lui rimbrottò più volte e capì che non poteva avermi. Perlomeno non in quel momento. Si adirò molto. Non sapeva se uccidermi o lasciarmi vivere e tentarmi di nuovo. Lasciò la scelta a me.
    Sorrisi.
    Mentre il cielo si apriva, sotto i miei piedi, e la corda tirava stridente la mia pelle.
    "Kezia... ti ho voluto bene.. Spero tu sarai felice per sempre..."

    Perchè lo feci? Non lo so ancora oggi. Forse pazzia. O forse no. Forse invece fu la scelta più lucida della mia vita. Si.. Me la giocai bene la vita eterna, per quel soldo bucato che valeva la mia vita infelice, pensai.. Tra stolti che mi appendevano e amori mancati. Pensare che fino a poco prima di vedere le guardie avrei voluto scendere a tutti i costi, e pensare che mi arrabbiai anche con Malachia e Uriele, e anche con lo sbracciato che non poteva liberarmi, e con gli stolti che mi avevano appeso. Quel giorno, così come tanti altri.. Mi ero arrabbiato con la sorte e la sfortuna. E invece poi, in un secondo scelsi.. Perchè si, mi ci volle un solo istante per rinunciare alla vita a cui tanto sembravo legato. Forse solo perchè non potevo decidere io fino a quel momento. Forse solo perchè volevano togliermela con la forza. So solo che non appena potei decidere feci il gesto folle.. beh. lo sapete.. Strano? Forse si. Oppure no. Chi può dirlo..

    Ah, volete sapere come son finiti gli altri? Si, dunque.. Il diavolo è ancora là. Ora è una ragazzina. Dice che Malachia l'ha toccata per molestarla e vuole giustiziare pure lui. Ma lui è scaltro.
    Riuscirà a scappare.. anche con l'aiuto di Uriele. Che ora è una gazza ladra. E ruba collane per Malachia. Credo stiano per cambiare villaggio...


    "L'altro giorno hai scambiato dei sassi per diamanti!"
    "Chi ha detto che quelli non posson esser diamanti?"
    "Non lo sono e basta!"
    "Sei uno stolto.."
    "Si però ora torna qui.. Urieleeee! Urieeleeee! Non andare al galoppo, Urieleeee! Siamo a piedi! Non correre.."
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  4. #4
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Un Fuoco Segreto[/CENTER]

    Morgenstern affrettò il passo. Si erano da poco accese le luci dell’alba ed egli attraversò il Pont Neuf per raggiungere l’Île de la Cité, come faceva tutte le mattine che la sua attività notturna glielo consentiva. Imboccò a grandi falcate il Quai des Orfèvres.

    Se qualcuno lo avesse osservato (cosa improbabile: a quell’ora in giro c’era pochissima gente) avrebbe notato nel suo incedere una febbrile urgenza. E se il nostro curioso spettatore si fosse avvicinato di più, per studiare meglio quel bizzarro individuo, di altezza superiore alla media, con il suo lungo cappotto scuro svolazzante, avrebbe scorto sotto al cappello floscio un viso emaciato, scavato, lo sguardo riarso come da un qualche invisibile fuoco interiore, cerchiato da profonde occhiaie. I suoi abiti erano trasandati e lisi, la sua età difficile da stabilire: il viso segnato sembrava quello di un vecchio, il portamento invece era quello di un uomo più giovane. Un barbone, forse un pittore, avrebbe pensato. Difficile immaginare la vera natura dei suoi interessi e delle sue attività.

    Morgenstern si lasciò sulla destra il Pont Saint Michel, e a sinistra la strada che portava a la Sainte-Chapelle, e tirò dritto. Percorse a passo spedito gli ultimi metri che lo separavano dalla sua meta, la grande piazza antistante la cattedrale di Notre Dame de Paris. Deglutì. Eccolo lì, come sempre, il suo libro di pietra, che custodiva tenacemente, racchiuso nel suo labirinto di simboli arcani, il segreto che egli cercava con tanta ostinata e maniacale bramosia.

    Fece una breve pausa per riprendere fiato. Le forze non erano più quelle di un tempo ed era sempre più difficile sopportare le lunghe notti di veglia e di studio, passate accanto al forno nel laboratorio sotterraneo, e poi, di seguito, l’umile lavoro di portineria che lo impegnava di giorno e che gli consentiva una stentata sopravvivenza. Altri, retti solo dalle forze fisiche, sarebbero già crollati da tempo, sopraffatti dalla fatica. Ormai l’energia che lo sosteneva nella sua ricerca proveniva da una qualche fonte sconosciuta, ma egli era cosciente che di giorno in giorno sarebbe stato sempre più difficile resistere.
    Ma si riscosse subito. Aveva bisogno di risposte, doveva finalmente passare alla fase conclusiva dell’Opera, o sarebbe presto morto, logorato da mille esperimenti inconcludenti e avvelenato dalle esalazioni. Ma sapeva anche che non mancava molto, gli bastava un ultimo indizio, un ultimo lampo d’intuizione per decifrare gli indovinelli di pietra, quel misterioso e volatile linguaggio che sfidava l’ingegno e parlava al cuore., Sperava che oggi lo avrebbe finalmente visto emergere chiaramente fra gli altri emblemi. Avrebbe riso, pensando: “Come ho fatto a non vederlo prima”. Di questo era sicuro: mancava solo un’ultima preziosa indicazione, bastava riconoscerla ed essa lo avrebbe finalmente condotto al traguardo.
    Davanti a lui si ergeva in tutta la sua magica bellezza la facciata della chiesa, con le due torri campanarie simili (eppure sottilmente diverse fra loro), e con i suoi tre portali d’accesso.
    Quanto doveva apparire diverso questo stesso prospetto al viandante nel Medioevo (e nei secoli successivi), quando chi vi giungeva se lo sarebbe trovato davanti all’improvviso, dopo aver attraversato il dedalo di vicoli bui e asfittici, i meandri privi di luce che d’un tratto si sarebbero aperti su quella magnifica visione. Che spettacolo sublime, proprio perché inatteso, che allegoria meravigliosa della ricerca spirituale! Ma l’uomo moderno (e il Barone Haussmann si reputava tale) la pensava diversamente: cercava certezze inoppugnabili, aveva paura del mistero e per fare pulizia aveva creato quella sterile spianata.
    Morgenstern si avvicinò al pilastro centrale che divide in due parti il portale di mezzo, quello del Giudizio Universale. Alzò gli occhi. Sopra alla sua testa avveniva da secoli, sotto l’occhio inesorabile del Redentore, la cruenta divisione del puro dall’impuro, del nobile dal grezzo, di ciò che, dopo essere stato soppesato attentamente dall’Arcangelo, sarà destinato a vivere per sempre, da ciò che dovrà invece estinguersi.
    Come faceva ogni volta che veniva, cercò con gli occhi l’effige del suo nume tutelare, l’Alchimia, seduta con la testa fra le nuvole e la scala della conoscenza davanti a sé. In una mano un libro chiuso e uno aperto, nell’altra uno scettro. “Aiutami!” mormorò, “svela i tuoi segreti a un umile filosofo!”
    Poi si spostò sulla sinistra, verso il portale della Vergine. Lo guardò per l’ennesima volta, ma ebbe quasi difficoltà a vederlo, tante erano le volte che lo aveva esaminato, osservato, disegnato.
    Eccola, la Vergine con il Bambino in braccio. Sopra di lei, il sarcofago della dormizione, con i simboli dei metalli-pianeti. La Mater Dei, che porta in sé il germe della rinascita e che, una volta ricevuto il raggio fecondante dello spirito, dà alla luce il Bambino-Re. In seguito il suo corpo trasmutato viene assunto in cielo ed essa viene incoronata. Sopra a questo portale vi era tracciato un timpano, il passaggio dal quadrato al cerchio, dalla terra al cielo.
    “Sì”, pensò Morgenstern, come sempre pieno di stupore e gratitudine per gli anonimi artefici di tutto questo: “Il racconto della via per la trascendenza, l’Opera che distilla lo spirito dalla materia è qui scolpito nella pietra, affinché tutti possano vedere.”
    Vide il drago, il corvo, il serpente intorno al caduceo, il leone e il gallo. L’athanor e la pietra filosofale. E la fenice. Sì, l’elusiva fenice.
    Egli con fatica e duro lavoro era riuscito a trasformare questi enigmi in istruzioni operative, trovando gli ingredienti per dare inizio al lavoro. I primi successi erano stati inebrianti, mentre le frasi lette negli antichi testi finalmente acquistavano di significato e concretezza. Ora doveva assolutamente trovare il modo di concludere la sua creazione, di cristallizzare il fuoco dello spirito. Ma come? Come? Si sentì all’improvviso molto stanco.

    Le antiche maestranze non si erano limitate a rendere in immagini allegoriche la Via verso la perfezione: esse avevano poi colorato in maniera vivida la figure, in modo da rendere ancor più chiaro il discorso. Ma, pensò colmo di amarezza Morgenstern, l’uomo moderno aveva colpito anche qui: via i colori che segnavano il cammino simbolico, raschiati e puliti dall’assurda frenesia per la raggiungimento di un ideale classico e asettico, mai esistito nella realtà.
    E come se non bastasse, molte delle statue erano state rimpiazzate alla fine del 19° secolo, per ovviare alle devastazioni causate dalla Rivoluzione Francese prima, e da Napoleone poi.
    Chi come lui cercava in questo grande rebus di pietra delle risposte, era costretto a studiare su di un libro lacunoso, a cui l’ignoranza del secolo erroneamente chiamato dei Lumi aveva strappato per sempre molte pagine, distruggendo un racconto che per centinaia di anni era rimasto lì, per chi avesse occhi per vedere.

    Nulla riempiva Morgenstern di più sgomento e frustrazione della cieca arroganza dell’uomo moderno, che impunemente e a piacimento manometteva il sublime frutto dell’ingegno e della saggezza di molte generazioni, vedendo in ogni asimmetria e irregolarità solo rozzezza e mancanza di tecnologia moderna, in ogni rappresentazione indecifrabile dalla sua mente prosaica e letterale, solo mostruosità e superstizione. Perché, perché non era nato quattro o cinque secoli prima, pensò Morgenstern sconsolato? Avrebbe potuto incontrarsi con gli altri alchimisti sotto al portico a nord per dibattere dell’Arte Sacra nel giorno dedicato a Saturno.

    D’un tratto si sentì mancare ogni forza. Decise di entrare nella chiesa, che nel frattempo aveva aperto i battenti, ma oggi non fu colto dal consueto, profondo stupore. Di solito egli entrava in quella selva incantata di colonne, simile ai boschi sacri agli abitanti originari di questi luoghi, con la consapevolezza di essere il discendente di tutti quegli altri uomini che prima di lui avevano cercato nella natura la chiave per trascenderla. Ma non oggi.
    Si sedette, assorto nei suoi cupi pensieri e un sentimento di disfatta si impossessò di lui. Si prese la testa fra le mani. Quante volte era venuto a interrogare questi maestri muti, senza parole e senza voce? Conosceva a memoria questo luogo, le figure scolpite gli erano ormai più familiari dei pochi amici che avesse mai avuto, e che nel tempo si erano allontanati, spaventati da quella che loro consideravano la sua crescente follia. L’angoscia gli attanagliò il cuore: non sarebbe mai riuscito nel suo intento. Era solo, era povero. Aveva speso tutte le sue risorse e le sue energie, si era isolato dal mondo. Aveva perso, era un fallito. Respirò profondamente per reprimere un singhiozzo.

    “Monsieur, la posso forse aiutare?” Morgenstern inghiottì e si voltò irritato. Davanti a lui, in piedi, vicino a un pilastro, stava un signore distinto, dall’aria raffinata e benestante, vestito in modo inconsueto, con un abito che sembrava uscito da una fotografia degli anni ’30. Al suo fianco una donna bellissima, con i lunghi capelli color dell’oro, acconciati in modo antiquato, un cappello con la veletta e una stola di volpe rossa. La strana coppia si mosse all’unisono nella sua direzione, ma Morgenstern non aveva nessuna voglia di far conversazione con due ricchi turisti eccentrici e disse: “No che non mi può aiutare, sto bene. Mi lasci in pace.” Abbassò lo sguardo con fare burbero e voltò le spalle alla coppia. Sentì come un sussurro: “Ma il cambiar di natura è impresa troppo dura”.

    In quel preciso istante, con un sussulto, realizzò chi fosse l’uomo misterioso con la sua dama. Si voltò e lo cercò con lo sguardo, ma era sparito, dissolto nel nulla. Ebbe una vertigine, barcollando come un sonnambulo corse verso il pilastro e attraversò la navata, ma della coppia nessuna traccia. Con orrore capì che la debolezza del fuoco nel suo cuore gli aveva impedito di percepire la realtà dietro all’apparenza illusoria delle cose. Aveva fatto l’errore più grande della sua vita. Aveva chiesto aiuto, lo aveva ricevuto, ma non lo aveva saputo vedere. Egli aveva lasciato che il fuoco si spegnesse. Ora sapeva: chi non crede nell’impossibile è perduto.
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  5. #5
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    L’Alchimista e il Diavolo

    “Non dovete preoccuparvi di nulla, signora Rubbiani”, le disse l’uomo soffermandosi un attimo sulla soglia prima di uscire dalla casa della donna, sotto la pioggia battente, "penserò a tutto io. Domani mattina arriverò qui con un'altra carrozza e comincerò a portare le mie cose. Vi assicuro che non vi sarò di nessun disturbo e che sarò puntuale nei pagamenti".
    La donna guardò ancora un attimo quello sconosciuto dall’aspetto misteriosamente cupo e nobile allo stesso tempo, illuminato dalla luce tremolante della candela che lei teneva in una mano, coprendola con l’altra per non farla spegnere dalle raffiche di vento e dall’acqua che queste spargevano in ogni direzione. Sotto il cappello a cilindro, l’uomo la guardava attraverso occhi sottili e scuri, con un sorriso bonario ma che nascondeva qualcosa di indecifrabile, complici i sottili baffi neri ed il pizzo a mosca che ne marcavano i contorni.
    “Vi ringrazio molto, sono fiduciosa che vi troverete bene nella nostra casa e che siate una brava persona, anche se non vi conosco, signor… come avete detto che vi chiamate, scusatemi?”.
    L’uomo si chiuse nel mantello e, poggiando un piede sul gradino della carrozza, la guardò e disse: ”Emaus, signora, Volfango Emaus. Domani firmeremo il nostro contratto di affitto, così non potrà più dimenticarlo. Buona notte”.
    Dopo di che fu inghiottito dal buio all’interno della carrozza, che in un lampo partì e si allontanò sotto la pioggia sferzante.
    “Mamma, chi era quel signore?”, chiese una voce sottile e flebile dall’interno della casa.
    “E’ il nostro nuovo inquilino, Rebecca”, le rispose la donna rientrando e chiudendo la porta dietro di sè. La piccola era seduta vicino al camino, aveva ascoltato senza dire una parola la conversazione fra la madre e lo sconosciuto che dal giorno dopo avrebbe occupato una stanza della loro casa.
    “Mi fa paura, mamma”, obiettò la bambina, “non lo voglio qui da noi, è cattivo”.
    “Ma no che non lo è, amore mio”, le rispose la donna con un sorriso e una carezza fra i capelli, "anzi, sembra un nobiluomo, deve proprio essere una brava persona. Fidati della tua mamma, non farei mai entrare una persona cattiva nella nostra casa. E poi, da quando tuo padre è partito per i suoi studi, abbiamo bisogno di più soldi per andare avanti. Vedrai che ci troveremo bene, non ti preoccupare”.
    La bambina non rispose nulla, mantenendo un’espressione mista di perplessità e timore.
    “Forza, adesso è ora di andare a dormire”, le disse la madre, e la accompagnò alla stanza da letto. Si sedette sul ciglio del materasso e le cantò una ninna nanna, finchè la piccola non si addormentò.


    “E’ un vero piacere incontrarvi!”, esclamò l’uomo alla vista della persona che gli si trovava davanti, "Ho sentito molto parlare di voi e dei vostri studi, finalmente ho l'onore ed il piacere di fare la vostra conoscenza: Arsenio Rubbiani, ormai unanimemente ritenuto il più grande alchimista vivente!"
    “Solo perché molti sono morti prima di me”, sorrise in risposta l’uomo, stringendo la mano al suo interlocutore. “E comunque, è un grande onore anche per me, professor Giròmini. Il mio viaggio fin qui era anche volto a questo nostro incontro. La vostra Università è quanto di meglio potessi desiderare per reperire materiale per i miei studi, ma il patrocinio di una mente illuminata come la vostra vale più di mille libri!”.
    “Voi mi lusingate, signor Rubbiani, nessuna mente è illuminata al cospetto della vostra. Ma venite, venite, vi prego… vi mostrerò la nostra biblioteca, i nostri volumi sono tutti a vostra disposizione. Qui troverete tomi di chimica, fisica, astrologia, belle arti, semiotica, scienze dei metalli, medicina, misticismo e religione, tutto ciò che vi può servire per le vostre ricerche”.
    Il professore condusse l’uomo fuori del suo studio e percorse con lui un lungo corridoio, in fondo al quale si trovava una grande e pesante porta in legno. La spinse a fatica con una mano rugosa, segnata dal peso degli anni, reggendo una lampada con l’altra. La porta emise un prolungato cigolio e si aprì. Al cospetto dei due uomini si parò una stanza enorme, polverosa, semibuia, illuminata solo dai raggi della luna che penetravano dalle grandi vetrate e dalla tremolante luce della lampada. Il soffitto era alto parecchi metri, e sotto di esso vi era una interminabile schiera di scaffali in legno, cosparsi di tomi e volumi di ogni genere.
    “Ecco”, disse il professore poggiando la lampada su un tavolo di legno alla sua sinistra, appena dopo l’uscio, “questa…”, arrancò per lo sforzo compiuto nell’aprire la porta, “…è la nostra biblioteca”.
    “Non ho mai visto niente del genere!”, esclamò Rubbiani, col volto rapito in un’espressione di stupore.
    “E mai più lo vedrà…”, gli sussurrò il professore, girandosi verso di lui e facendosi improvvisamente torvo. La luce della lampada gli traballava sul volto, lasciandolo in penombra ed accentuandone i tratti marcati dall'età.


    “Rebecca svegliati!”, disse la donna alla bambina, sedendosi sul ciglio del letto, “Il sole è già alto, tra poco dovrebbe arrivare il signor Emaus, non vorrai farti trovare ancora in camicia da notte!”.
    “Mamma, ho sonno”, rispose la piccola, girandosi dall’altra parte.
    “Mi spiace ma dovrai alzarti lo stesso, tesoro, ti prego… io vado di là a prepararti la colazione”.
    La signora Rubbiani entrò in cucina, aprì un armadietto e ne trasse fuori del pane e del latte, li poggiò sulla tavola, quando sentì bussare alla porta.
    “Possibile che sia già qui?”, si chiese, ricomponendosi i capelli e correndo verso l’uscio. Aprì la porta, e davanti a lei, nell’aria fredda e umida del mattino, il suo nuovo inquilino la salutò con un sorriso: “Buongiorno signora Rubbiani, spero di non essere arrivato troppo di buon'ora".
    “Certo che no”, rispose la donna con un sorriso imbarazzato, dopo di che si girò verso l’interno della casa e gridò: “Rebecca, alzati!”.
    “Lasciate riposare la vostra bambina, signora”, le disse pacatamente l’uomo, sempre sorridendo. “Forse sono io che sono arrivato troppo presto, volete che torni più tardi?”.
    “Ma no, per carità, accomodatevi! Avete portato le vostre cose con voi?”, rispose imbarazzata la donna.
    “Solo una parte per il momento, ma non preoccupatevi, non invaderò la vostra magione con le mie proprietà, la stanza che mi concederete sarà più che sufficiente”.
    Dopo di che si rivolse al cocchiere e gli chiese: “Herman, porteresti dentro le mie valigie per favore?”.
    L’uomo scese dalla carrozza e, senza dire una parola, prese due grosse borse dall’interno della cabina e le portò davanti all’uscio.
    “Prego, da questa parte”, lo indirizzò la signora Rubbiani, mostrandogli la stanza che sarebbe diventata sua. Nel frattempo, Rebecca si era alzata e, dalla soglia della sua camera, guardava il nuovo arrivato con aria sospettosa.
    “Buongiorno piccola, quanti anni hai?”, le chiese l’uomo passandole davanti, e fece per darle una carezza sui capelli, ma la bambina si scansò e rispose stizzita: "Quasi sette!".
    “Non preoccuparti, vedrai che troveremo il modo di andare d’accordo”, aggiunse il signor Emaus, e la guardò con un sorriso enigmatico.
    La signora Rubbiani lo seguì nella stanza: “Questo è il letto, come vedete, questo il vostro armadio, è tutto per voi, è completamente vuoto, e questo è il tavolo. La candela, come vedete, è già al suo posto, se ve ne servono altre, sono nel cassetto. Avete bisogno di altro?”
    “Nient'altro, signora, siete molto gentile. Inizierò subito a sistemare le mie cose".
    “Posso chiedervi cosa vi porta qui, signor Emaus?”, gli chiese la donna. “Non sono molte le persone che si fermano qui al villaggio, quali interessi o attività avete qui da noi?”
    “Lo scoprirete presto, signora”, rispose l’uomo con un sorriso, “Diciamo per il momento che c’è un credito da riscuotere, per così dire, ed io sono parte in causa”.
    La signora Rubbiani restò un attimo perplessa, poi disse semplicemente: “Va bene, come volete. Vi lascio sistemare le vostre cose", ed uscì dalla stanza.


    Arsenio Rubbiani era seduto al grande tavolo della biblioteca, illuminato dai raggi di sole che penetravano dalla grande vetrata, immerso in una montagna di libri e di carte di ogni genere, ed era così concentrato che non si accorse dell’arrivo del professor Giròmini.
    “Caro amico mio…”, gli disse il professore da dietro le spalle, ma non riuscì a finire la frase, perché l'uomo sussultò per la sorpresa, girandosi di scatto: “Professore!”, esclamò ridendo, “non vi avevo proprio sentito arrivare!”.
    “Me ne sono accorto, caro amico”, rise in risposta l’anziano luminare, “come proseguono le vostre ricerche?”.
    “C’è molto da fare, caro professore, ma per fortuna la vostra biblioteca offre veramente una dovizia ineguagliabile di scienza! Quanto meno, ho la certezza che venendo qui non ho investito male il mio tempo!”, rispose con entusiasmo Rubbiani.
    “Ne ero certo”, rispose soddisfatto il professore, sorridendo e socchiudendo gli occhi, “ma ditemi, amico mio… sono indiscreto se vi chiedo quale tipo di ricerche state svolgendo? Quando mi avete scritto la vostra lettera per chiedermi il permesso di visitare la nostra università, mi avete detto che si trattava di ricerche molto importanti, ma non avete specificato nient'altro. Si tratta forse di qualcosa di segreto?", chiese Giròmini alzando il tono di voce sulla domanda finale.
    Rubbiani si rabbuiò: "Non si tratta di segreti scientifici, ma in effetti di qualcosa che non posso divulgare", gli rispose con aria rattristata, "qualcosa di molto importante per me personalmente. Vorrei ricambiare la vostra ospitalità parlandovene, ma potete assicurarmi che manterrete il segreto?”, chiese abbassando il tono di voce.
    “Nel modo più assoluto”; rispose il professor Giròmini, abbassando anch'egli il tono e chinandosi verso il suo interlocutore, quasi sussurrandogli in un orecchio.
    “Ebbene”, iniziò Rubbiani, “voi saprete senz’altro che uno dei fini dell’alchimia è quello di sconfiggere i mali dell’uomo, di prolungarne e migliorarne la vita. Io però devo andare oltre questo già ben nobile scopo, mio caro amico…”.
    Il volto del professore si contrasse in un'espressione di stupore, le sopracciglia si sollevarono e la bocca si aprì con un'espirazione rauca.
    “Io”, sussurrò Rubbiani abbassando ulteriormente il tono di voce, costringendo così il professore a chinarsi ulteriormente verso di lui, "devo trovare il modo di sconfiggere il male più grande: il Maligno".
    “Ma questo è impossibile! Questa è blasfemia!”, esclamò il professore, scattando improvvisamente di nuovo in posizione eretta, “Solo i religiosi possono combattere il Maligno, e solo nostro Signore può sconfiggerlo!”.
    “I confini dell’alchimia si spingono ben oltre quelli che attualmente conosciamo, amico mio”, gli rispose pacato Rubbiani, “ed io devo assolutamente superarli, è una questione di vita o di morte per me”.
    “Cosa mai potrà spingervi a tanto?”, gli chiese intimorito il professore.
    “E’ una triste storia”, gli rispose l’alchimista. “Dovete sapere che nel passato di mia moglie vi è una terribile macchia, un episodio spaventoso, del quale purtroppo presto potrebbero sortire i nefasti effetti.”
    “Di cosa si tratta?”, chiese il professore, sempre più intimorito.
    Rubbiani gli fece cenno di avvicinarsi, e gli sussurrò in un orecchio: “Pochissimo tempo prima che io la incontrassi, quella che da lì a poco sarebbe diventata mia moglie fu presa con la violenza da un uomo posseduto dal Demonio…”.
    “Oh mio Dio!”, esclamò il professore segnandosi, “ma questo è terribile…”.
    “Il tribunale della Santa Inquisizione condannò sia l’uomo, sia lei, al rogo, ma io, che al tempo mi trovavo a passare dal villaggio, ebbi pietà di quella povera anima innocente presa con la forza e cercai di intercedere, facendo valere la mia fama di scienziato ed alchimista. Il tribunale acconsentì a risparmiare quella povera donna, a patto che io la sposassi, riportandola così, tramite il sacramento del matrimonio, nella grazia di Dio.”.
    “E voi, pur di salvarla, avete accettato questa terribile condizione, il matrimonio con una donna violata!”, lo interruppe il professore, “La vostra generosità è superiore anche alla luminosità della vostra mente!”, esclamò colmo di stupore.
    “Così andò”, rispose Rubbiani. “La sposai pochissimi giorni dopo, e così la mia vita da allora proseguì al villaggio. Un mese dopo, scoprimmo che era incinta, ed altri otto mesi dopo nacque Rebecca. La sua nascita porto serenità e felicità e fece sì che mia moglie, pian piano, dimenticasse quel terribile episodio, ed anch’io amo quella bambina più di me stesso. Ma purtroppo, anche se non ce lo siamo mai detto, io e mia moglie non potremo mai sapere se è figlia mia o dell’uomo che la prese con la violenza.”.
    Il professor Giròmini era ormai senza parole e continuava ad ascoltare con un’espressione di stupore misto a paura.
    “Ora Rebecca sta per compiere 7 anni, e potrebbe stare per accadere qualcosa di terribile. Il Maligno, che potrebbe essere il suo vero padre tramite l’uomo che possedette, al compimento del suo settimo anno potrebbe tornare a prenderla con sè.” La voce di Rubbiani era ormai diventata un bisbiglio appena percettibile: “Ed io devo trovare il modo di fermarlo…”.


    “Mamma, perché il signor Emaus è sempre chiuso nella sua stanza? Non mangia neanche con noi, si fa portare i pasti e mangia chiuso lì dentro”, chiese Rebecca alla madre mentre questa raccoglieva ortaggi nel giardinetto della casa. Il sole splendeva, la primavera ormai si avvicinava, così come si avvicinava il settimo compleanno della bambina.
    “Credo che sia uno studioso, amore mio”, le rispose dolcemente la madre, poi abbassò il tono di voce: “Sai, qualche giorno fa, mentre era assente, ho sbirciato fra le sue cose, ho visto molti libri e strani strumenti che non so a cosa servano. Alcuni mi ricordavano quelli che usa tuo padre.".
    “Mamma, quando torna papà?”, le chiese la piccola rabbuiandosi improvvisamente.
    “Presto, tesoro mio, molto presto”, le rispose la donna, mentendo rassegnata nella convinzione che l’assenza del marito sarebbe potuta durare ancora a lungo.
    Le due rientrarono in casa, ma come furono dentro, la cesta di ortaggi cadde dalle mani della signora Rubbiani, spargendone il contenuto sul pavimento.
    Emaus era in piedi davanti a lei, con espressione corrucciata: “Non è bello ficcare il naso nelle cose degli altri, signora Rubbiani”, le disse, con un tono di voce pacato ma minaccioso.
    Rebecca gridò dallo spavento e si nascose dietro le gambe della madre, la donna tremava: “Come… come avete potuto sentirmi? Eravate chiuso nella vostra stanza e noi eravamo fuori, ed ho parlato bisbigliando…”.
    “Mamma, mi fa paura! Mandalo via, non voglio più che stia qui!”, gridò la bambina, sempre nascosta fra le gambe della madre.
    “E invece, è più necessario che mai che io resti qui, proprio qui vicino a te, piccola mia!”, le rispose l’uomo protendendo un braccio e puntandole contro il dito indice.
    “Guai a voi se toccate mia figlia!”, gridò la signora Rubbiani cercando di colpirlo, ma l’uomo la fermò immediatamente torcendole un braccio dietro la schiena e sussurrandole in un orecchio: “Non fate sciocchezze, signora… potrebbero costarvi molto care…”. Poi di discostò, fissandola negli occhi per qualche istante.
    “Ma chi siete? Cosa volete da noi?”, gridò la donna, ancora in preda al terrore.
    “Ve l’ho detto: c’è un credito da riscuotere ed io sono parte in causa…”, rispose l’uomo in tono gelido, “Ma non sono l’unico…” aggiunse, guardando di nuovo la bambina e sorridendo ad occhi stretti. Dopo di che rientrò nella sua stanza.


    Il professor Giròmini era sconvolto dal racconto di Rubbiani. Trasse di tasca un fazzoletto, si asciugò la fronte e gli disse, tremebondo: “Amico mio, voi avete avuto fiducia in me raccontandomi il vostro segreto, a questo punto io voglio ricambiare la vostra fiducia. Seguitemi."
    E senza aspettare che Rubbiani si alzasse, si allontanò dal tavolo per infilarsi in uno degli innumerevoli corridoi creati dalle scaffalature, con la candela in mano. Rubbiani lo seguì fino in fondo alla stanza, la polvere dei secoli depositata sui tomi emanava un odore forte, il pavimento di legno scricchiolava sotto i suoi passi. I due uomini arrivarono in fondo alla sala, dove c’era una piccola porta in legno. Il professore trasse dalla sua tasca una chiave. “Questa chiave”, disse mostrandola all’amico, “la porto sempre con me, giorno e notte, non me ne separo mai. E’ la chiave che apre questa porta". La infilò nella serratura e, dopo tre giri che fecero scricchiolare il vecchio meccanismo che echeggiò nella sala silenziosa, spinse l’uscio e tese un braccio verso la soglia, con la mano aperta: "Entrate", disse senza aggiungere altro. Rubbiani obbedì, e si trovo in una stanza molto più piccola, completamente buia. Il professor Giròmini lo seguì ed illuminò la stanza con la fioca luce della candela: "Questi, amico mio, sono i volumi di magia... magia bianca, magia nera, rituali d'esorcismo, invocazioni degli spiriti dei morti, qui c’è tutto… tutto quello che si conosce delle arti magiche. Vi metto questo sapere a disposizione per la vostra lotta contro il Maligno, perché temo purtroppo che la scienza degli uomini non sia sufficiente a tale scopo.”.
    Rubbiani non disse nulla, si limitò a guardare il professore con un sorriso enigmatico: “Grazie, amico mio, grazie… era proprio quello che speravo”.


    Volfango Emaus ormai non usciva più dalla sua stanza da settimane, se non per brevi giri nel villaggio. La signora Rubbiani e la piccola Rebecca erano sempre più inquiete per quella presenza, talvolta lo sentivano durante la notte che armeggiava con i suoi strumenti o parlava a voce alta da solo, ma non riuscivano a capire cosa dicesse. Ormai non chiedeva quasi neanche più da mangiare, il suo aspetto impallidito rendeva il suo sguardo ancora più inquietante. La donna, ormai non più capace di sopportare quella presenza, decise di parlarne con il prete del villaggio, quella che l’aveva sposata con suo marito. Uscì di casa portando Rebecca con sè, mai l'avrebbe lasciata sola con quell'uomo in casa, e si diresse verso la piccola chiesa. Le strade del villaggio erano affollate, le botteghe artigiane in piena attività. Era ormai giunta la primavera, e la vita finalmente riprendeva. La donna giunse alla chiesetta, il prete la salutò con un cortese cenno del capo e la invitò ad entrare nella sua stanza. “Rebecca, tu resta qui e dì qualche preghiera”, le raccomandò la donna, poi entrò nello studio del prete. Si sedettero e lei gli raccontò del misterioso arrivo di quell’uomo al villaggio, dell’episodio in giardino, delle strane attività in casa, e man mano che raccontava, il viso del religioso si faceva sempre più scuro.
    “Figlia mia”, le disse il prete prendendole le mani, “c’è qualcosa che devi sapere…”. E le ripetè per filo e per segno quanto Rubbiani aveva confessato al professore circa la possibile visita del Diavolo per riprendersi Rebecca.
    “Ecco chi è quell’uomo…” sussurrò la donna portandosi le mani davanti alla bocca. “Ma il compleanno di Rebecca è oggi!”, esclamò improvvisamente in un moto di terrore, fuggendo di corsa. Prese per mano la bambina, la trascinò via e le disse concitatamente: “Dobbiamo andarcene! Dobbiamo fuggire! Adesso torniamo a casa, prendiamo le poche cose che ci potranno servire e fuggiremo!”.
    “Mamma, cosa succede? Perché dobbiamo fuggire?”, le chiese spaventata la piccola, “Mi stai facendo male, non mi tirare!”, gridò, ma la madre non sentiva ragioni e la trascinava in preda al panico verso casa.
    Aprì la porta, entrarono, la richiuse dietro di sè e si trovò davanti Emaus: “Non c’è più tempo”, disse l’uomo guardandole, “Rebecca deve venire con me”.


    “Amico mio, la vostra compagnia è stata quanto di più prezioso e gradevole mi potesse mai essere donato”, disse il professor Giròmini stringendo entrambe le mani di Rubbiani, davanti alla carrozza che aspettava solo che l’alchimista vi salisse per ripartire, “ed è un vero dolore lasciarvi. Ma avete un compito ingrato da assolvere presso la vostra casa, ed è giusto che ora partiate, il compleanno di vostra figlia è domani.”.
    “Professore, la vostra compagnia è stata altrettanto preziosa, come lo sono stati i volumi che mi avete messo a disposizione. Spero solo che siano stati sufficienti per quanto sto per compiere”, rispose Rubbiani salendo sulla carrozza.
    “Dio vi benedica, amico mio”, gli disse il professore segnandosi, dopo di che rientrò nell’edificio.
    Il cocchiere sferzò i cavalli e la carrozza ripartì nella notte, inghiottita dal buio.


    “No!”, gridò la donna, “stai lontano da noi, creatura diabolica!”, e fece per correre verso la porta, sempre trascinando Rebecca, che urlava e piangeva, per un braccio.
    Ma in quel momento stesso, la porta di casa si spalancò.
    “Arsenio! Sei tornato!” gridò la donna in lacrime quasi gettandosi ai suoi piedi.
    “Signora Rubbiani, no!”, le gridò Emaus, correndo verso di lei e cercando di afferrare la bambina, che si sottrasse gridando.
    Rubbiani non diceva una parola, fissava la donna e la bambina con uno sguardo enigmatico ed un sorriso appena accennato.
    “Arsenio, ma cosa ti succede? Devi aiutarci! Quest’uomo è il diavolo”, gridò disperata indicando Emaus, “è venuto per prendersi Rebecca!”.
    Rubbiani scoppiò a ridere, una risata fragorosa, isterica, irrefrenabile.
    “Arsenio, ma… cosa succede…”, lo implorò la donna.
    “Signora Rubbiani, non avete ancora capito?”, le gridò concitato Emaus, afferrando Rebecca e nascondendola sotto il suo mantello. Nel frattempo un fortissimo vento si alzò all’interno della casa, sbattendo tutte le suppellettili contro i muri e sul pavimento, il frastuono era insopportabile. “E’ vostro marito il Diavolo! Vi è stato vicino tutti questi anni per restare vicino alla bambina e riprendersela al momento giusto! La Chiesa è venuta a conoscenza di questo e mi ha mandato per proteggervi, per salvare vostra figlia… sono un alchimista! Vostro marito è stato settimane lontano da casa per studiare i miei metodi, per imparare a combatterli!”.
    La donna si girò verso il marito e vide un volto sfigurato da un’espressione maligna che non aveva niente di umano. In quell’istante, una suppellettile trasportata dal forte turbine di vento che si era creato in casa la colpì sul retro della testa, facendole perdere i sensi.


    Quando rinvenne, la casa era un disastro, niente era al suo posto. Rebecca era lì, inginocchiata con il volto immerso tra le mani, che piangeva disperata, appoggiata ad una gamba di Emaus. Di Arsenio Rubbiani non vi era traccia.
    “Cosa… cosa è successo?”, chiese la donna, ancora stordita.
    “E’ andato”, le rispose Emaus, poggiando una mano sulla testa della bambina, “Sono riuscito a sconfiggerlo. Rebecca è al sicuro adesso”.
    “Grazie al cielo”, sussurrò la donna, poi si alzò a fatica e si avvicinò alla bambina, abbracciandola.
    “Resta solo una cosa da fare, signora”, le disse l’uomo. “Dovete lasciarmi effettuare un rituale di purificazione su di lei. La vicinanza del Maligno potrebbe averla corrotta”.
    “Va bene, fate pure il vostro rituale, basta che dopo questa storia sia finita... Dio mio... Arsenio... non ci posso credere", rispose la donna, e scoppiò in un pianto disperato, nascondendosi il volto fra le mani.
    Emaus le passò una mano fra i capelli, dopo di che prese in braccio Rebecca e la sdraiò sul grande tavolo della cucina. Depose attorno a lei bracieri e candele, prese un libro e, agitando le mani, cominciò a recitare formule.
    “Signor Emaus, il tavolo sta prendendo fuoco!”, gridò la signora Rubbiani, ma l’uomo non la ascoltava e continuava a recitare le sue formule. Rebecca sembrava immersa in uno stato catatonico e non si accorgeva di nulla.
    “Cosa sta succedendo??” gridò la donna, mentre le fiamme si alzavano sempre di più.
    “Non potevo certo lasciare che questo piccolo angelo fosse preso da uno stolto, piccolo demone larvale come quello che avete avuto al vostro fianco per questi sette anni, cara signora Rubbiani”, gridò Emaus scoppiando in una risata, con il volto sfigurato, “Questa piccola creatura è desiderata dal signore Lucifero in persona, ed io gliela sto per portare!”.
    Un’improvvisa vampata di fiamme e fumo invase la stanza, mescolandosi al grido di dolore della donna. Quando entrambi si estinsero, nella stanza era rimasta solo lei.
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  6. #6
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    L’APPESO

    Un ragno non pensa, tesse caccia e vive senza farsi problemi. Ha quattro occhi sulla fronte del capo, ma non ha una gran vista, coglie i bagliori di luce e fa attenzione alle ombre che si muovono, non è l’aria che gli porta gli odori, i peli rasposi del suo corpo intuiscono la natura di quel che si muove li attorno e sa se qualcosa sfiora la tela perchè ogni filo lo avverte, vibrando come una tesa corda di violino.
    Un dolore intenso l’aveva costretto a nascondersi, da giorni stava male, non aveva più fame, non gli importava se qualche accidenti recasse danno alla sua rete: non cacciava, non riparava la tela. Qualcosa premeva e pungeva, solo il lento e costante lavoro delle filiere gli dava sollievo, i fili uscivano molli e il dolore si mischiava al piacere. Più che un piacere, un senso di gratificante soddisfazione. Si era infilato nell’intelaiatura di legno che sosteneva la serranda di un negozio, la bava di seta lo avvolgeva man mano in un bozzolo stretto. Non sapeva perché costruisse questa nuova stretta trappola attorno a se stesso, la tesseva e basta, come sempre aveva tessuto quelle altre tele.. Di solito lanciava la sua ragnatela tra il balcone e l’insegna, un buon posto, al riparo dai giganteschi mostri umani e vicino al polline dei vasi fioriti. Aveva trovato un rifugio, un riparo dalla pioggia battente, lontano anche dal cibo, ma più non importava.
    La sua vita era un incessante dormiveglia, solo la fame lo teneva sveglio, ed ora che il dolore pungeva con ripetuti spasmi, più non riusciva a trovar requie. Un puzzo dolciastro lo perseguitava, tese i peli del corpo per capire cosa fosse, capì di essere scivolato all’interno della tana umana. Non gli piaceva quel posto, sapeva di esserci già stato: una reminiscenza vaga, un lungo bastone e di una spessa tela che rancava via la sua misera rete … Un ricordo terrificante dove vedeva stesso, appallottolato tra le setole di quel bastone, spinto inesorabilmente fuori, sul marciapiede, dove un incessante scalpiccio di giganti lo incalzava senza tregua. Quel giorno era salito su per il muro giallo dove era vissuto. Strinse ulteriormente le fila del suo bozzolo, se l’umano lo scorgeva sarebbe stato la morte. L’incubo dei giganti lo teneva desto ma lo distraeva anche dal premere incessante che lo sconquassava dentro: perché temere la morte quando ormai gli restava poco da vivere? Era chiaro che il dolore non lo avrebbe abbandonato.
    Si lasciò cullare da quella presenza sorda, lontana e pericolosa ad un tempo, giorni e giorni appeso al bozzolo in attesa della morte: un ragno è sempre solo, guarda la sua preda negli occhi mentre la divora, tesse agguati nell’ombra, nascosto agli occhi del mondo, non patisce la solitudine e non va in cerca d’amicizia ma la presenza costante di una persona nella stanza lo avvolgeva come la lanugine che aveva intorno. Si ritrovò a condividere l’umore della coinquilina, ad intuirne gli stati d’animo e a comprendere i suoi gesti inconsulti. Quella tana era un enorme ragnatela, la donna la puliva e la sistemava di continuo, proprio come un buon ragno sulla sua esca, tendeva l’agguato ad altri umani ma non li divorava, a dire il vero non aveva mai sentito odore di cibo nell’aria, però capiva per istinto se lo scontro tra i titani aveva avuto buon fine, capiva la reazione della donna. A volte l’altro umano usciva e la caccia non era stata buona, la donna faceva finta di niente ma il ragno sapeva che era scontenta, in altre occasioni avvertiva la leggerezza nel cuore della bottegaia quando l’intruso usciva, ma prima ancora c’era un rumore squillante, il trillo della vittoria da uno dei pezzi di punta della trappola umana. Un coso quadrato, sempre al centro dell’attenzione che trillava quando la trattativa andava a buon fine.
    La cosa che più lo stupiva delle tane da umani era la quantità di pezzi strani di cui si circondavano. Era uno strano modo di fare la caccia: si spargevano addosso spessi pezzi di tela e spostavano oggetti di qua e di la o se li portavano dietro dentro a sacche di pelle morta ... Un’ altra stranezza era nel fatto che curavano di continuo che tutto non avesse odore e che non si posasse polvere ... Quello che più lo incuriosiva e che proprio non riusciva proprio a comprendere era in cosa consistesse la vittoria, l’esito della caccia. L’istinto gli dava per certo che fossero per il cibo, le trame della bottegaia contro gli altri umani, sapeva di non sbagliarsi, ma non avvertiva odori, non aveva conferme se non lo squillo ed il suo umore, forse il cibo umano non aveva odore.
    Con un sospiro di sollievo s’accorse che il lungo bastone con lo straccio sopra, l’aveva sfiorato ma non preso, aveva travolto un baffo del bozzolo, l’ultimo suo tentativo di farsi una tela, steso prima che il dolore incessante lo spingesse a chiudersi nella sua stessa rete. Non aveva ancora finito di rallegrarsi quando un nuovo umano entrò a disturbare la quiete del mattino, la gente che entrava a volte si fermava a lungo, altre volte si sbrigava in pochi secondi, questo restò per un tempo senza tempo. Tornò pure altre volte, sempre più spesso, sempre più a lungo. Non era più questione di vittoria o di sconfitta, era quasi come se la gigantesca cacciatrice si fosse trasformata a sua volta in preda, avvertiva la paura dell’incertezza, sentiva il lungo brivido che accompagnava le visite di quel nuovo mostro corrergli sulla schiena come se quel tale stesse per schiacciarlo sotto una scarpa.
    In realtà non si accorsero di lui neanche quando salirono sulla scala per controllare la tapparella ed i fili elettrici dell’insegna. Veramente lei aveva visto quel bozzolo lanoso tra gl’interstizi dell’intercapedine, il povero ragno dolorante aveva colto il suo sguardo attento ma aveva anche capito che più non le importava, non avrebbe imbracciato la scopa ne allungato il braccio con quell’orribile straccio di pezza. Era solo contenta che l’altro non avesse notato la polvere e le ragnatele di quell’angolino dimenticato. Questo gli procurò un senso di morte ancora più freddo e devastante, anche la padrona della tana era stata colpita da quell’inesorabile malore.
    Per un paio di giorni non si vide nessuno, poi ritornò la bottegaia, ma non aprì tutto il giorno come aveva sempre fatto, piano piano cominciò a disfare, a mettere i suoi pezzi di ragnatela dentro a grosse scatole di corteccia sottile, tornò anche l’intruso, veniva sempre gente, parlavano si salutavano, però più non si sentiva lo squillo che preannunciava la vittoria dell’umana contro gli altri umani ... solo parole, risate e rimpianti. Sono strani gli umani, così grossi e così inguaribilmente cretini ... A quel punto non gli importava più molto di quel che accadeva, era stato parecchi giorni rinchiuso li, senza mangiare. Aveva salutato la luna al colmo del suo splendore ed ora era pian piano calata, fino a sparire; due notti e sarebbe riapparsa. L’umana andava via sempre presto, lasciando la tana vuota la notte, quella sera era rimasta fino a tardi, c’erano i suoi piccoli, e un altro, il maschio dalla voce profonda. Trafficavano senza sosta, il povero ragno non si curava di loro, qualcosa gli diceva che sarebbe morto proprio quella notte …
    Una fitta feroce trafisse l’addome livido per il male, la pelle della schiena si squarciò all’improvviso e finalmente il ragno capì cosa stava accadendo. Era una muta, come quando era piccolo, non avrebbe mai più pensato di diventare ancora più grosso, pensava di essersi fermato di non dover crescere ancora. Con qualche difficoltà riuscì a sgusciare fuori dalla sua stessa pelle, divaricò la tela del bozzolo e fu di nuovo all’aria della notte. Era grosso, bello e stava bene, pensò subito di tornare sul muro, una nuova tela ed avrebbe anche mangiato. La fame ora pungolava rabbiosa. Qualcosa lo distrasse, forse il rumore degli umani che strascinavano una scatola, o il suo istinto che non l’aveva mai tradito o forse, più semplicemente l’olfatto: l’odore di un altro ragno, piazzato sopra al muro e pronto a combatterlo per difendere la roccaforte ch’era stata sua.
    Era debole, esausto, e conosceva quell’altro, anche lui viveva sul muro ma in una posizione infelice rispetto alla sua. Nonostante fosse cresciuto di peso sapeva di non essere pronto alla lotta, quindici giorni di digiuno pesavano troppo per i suoi riflessi. Glissò il nemico e si diresse verso un cornicione dove già aveva sostato, luogo rischioso, esposto al becco rapace delle rondini, ma era solo giusto per riprendere forza … ma anche lì un ragnetto nervoso, di quelli piccini come capocchie di spillo e con le zampe lunghe lunghe,gli sbarrava la strada. In tempi normali l’avrebbe fatto secco senza pensarci sopra, ora no non poteva. Girò su se stesso, non gli andava di fare la tela all’interno del negozio, poco cibo, troppo rischio, ma non poteva aspettare.
    Il Folle Dopo L’appeso
    Non lo sapeva neanche lui perché lo fece, ma non cadde, si buttò di proposito, e centrò la sacca di pelle morta che la bottegaia portava sempre appesa alla spalla, era appoggiata per terra. La donna tirò giù la serranda e chiuse il grosso lucchetto, mise le chiavi in borsa e non vide il ragno appallottolato sul fondo. - Non c’era cibo in quel sacco, inutile cercarlo, per un tempo enorme quel povero insetto fu sballottato avanti e indietro, quel viaggio gli ricordava qualcosa, lasciò perdere i ricordi allertato da ogni movimento improvviso. Uscì dalla borsa semiaperta appoggiata su di un mobile quando era notte fonda, era una tana nuova, cominciò lentamente ad esplorare i dintorni alla ricerca di un angolo propizio, c’era un muro bianco e liscio, salì circospetto, tra la porta di legno ed il muro non c’era spazio, ma sopra la porta un vasistas socchiuso lasciava entrare l’aria fresca.
    Acquattato nell’ombra, il ragno valutò attentamente la zona, l’odore era buono, anche troppo, alberi in fiore, un orto e lì vicino un’intera collina ricoperta da un bosco. Nessun nemico in agguato, un formicaio nelle vicinanze, buon segno, ma era pericoloso fermarsi troppo vicino. Il ramo di un albero sfiorava il muro della casa, allungando le zampette si aggrappò ad una foglia, non fu facile il salto ma si ritrovò sul ramo solido, felice per il nuovo mondo che aveva conquistato.
    Il sole era alto nel cielo, una donna apparecchiava la tavola sulla terrazza di una villetta, una bimba l’aiutava ad apparecchiare, un maschietto appena più grande si divertiva a fare i dispetti alla bambina, la madre godeva serena della cagnara che i figli inscenavano. Stava arrivando l’estate, il sole era caldo e i suoi figli avevano bisogno di giocare all’aperto, ora che aveva venduto il negozio avrebbe potuto stare più a lungo con loro. Un urlo disumano turbò la quiete del meriggio, un urlo a pieni polmoni, come solo i bambini sanno fare: un ragno con la croce sulla schiena era velenoso per forza!
    Perché c’è quel legame di paura, così forte, tra le donne ed i ragni? Spiegò alla figlia che non doveva gridare così, -Ma mamma! - Piagnucolava la piccola, - Ha la croce sulla schiena,guardalo! - Sul ramo di un albero che cresceva in giardino, un grosso ragno nocciola aveva intessuto una splendida tela ottagonale. Non era vicino al tavolo da pranzo, era in un posto da dove non sarebbe potuto cadere su di loro, la donna disse alla figlia: - lascialo stare, che fastidio ti dà su quel ramo? - Il maschietto si era voltato a guardare, ancora incerto se fare lo sbruffone o preoccuparsi sul serio, alle parole della madre fece un sorrisetto ironico. Affascinata osservò l’insetto, incerta se ucciderlo con un colpo di scopa o se lasciarlo strare, lì su quel ramo. Guardò i suoi figli e scelse la tattica della spiegazione scientifica, parlò della casualità geometrica, della perfezione dei disegni della natura (che erano merito di Dio) e del fatto che la forma del corpo dello stesso ragno contribuiva a creare il disegno della croce. Ribadendo convinta che i ragni con la croce sulla schiena non erano velenosi, - Non ci sono ragni velenosi in Italia, state tranquilli! -
    - Sono solo noiose le ragnatele, quando le devi pulire! - Commentò tra se mentre i figli giocavano in attesa del pranzo e del padre. Sul suo ramo il ragno guardava quelle grosse bestie stupide, non credeva che potessero fare tanto rumore per nulla, però era contento di aver seguito la donna, quella tana nuova era decisamente un posto migliore. Pulì le zampe e stese un nuovo pezzo di filo, la donna guardò il ragno e pensò alle pulizie di casa, agitata da u vago senso d’inquietudine. -No!- si disse, -non è nulla!- e se ne andò in cucina: ragno di mattina fortuna si avvicina.
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  7. #7
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Andrea Negrini, detto il Negus

    Siamo in Liguria, quella del Ponente estremo. E’ luglio, non ci sono nuvole, né una lieve brezza marina, l’aria è dannatamente densa di calore, non c’è modo di respirare senza fare fatica perché ci sono 45 gradi, pochi di meno all’ombra. Qualcuno comincia già a maledire il sole perché fa molto, troppo caldo: è una temperatura esagerata che, come qualche futurologo pessimista già sussurra, segna l’inizio dell’epilogo dell’umanità.
    Lungo la strada statale, in un vecchio bar un po’ fatiscente due pale appese al soffitto ruotano cercando di dare un po’ di sollievo – ma è una cosa impossibile, si ottengono solo folate di brezza torrida - ai clienti che non ci sono, mentre una grossa radio, di quelle quasi stereo, lasciata in mezzo alle bottiglie dietro il bancone, suona una bella canzone italiana di qualche decennio fa, “Storia d’amore” di Adriano Celentano.

    Nel bar c’è solo una ragazza, lavora nel locale. Sta semiseduta su uno sgabello, appoggiata col braccio al bancone e beve lentamente, a tratti riappoggiandolo, un bicchiere di birra chiara (come la versione mediterranea di un quadro di Edward Hopper). Dai lineamenti non sembra italiana, è alta, bionda con i capelli a caschetto tipo Caterina Caselli ventenne, ha la pelle chiara. Veste una t-shirt bianca e una minigonna di jeans. Questo è quanto si vede da lontano. Nessuno la vuole giudicare, ma noi vogliamo vederla meglio e perciò piano, piano proviamo ad avvicinarci. Finalmente… eccola! Adesso è proprio al centro dello zoom dei nostri occhi. I suoi piedi, avvolti da un paio di sandali neri con i tacchi a spillo, sono sottili, proporzionati con le unghie delle dita limate in modo accurato e rosse di smalto scarlatto. Ha le gambe lunghe, dritte e regolari, le ginocchia non sporgono e le cosce sono ben sode su fino ai glutei; oltre i fianchi, il suo corpo si restringe in prossimità della vita, mentre si allarga in modo armonioso all’altezza del petto. Se solleva un poco il braccio per portare il bicchiere alla bocca, si alza la maglietta e si scoprono l’ombelico e il ventre, che è senza rilievi eccessivi, ma non è perfettamente piatto, costruito e dozzinale come quello di certe donne che frequentano le palestre. A mantenere il suo ventre così com’è, con quel poco in più che piace, contribuiscono quasi esclusivamente i suoi cromosomi speciali e il suo DNA di donna-dea.
    Muove le braccia con estrema naturalezza, con grazia. Sono braccia di donna che ha lavorato un poco, non troppo robuste, della stessa consistenza delle gambe. Le mani sono lisce, ben curate, le dita fini con le unghie dipinte con lo stesso smalto scarlatto usato per quelle dei piedi; le spalle sono in parte scoperte e ben proporzionate, non troppo abbronzate, nonostante il gran sole che c’è fuori. Sul collo ha un paio di piccoli nei che incuriosiscono e aggiungono altro sommo valore a quant’è sotto di loro.

    E il volto? Fronte alta, un poco coperta dai capelli biondi, lavati da poco; occhi azzurri con sopracciglia appena ritoccate e chiare, perché è bionda naturale, naso fine, regolare; zigomi appena visibili, labbra sottili, minimo trucco dato con gusto, quasi con arte…
    Non è facile con le parole rendere merito a tanta grazia. Proviamo con i centimetri: 173 per 90, 60, 90. Sì, i suoi modi e la sua fisionomia sono quelli delle donne di Milan Kundera, ma i pensieri che suscita in noi sono quelli di Charles Bukowski. Torrenti d’acqua chiara scendono dai nostri occhi sulle nostre guance, non per dolore, sono lacrime di gioia. Perdono, Signore, se avevamo dubitato di Te e della tua opera, e grazie d’aver creato armonia e bellezza, così disponibili al libero sguardo di tutta l’umanità.

    Davanti al bar, c’è il piazzale per le auto dei clienti - quasi vuoto e quasi bollente a causa della temperatura da quasi fine del mondo - nel quale, fra poco, il Negus - il protagonista di questo quasi racconto, quasi privo di trama - posteggerà il suo furgone.
    Lui è partito da Cuneo ed è lì per lavoro: lui è “padroncino”, e con questa locuzione, quanto mai generica e obiettivamente priva di un significato preciso (si può cioè essere “padroncini” di un sacco di cose: per esempio di un cane, di una mela, di un ombrello ecc.), nel mondo dei trasporti su strada, si indica invece una figura precisa, cioè chi utilizza un furgone di proprietà per svolgere “trasporti e/o consegne c/terzi”.

    Proprio adesso, il Negus ha recapitato alcuni colli ad un negozio di auto-ricambi di Ventimiglia, scatole di cartone che avrebbe potuto portare con l’automobile, perché erano solo sette, ma per sfiga, una era troppo lunga, come dice la bolla di accompagnamento conteneva un “portapacchi speciale”, e sulla sua Skoda octavia del 1994, verde bottiglia, non ci stava.
    Il Negus ha sete, ma va subito detto come nella sua testolina – e non si tratta di una metafora, Andrea Negrini ha la testa un po’ più piccola del normale – parzialmente senza capelli, covi da sempre il pensiero di una bella scopata con una figa internazionale. Magari, come gli piace immaginarla, alla maniera di un vecchio porco taoista cinese che non si vergogna della sua laida, invereconda nudità: con i corpi aggrovigliati, avviluppati, attorcigliati, risvegliando la kundalini, con il pene rigido per ore ed ore, godendo lui e facendo godere lei il più a lungo possibile.

    Il Negus ha sete, ma non dimentichiamo che tra le cose che desidera veramente soddisfare, con forza, con grande forza, al primo posto mette sempre le voglie del suo glorioso uccello, le quali voglie, purché ovviamente si tratti di donne, non hanno confini geografici, anzi non hanno confini in generale. A differenza di quelle del suo palato. Oggi lui, con il caldo diffuso da forno di fonderia che c’è, ha bisogno di una coca-cola, grande alla spina, oppure di una bella birra. Meglio la coca però che ti gonfia un po’ e ti fa sentire pieno; una birra invece tira l’altra, ed è meglio non rischiare con l’alcool, ci sono troppi controlli sulle strade liguri e la sua patente è già quasi a secco di punti.
    Il Negus ha sete e vede il bar, posteggia nel piazzale bollente e scende dal furgone.

    E’ un FIAT ducato che ha fatto almeno dieci volte il giro del mondo, quel furgone, e – come Massimo Ranieri in una canzone dimenticata - chiede pietà ogni volta che si accende il motore. Nel ducato, sapientemente, il Negus tiene un materassino di gomma piuma e una coperta, optional di cui si era dotato per le soste forzate nel caso di consegne in località lontane, come quelle che fece per diversi mesi in Romagna, a Rimini. Erano consegne invernali con viaggi notturni. Fu in quelle occasioni, durante il ritorno all’amata, disprezzata Cuneo, quando il furgone era in parte vuoto, che il Negus si rese conto che quel materassino poteva facilitare ben altri piaceri oltre quello di una sana dormita. Tuttavia, non lo si pensi solo teso all’appagamento della carne. Fu allora che elevò i propri pensieri e decise, per esempio, di sostituire la foto della bonazza nuda appesa nel furgone con una riproduzione di “L’origine del Mondo”di Gustave Courbet. In quei viaggi, Andrea Negrini, detto “il Negus”, quarantasei anni, ragioniere, ex-bancario, ex-assicuratore, ex tante cose, oggi autista scapolo, non si accontentava solo di scopare, attività per lui suprema e peraltro già più che sufficiente, ma maturava anche la sua visione del mondo, rendendola più compiuta, metafisica e esoterica, al punto di definirla la sua “weltangschaun”. Parolona, quest’ultima, letta chi si ricorda dove, scoperta per sbaglio tra le note di qualche antologia delle scuole superiori, sentita pronunciare per caso alla radio dall’ospite di turno di qualche programma del mattino, e che usa quando con gli amici vuole far vedere di conoscere anche delle cose importanti.

    Bene, mentre il nostro grande uomo, a cui manca solo la grandezza, sta per aprire la porta di quel vecchio bar ligure, mentre sta per compiere quel gesto che forse potrebbe segnare l’avvio del suo passaggio ad un nuovo destino, il suo approdo – questa è la parola giusta in Liguria - ad una nuova vita in quell’estremo marino occidente d’Italia…bene, in questo breve spazio di tempo, chiedetevi perché gli amici, a quell’omino magro, un po’ alto ma non troppo, con le gambe e le braccia sottili appena ricoperte di qualche modesta fibra muscolare e con l’ addome che comincia a dare evidenti segni di convessità, decisero di appioppare quel soprannome così stravagante ed altisonante, che un po’ si sposa pure con il suo cognome. Ogni parola, ogni cosa detta o scritta è metafora di un’altra. Sappiate, allora, che Negus è Africa. Ma non l’Africa nera, non l’Africa delle foreste, non quella degli uomini primitivi armati solo di lancia.

    Negus è l’Africa nobile, dell’Impero, quella del Dio cristiano, del Dio reincarnato e fattosi finalmente di nuovo uomo per la seconda o forse per la terza volta. E allora così si spiegano le ragioni di quell’appellativo che richiama il Ras Tafari Makonnen. Un messia imperatore cristiano copto, con il suo sangue, il suo intelletto, i suoi modi ecc. ecc. nobili, ma con l’uccello e le voglie di un negro degli altipiani. Sarcasmo? Ironia? Mah, chissà? forse, ma solo a questa precisa ragione è dovuto quell’esotico nomignolo di Andrea Negrini, padroncino di ducato FIAT (VOLUNTAS TUA, uomo col carro!).

    Ma cosa volete farne di questo Negus nostrano, cresciuto non a banane e ananas, ma a prugne e pesche? Perché giunti al punto decisivo il tarocco (che rigirato qui su di sé, segna in modo ostile il suo stesso destino) ci imporrà, per qualche ragione, di farlo recedere dalla sua possibile scopata tantrica con la bionda delle meraviglie. Resterà lì, col suo uccello duro, e qui dire “in mano” mi sembra di esagerare. E poi lui non è il tipo che fa anche da solo, non ha bisogno di ricorrere a quei mezzucci da quattordicenne. Io non me la sento di renderlo unico responsabile - nel poco spazio residuo - del suo prossimo fallimento. Perciò riprendo i tarocchi e ne scelgo un altro, un secondo.
    E’ difficile tenere i pensieri a posto di fronte alla bionda delle meraviglie…
    “Tu, ragazza in minigonna, che stai su quell’alto sgabello con le gambe accavallate non per comodità, non per comfort, nooo! Stai seduta in quel modo, per mostrare il pizzo delle tue nere mutande e quel solco sottile che forma la pelle piegata e che parte trasversale, da sotto, di fianco alla figa, di cui è sembiante, e che si perde verso l’esterno, tra coscia e gluteo lisci”…E infatti, una riflessione simile a questa è quanto passa per la testa del Negus appena la vede.

    Lei si alza e si dirige dietro il bancone mentre lo guarda. I suoi occhi evocano l’acqua azzurra, l’acqua chiara del mare ligure. A sua volta, il Negus osserva la venere bionda e subito s’accorge che è priva di difetti, come le ragazze delle copertine di Playmen, ma in carne ed ossa.
    “Un’occasione da non perdere, e non sarà solo un’avventura” pensa il Negus, avvicinandosi.
    “Ciao, cosa ti servo?” gli chiede la bionda. Anche la voce è accattivante e corrisponde al resto di lei. “Una coca-cola grande, alla spina” risponde il Negus.

    La bionda si gira, prende un bicchiere e lo riempie piano per non fare troppa schiuma. Mentre la coca esce dal beccuccio, il Negus le guarda il culo. Un pensiero spedito torna all’adolescenza, veloce come un pallone calciato al volo durante le partite di football tra ragazzi, all’oratorio: “Quelle natiche devono essere dure come quel pallone di cuoio numero quattro. Aah, stringerlo bene fra mie mani, quel bel culo nudo, farcelo stare tutto in queste bianche mani e fargli sentire, a quel culo - mentre, ventre contro ventre, io fra le tue cosce, sprofondo il mio viso fra i tuoi capelli biondi… O venere che profumi dei fiori di Bordighera - che sono forti come le nere mani di un grande guerriero masai…

    Devo riuscire a farmi dare il numero del suo telefonino.” Già s’immagina stretto a lei, inscindibile, come in un’altra canzone di Battisti/Mogol: “Nel sole, nel vento, nel sorriso e nel pianto”, ma l’occhio gli cade su un mazzo di carte posato sul bancone del bar.
    Ora il bicchiere è pieno, lei si rigira e glielo porge.
    “Giochi a carte?” chiede il Negus, indicandole mentre prende il bicchiere.
    “Questi sono tarocchi” risponde lei e prende il mazzo, lo mescola, glielo fa tagliare e poi ne sistema alcuni in fila sul bancone, coperti.“Ora girane due” gli dice.
    Ma proprio in quel momento un uomo entra nel bar. E’ un signore un po’ più vecchio del Negus, alto più o meno come lui.

    “Vanni Della Torre, sei proprio tu? che sorpresa!” dice la bionda sorridendo, uscendo da dietro il bancone ed andandogli incontro. “Cara Angelina, sono qui per una cosa particolare” risponde Vanni. I due si abbracciano, è da sempre che non si vedono. Mentre Angelina (non la Jolie, ma una canzone di Ivan Graziani) parla con Vanni Della Torre, il Negus beve la coca-cola. Quando ha finito, posa il bicchiere, gira due carte e le guarda. Poi si avvicina alla cassa per pagare. Lei arriva quasi subito.“Scusami” gli dice “sono tre euro. Arrivederci e grazie”.
    Andrea Negrini esce dal bar, risale sul suo ducato FIAT. Mentre accende il motore e riparte, pensa: “Accidenti a quel rompicoglioni…” e ai due tarocchi che ha girato, l’uomo col carro e la torre.
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  8. #8
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Primo tarocco: l'Alchimista. Altri tarocchi: Forza, Carro, Giudizio.

    Ovvero: L'esca


    Luigi Enzani, ventisei anni, studente in medicina. Sedeva sulla sua poltrona, immobile, mani appoggiate sulle coscie con i palmi verso l'alto, non fosse stato per gli occhi aperti e assorti si sarebbe detto che dormisse.
    La sua attenzione era tutta rivolta sul portacenere che fluttuava nell'aria a quattro centimetri dalle sue mani, di vetro spesso, sfaccettato come un grosso diamante.
    Non era stato troppo difficile arrivarci, si stupiva di essere il primo. Certo non era una cosa breve, all'inizio ci vuole impegno costante per svegliare il corpo di sogno e imparare a muoverlo, come rieducare dei muscoli indeboliti da una lunga immobilità. Ci voleva il tai chi all'inizio per espellere il pneuma esaurito, poi il rilassamento di tutti i muscoli per lasciar circolare quello fresco. Aveva dovuto imparare a tenere dritta e immobile la schiena perchè è quello l'interruttore che stabilisce a quale dei due corpi inviare l'impulso della volontà. Poi aveva imparato a volere e sentire i movimenti, lo sforzo di sollevare un oggetto pesante che attraversava le sue braccia senza che un solo muscolo del corpo reale si contraesse veramente. Lo sforzo arrivava alle mani senza ostacoli e l'oggetto si sollevava, prima cose leggere, ora era arrivato a sollevare quel posacenere da due chili e passa. Muovendo le mani del corpo di sogno lo fece ruotare.

    Nel sonno a volte sognava di levitare lui stesso, la sensazione era di contrarre con forza un muscolo nel fondo della pancia, che riusciva a sollevare tutto il suo peso. Si chiese se mai sarebbe riuscito a trovare quel muscolo nascosto anche da sveglio. Ad ogni modo quel che stava facendo era già sufficiente per provare l'esistenza del pneuma come grandezza fisica, dotata di un suo spettro come quello elettromagnetico, la prova empirica, la sola chiave che possa aprire una nuova branca della scienza.
    Aveva già dato delle dimostrazioni a familiari e amici, però non c'era stato l'entusiasmo che sperava, anzi un paio avevano smesso di farsi sentire. Altri si ostinavano a chiamarlo prestigiatore negando anche l'evidenza piuttosto che riconoscere l'assenza di trucchi. E' dura la vita del pioniere.
    Ma aveva un piano: un centro studi privato dichiarava di avere un assegno da un miliardo che sarebbe stato consegnato a chi potesse mostrare un fenomeno che la scienza attuale non potesse spiegare, di fronte a una commisione di esperti. Lui si era allenato, si sentiva pronto a far levitare qualunque oggetto entro i tre chili di peso anche con la distrazione di un pubblico e un ambiente estraneo. I soldi non gli facevano schifo, ma l'importante sarebbe stato l'effetto mediatico, i giornali non avrebbero potuto ignorare la notizia, le autorità scientifiche non avrebbero più potuto nascondersi dietro la ragione.

    Avrebbero dovuto cominciare a ricercare. Con la ricerca sarebbero venute le applicazioni, non solo nell'antigravità, ma soprattutto nella medicina. Una forza in grado di nutrire direttamente le cellule viventi, metterle in grado di funzionare al meglio, spingere al massimo la capacità di rigenerazione del corpo umano. Quante malattie avrebbero trovato la loro cura.

    Quei signori dell'associazione razionalista si erano dimostrati più cordiali di quanto si aspettasse, per nulla ostili. Aveva dovuto spogliarsi completamente in uno stanzino e indossare una tuta fornita da loro, gli avevano dato una palla di legno da meno di due chili, lo avevano fatto sedere su di una sedia comoda al centro di uno studio, solo cinque persone assistevano alla sua dimostrazione. Lui fece tutto senza difficoltà.

    " Va bene, riconosciamo che non c'è simulazione e lei è realmente in grado di far levitare degli oggetti. "
    L'ingegner Trecciani, capo della commissione, perlava senza nessuna emozione, come se gli capitasse ogni giorno di vedere cose del genere.
    Luigi per questo cominciava a sentirsi a disagio, diventava aggressivo.

    " Di questo voglio una dichiarazione scritta e firmata ! "

    L'ingegnere si alzò e si spostò dalla sua posizione di fronte a Luigi.
    " Certamente, la compileremo subito, ma prima da regolamento è mio dovere ritirare l'assegno dalla cassaforte e consegnarglielo. Rimanga seduto, prego, faccio in un attimo. Daniele, intanto vuoi provvedere ? Grazie. "
    Luigi rimase seduto a guardare l'ingegnere che trafficava con la cassaforte a muro, qualcuno si muoveva dietro di lui, doveva essere Daniele, non ci fece caso.
    Dal nulla uno scoppio di tuono e una botta dietro la testa, buio, stava cadendo faccia a terra. Una bomba ? Un terremoto ? Gli era crollato il soffitto sulla testa ?
    Si alzò da terra spaventato, cercava di guardarsi attorno, i colori tornarono lentamente, mise a fuoco.
    La stanza non era cambiata, gli altri erano tranquilli come se non fosse successo nulla. Lo ignoravano anzi, non sembravano sentire le sue domande agitate, le scuse per essere caduto.
    E chi era quello con la testa ciondolante seduto in mezzo alla stanza ? Perchè c'era del sangue per terra ? Aveva una tuta uguale alla sua, i capelli anche. Daniele in piedi stava pulendo l'interno della canna di una pistola.
    Era morto, kaputt, fantasma ! Ecco perchè non gli rispondevano. Eppure si sentiva ancora intero, braccia, gambe, testa. Aveva persino addosso i suoi vestiti, quelli che aveva lasciato nello stanzino.
    Però la visuale era cambiata, non ci aveva fatto caso, ma ora riusciva a vedere tutta la stanza in tutte le direzioni, ogni particolare era chiaro, riusciva a seguire contemporaneamente ogni discorso.
    Gli inservienti erano entrati e stavano pulendo. Un paio di membri della commissione avevano indossato i soprabiti e se ne andavano, come chi esce da teatro alla fine dello spettacolo.

    L'ingegnere aveva una mano posata davanti alla bocca, le dita stringevano le guance, guardava in basso e parlava a nessuno in particolare.
    " E' già l'ottavo quest'anno. Se guardiamo il decennio abbiamo tre anni in cui viene superata la media... c'è nulla da fare, stanno aumentando. Quanti toccherà ammazzarne ancora di sti stronzi ! "

    Daniele aveva messo via la pistola e stava arrotolando del tabacco. Rispose molto flemmatico.
    " Aoh, finchè ci pagano... "

    Luigi sentì una voce chiamarlo, provò sollievo, aveva temuto di rimanere solo per sempre. Contrasse un muscolo in fondo alla pancia che non sapeva di avere e salì fino al soffitto, poi la luce gli venne incontro.
    Fiducioso andò a ricevere il suo giudizio.
    Ultima modifica di tolomeo; 30-04-10 alle 09:27
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  9. #9
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    La Giustizia.




    La seguente storia e' stata tradotta e riportata da un blog turco in cui si fa riferimento ad un sito ormai spento. E' per questa ragione che ci sono dei vuoti che ho tuttavia cercato di colmare traendo spunto da vari commenti riferiti alla storia stessa.


    08, M. si sbarazza dei rifiuti della colazione, lava le stoviglie ed esce di casa. 08:13, monete gia' pronte in mano, passa all'edicola a prendere il giornale. 08:16 in punto, attraversa la strada sfogliando il giornale, il semaforo pedonale a quell'ora presisa e' sempre verde, lui lo sa.
    M. e' una persona molto ordinata e conduce, per inclinazione e per scelta, una vita ordinaria. Ci ha lavorato tanto, per prevedere ogni contingenza che puo' presentarsi nella vita di tutti i giorni e ad evitare quelle che lui chiama "sorprese": belle o brutte che siano ad M. le sorprese non piacciono. La condizione migliore in cui ci si possa trovare e' quella di una vita che scorre liscia liscia e perche' cio' accada tutto ma proprio tutto deve essere programmato e organizzato fino all'ultimo dettaglio. M. non riesce a capire come i suoi colleeghi possano andare avanti con le loro vite disordinate e piene zeppe di incidenti, imprevisti, e "sorprese", appunto, di cui poi passano tutto il tempo a lamentarsi. Nella vita, secondo M. tutto puo' prevedersi, quindi tutte le situazioni sono ponderabili e possono essere organizzate, programmate.
    Una condizione ideale! Per lui e' il raggiungimento di quel che credeva fosse la felicita'. C'e' pero'una cosa, un piccolo neo, anzi una verruca in questa corazza protettiva a cui era faticosamente approdato. La morte, quella non puo' prevedersi. Nonostante tutte le cautele, nell'alimentazione, nell'igiene, nelle prevenzioni, quella arriva. Il fatto che arrivi non era per M. un grosso problema. Mentalmente ci si puo' preparare anche a cose spiacevoli, se uno proprio non puo' evitarle. Il problema e' che non si puo' sapere quando avverra', quindi non ci si puo' preparare opportunamente.
    Ci sono, forse proprio nelle persone piu' razionali come il signor M., dei comportamenti apparentemente irrazionali ma umanamente comprensibili. M. probabilmente scelse di farlo in considerazione del fatto che si trattava di una cosa piuttosto innocente, e anche perche' aveva pensato che in fondo non c'erano altre vie a disposizione: doveva cercare di eliminare quella verruca. Fu cosi' che un bel giorno M. entro' nel tendone di una cartomante di una giostra di passaggio. La donna pareva annoiata, lo guardo' e lo soppeso', e decise di sbarazzarsene il piu' presto possibile. Dissimulo' il suo umore con un bel sorriso e invito' M. a sedersi davanti ad un tavolo ricoperto da una tovaglia blu con su dipinti dei segni esoterici che non incuirosirono minimamente M. "Puoi predire il futuro?" "Certamente, cos'e' che vuoi sapere? Lavoro, amori, sorte, salute?" "Non mi interessa nulla di tutto cio' (di cui gia' so quasi tutto e per cio' ce non so sono sufficientemente preparato, penso' ma non lo disse). Voglio solo saper una cosa e una cosa sola. Dimmi solo se sei in grado di predirlo. Sei in grado di dirmi esattamente, giorno, mese, anno e ora in cui moriro'?" La donna lo guardo' con maggiore intensita', vide davanti a se un uomo calmissimo, scettico ma allo stesso tempo sinceramente inquisitivo. "Quella e' proprio la sola cosa che non puo' essere predetta, ne' da me ne' da alcun altro". "Ma come, potresti predire un incontro galante, una malattia, una promozione e tutta quella roba la, e quello non sai predirlo? Ho perso il mio tempo, grazie." Fece per alzarsi, ma la donna o trattenne e con una mano afferro' un mazzo di tarocchi dal tavolo. "Si sieda un attimo, mi faccia vedere. Faro' uno sforzo, in genere non faccio cose del genere perche' e'... molto doloroso, e mi affatico". M. si sedette nuovamente e la scruto', sopracciglio alzato. Si disse che arrivato a quel punto tanto valeva perdere altri 5 minuti. La donna comincio' a distendere le carte sul tavolo, alcune coperte, altre scoperte, Un'espressione sofferente comincio' ad apparirle in volto, gli occhi si fecero piu' opachi e distanti, pronuncio' alcune parole in una lingua incomprensibile e alla fine afferro' una carta e la mostro' ad M. Raffigurava una matrona seduta, vestita con una gonna larga e rossa e teneva in una mano una bilancia e nell'altra una spada. Sotto c'era scritto: La Giustizia. "No, non posso proprio, non mi rispondono, o perlomeno non mi rispondono a tutte le domande. Ci sono troppi... troppe incognite. L'unica cosa chiara e' il giorno, il resto e' foschia. Lei morira' un mercoledi', non so in quale mese o quale anno, ne' posso dirle piu' di questo ".


    A questo punto manca la parte centrale della storia. Ho potuto ricostruire un po' quanto accadde in seguito grazie ad alcuni riferimenti di internauti che cortesemente mi hanno riferito quanto ricordavano.

    In breve, M. trascorse i successivi sei mesi percorso prima da una certa euforia, in seguito fu preso da una progressiva apatia e da un rallentamento psicomotorio che lo porto' a non curarsi piu' di nulla. Passava una settimana dopo l'altra seduto in una poltrona, le unghie affondate nei braccioli, le nocche delle dita bianche, aspettando che arrivasse il mercoledi'. Passato il mercoledi', la tensione invece di diminuire aumentava e M. sgomento e aggrappato alla poltrona attendeva il mercoledi' successivo.


    "Cosa mi sai dire, agente?"
    "Ho chiesto ai vicini e alla portinaia, ispettore. Non lo hanno visto da mesi ma hanno notato che la luce restava accesa tutta la notte. Pare non abbia dormito da tempo nel suo letto, su cui era steso un abito scuro, biancheria pulita, camicia, cravatta e scarpe nere. Sotto il vestito c'erano delle buste, una indirizzata alla sua banca, un'altra contenente dei soldi in contanti ad un servizio di pompe funebri con cui pare avesse preso degli accordi precisi gia' sei mesi fa. Ho telefonato ai becchini che mi hanno confermato questo fatto: mi hanno detto che quando quel signore li aveva contattati avevano pensato fosse un burlone." "Grazie, agente. Ah, buon giorno dottore. Cosa ha da dirmi?" "Carissimo ispettore, abbiamo eseguito tutte le analisi, possiamo escludere il suicidio: quel poveraccio e' morto a causa di una trombosi. Devo dire che il rigor mortis era avanzato - si ricorda che siamo stati costretti a rompergli le ossa per poterlo distendere sulla barella? - ma abbiamo accertato con sicurezza a quando risale la sua morte: tra le 6 e le 10 di tre giorni fa." "Ah... dunque, oggi e' martedi'... vuol dire ce e' morto sabato mattina ?" "Esatto, ispettore".

    (ovvero, vai a credere ai tarocchi)

    Finis
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

  10. #10
    a.k.a. tolomeo
    Data Registrazione
    18 Jul 2005
    Messaggi
    42,306
     Likes dati
    0
     Like avuti
    12
    Mentioned
    7 Post(s)
    Tagged
    0 Thread(s)

    Predefinito Rif: I racconti del contest IV. Votate!!!

    Volta la carta

    Saliva la collina del piccolo paese del Molise dove la donna, bionda come il grano che stava seminando, lanciava con gesti precisi pugni di semi a coprire i solchi scuri che il marito aveva inciso nella terra due giorni prima, bestemmiando di sudore e fatica per il sole assassino che non dava requie.

    Ripensava alla cartomante che il giorno prima nella piazza del paese lo
    aveva attirato nella sua tenda, e non sapeva nemmeno lui perché l’avesse seguita, sedendosi sullo sgabellino sbilenco di fronte ad un tavolino sbilenco con sopra una palla di vetro. La palla di vetro non era nulla di speciale, era una palla di vetro. Le mani dalle lunghe unghie rosso lacca avevano iniziati a smazzare i tarocchi. Prima carta il Diavolo. La donne disse: “Quello che tu stai vivendo ora nasce dal tuo passato”.

    L’uomo emise un debole sospiro tornando con la memoria alla sua giovinezza, a quella immensa distesa di neve che aveva percorso lasciandosi dietro i compagni, con i piedi avvolti nel giornale, negli stracci, un passo dopo l’altro. Si, ricordava bene, la ritirata dal Don.
    La donna, sempre muovendo teatralmente le mani, sfilò dal mazzo la seconda carta.

    Al ritorno dal fronte Angiolina non lo aspettava più. I baci rubati nel portone la sera prima della partenza per la guerra non erano bastati ad tenerla legata. Al suo ritorno, quello che rimpianse fu solo di non avere messo le lettere che teneva nella divisa per scaldarsi il cuore attorno ai piedi gelati.
    La maga disse, girando l’Eremita: “Qualcosa ti rende diffidente verso le donne, è un dolore profondo e lontano”.

    Ritornò con la mente lungo la strada polverosa, guardando un monello con una testa di ricci scuri correre veloce insieme ai compagni, ridendo della prodezza di avere ancora fatto fesso Antonio. Il vecchio non riusciva mai ad agguantare i ladruncoli che saccheggiavano il suo frutteto, e non riuscendo più a correre, spolmonato dal troppo trinciato e dal troppo vino rosso, urlava maledizioni inutili che si mescolavano al tintinnio delle risate. Le arrabbiature di Antonio erano un fuoco di paglia, come l’inutile chicchirichì del suo vecchio gallo che aveva preso il giorno per la notte e lanciava richiami e sveglie a sole ormai alto.

    Camminando, ritornò sempre con la mente dentro la tenda, di nuovo seduto al tavolino sbilenco. Il collo ormai vizzo della vecchia maga era solcato di rughe a losang . Aveva voltato una carta, l’Imperatrice. “C’è una donna, una donna sensuale che viene dal passato, capelli neri e seni rotondi”.
    Angiolina. Capelli neri, e seni rotondi. Ancora quell’immagine, di lei che metteva spighe tra i capelli ridendo forte, una paglia tra i denti, e ancora prima, quando erano bambini insieme nello stesso vicolo, di lei che lanciava ossi di pesca da prendere al volo. Angiolina era andata via subito dopo la guerra seguendo il giovane tedesco nella ritirata verso Nord, non poteva restare, non dopo che tutto il paese sapeva del figlio che portava in grembo. Il soldato biondo veniva la sera col grammofono per farne uscire musiche da ballo e storie d’amore.

    In effetti, uscì l’Appeso. “Ci furono dei cambiamenti, forse una donna che si è messa contro il mondo intero”. Non capiva più se la maga stesse facendo le carte a lui o ad Angiolina. Lei aveva lottato contro il paese, contro quella foto ritoccata a mano che la guardava fissamente ricordandole che si erano promessi la vita, ma oramai agli occhi neri della foto lei sovrapponeva quelli trasparenti del giovane tedesco che la faceva ballare. Era stato lì, dietro al vecchio mulino, che lei aveva buttato via per sempre quell’immagine fissa dalla sua mente. E lei, contro sua madre e le sue sei sorelle, il giovane tedesco lo aveva sposato, la notte prima di scappare, nella piccola chiesetta del paese.
    Che strano, gli ricordava una canzone, una canzone di almeno trent’anni prima, di un genovese che cantava una storia di carte. Lo aveva colpito proprio il nome, Angiolina. E adesso sempre con la mente alla tenda della maga, pensava ad Angiolina, alle carte e alla sua vita.
    La maga girò per l’ultima volta tre carte insieme. L’Alchimista, la Papessa, e il Carro. La maga disse: “Vedo un percorso irto di ostacoli, forse intrapreso senza convinzione. Un viaggio spirituale”.

    Camminava vedendo in lontananza delinearsi il campanile. La maga non si era accorta del piccolo colletto bianco rigido. Don Raffaele si affrettò a raggiungere la Chiesa. Tanti, tanti anni prima, per una donna, aveva respinto il mondo e aveva cercato conforto nella fede. Ora che era un vecchio parroco di paese, e che era tornato negli stesso luoghi della sua giovinezza, entrando in quella tenda aveva rivisto alcuni pezzi della sua storia, aveva riascoltato un vecchio disco, aveva per l’ultima volta sorriso al ricordo di capelli neri e spighe di grano. Affrettandosi, entrò in sagrestia per indossare i paramenti sacri per la messa.
    Ultima modifica di tolomeo; 29-04-10 alle 14:52
    .

    A fool and his money can throw one hell of a party.

 

 
Pagina 1 di 3 12 ... UltimaUltima

Discussioni Simili

  1. contest IV - racconti
    Di cacomassi nel forum Hdemia
    Risposte: 30
    Ultimo Messaggio: 29-04-10, 15:10
  2. perché non votate per il contest di Hdemia?
    Di sugarbabe nel forum Il Seggio Elettorale
    Risposte: 23
    Ultimo Messaggio: 21-03-10, 15:25
  3. contest III - racconti
    Di cacomassi nel forum Hdemia
    Risposte: 10
    Ultimo Messaggio: 20-03-10, 00:10
  4. Contest II - I racconti
    Di cacomassi nel forum Hdemia
    Risposte: 95
    Ultimo Messaggio: 26-02-10, 08:46
  5. Contest I - racconti
    Di cacomassi nel forum Hdemia
    Risposte: 127
    Ultimo Messaggio: 09-02-10, 03:33

Permessi di Scrittura

  • Tu non puoi inviare nuove discussioni
  • Tu non puoi inviare risposte
  • Tu non puoi inviare allegati
  • Tu non puoi modificare i tuoi messaggi
  •  
[Rilevato AdBlock]

Per accedere ai contenuti di questo Forum con AdBlock attivato
devi registrarti gratuitamente ed eseguire il login al Forum.

Per registrarti, disattiva temporaneamente l'AdBlock e dopo aver
fatto il login potrai riattivarlo senza problemi.

Se non ti interessa registrarti, puoi sempre accedere ai contenuti disattivando AdBlock per questo sito