Vietnam on my mind
di Christian Rocca
18 Settembre 2008, Il Foglio
New York. L’America combatte in Iraq e in Afghanistan e, forse, anche dentro i confini pachistani, ma trentatrè anni dopo il ritiro con disonore da Saigon è ancora la vecchia guerra in Vietnam a definire il carattere dei candidati e le politiche dei protagonisti delle campagne elettorali presidenziali. I cinema d’essai di Manhattan proiettano un documentario sul “Virtual JFK”, cioè su che cosa John Fitzgerald Kennedy avrebbe fatto in Vietnam se fosse rimasto in vita. Il film non è soltanto un’esercitazione di storia virtuale, ma vuole parlare di Kennedy e Vietnam perché il prossimo presidente intenda e applichi la lezione in Iraq. Avviata nel 1959 da Kennedy e poi dal suo successore Lyndon Johnson per fermare l’eventuale effetto domino che la caduta del Vietnam in mani comuniste avrebbe causato in tutta l’Asia, quella guerra non è mai scomparsa dal dibattito politico.
Quattro anni fa, l’eroe del Vietnam John Kerry è stato annichilito da un gruppo di ex commilitoni che non gli aveva perdonato le sue attività pacifiste al ritorno da Saigon e in particolare le denunce pubbliche sui presunti crimini commessi dai soldati americani ancora impegnati laggiù. John McCain è il candidato che ha costruito una carriera politica sulla sua eroica esperienza di cinque anni e mezzo nelle celle vietnamite. La politica estera di Barack Obama, infine, è il prodotto più tradizionale di quella che ai tempi di Ronald Reagan è stata definita la “sindrome vietnamita” della sinistra americana, ovvero la tendenza a volersi ripulire la coscienza per quella guerra assecondando il sentimento pacifista dell’opinione pubblica.
La riflessione più interessante è sull’ultimo numero della bella rivista liberal The Atlantic Monthly, a firma dell’ex reporter del New Yorker, Jeffrey Goldberg. La tesi di Goldberg è che se davvero si vuole capire la visione del mondo di McCain, la sua idea dei pericoli che corre l’America e le sue ricette per mantenere sicuri gli Stati Uniti e l’occidente bisogna tornare al Vietnam. Non tanto e non solo ai suoi cinque anni e mezzo di prigionia e tortura, dove McCain ha formato il suo spiccato senso dell’onore, ma soprattutto al ruolo che ha giocato il padre nel tentare di non perdere la guerra e l’opinione pubblica nel determinare la disfatta.
L’ammiraglio John McCain junior, padre dell’attuale candidato alla presidenza, nel 1969 si era a lungo battuto per cambiare strategia militare in Vietnam, esattamente come ha fatto il figlio riguardo all’Iraq. Mentre McCain figlio marciva nelle galere di Hanoi, McCain padre scriveva al capo di stato maggiore, e anche sul New York Times, che per vincere la guerra gli americani avrebbero dovuto ribaltare l’approccio in corso e cominciare a proteggere la popolazione locale dai vietcong, invece che limitarsi a dare la caccia ai comunisti. McCain padre era d’accordo con il nuovo e brillante generale Creighton Abrams, inviato da Richard Nixon in Vietnam per cambiare la vecchia e inefficace strategia del generale William Westmoreland (il generale Bob Casey di allora). Il paragone con quanto è successo tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, ovvero con il ruolo che McCain figlio ha avuto nel sostenere il generale David Petraeus e il “surge” iracheno, è evidente. McCain padre credeva che la guerra potesse essere vinta e anche McCain figlio, tutt’ora, ne è convinto, sia riguardo al Vietnam sia sull’Iraq. Numerosi storici, peraltro, sostengono che le nuove strategie vietnamite di Abrams stavano dando i suoi frutti e che l’offensiva del Tet lanciata dai nordvietnamiti per mobilitare la popolazione civile contro gli americani si era risolta in un disastro per i comunisti. Senonché, in America, l’opinione pubblica non ne poteva più e Washington s’è dovuta accodare, con le conseguenze disastrose per il sud est asiatico, per il morale dell’America e per lo stato dell’esercito. Goldberg spiega, inoltre, che secondo McCain, una presidenza Obama si farebbe trascinare dall’idea di chiudere la guerra in Iraq, invece che vincerla. (chr.ro)
http://www.camilloblog.it/archivio/2...am-on-my-mind/