La rabbia degli chef orientali: contro di noi i soliti pregiudizi
di Mauro Evangelisti
ROMA (25 settembre) - «Ma come si fa a dire “non andate a mangiare nei ristoranti cinesi”? Cosa c’entra il latte contaminato in Cina con i piatti che cuciniamo a Roma? Questo è un solo pregiudizio... Certe cose potrebbero dirle quattro persone al bar, non un rappresentante del Governo italiano. Beh, spero davvero che l’ambasciata cinese si faccia sentire. Comunque, i nostri clienti hanno la testa al posto giusto: sul collo. Ragionano. I tavoli sono al completo». Sonia Zhou, quarant’anni, da ventiquattro in Italia, è titolare di uno dei circa 400 ristoranti cinesi sparsi per Roma. Il suo - lo Hangzhou - vanta dal 2001 una citazione nella guida del Gambero Rosso.
Ma ora che succederà? Nel 2003, ai tempi dell’allarme Sars, molti ristoranti cinesi andarono in crisi. Erano 600, un terzo è uscito dal mercato. Molti si sono rinnovati e si sono trasformati in giapponesi. Addio anatra alla pechinese, benvenuti sushi e tempura. O amatriciana: sì, perché ci sono anche cinesi di seconda generazioni che hanno convertito i loro ristoranti alla cucina italiana. Ma a fare arrabbiare la comunità di Roma sono le scatole cinesi dei pregiudizi. Spiega Liu, cinese di seconda generazione, accento molto più romano di tanti suoi coetanei nati a Trastevere: «Ma secondo voi nella cucina cinese si usa il latte, la panna? Chi va al ristorante cinese cerca il riso, la soia, non i tortellini alla panna!». Aggiunge Sonia: «Noi ormai compriamo tutto da fornitori romani».
La rabbia della comunità cinese - che ha la sua presenza più visibile a piazza Vittorio dove ci sono almeno quattro negozi di alimentari cinesi («nessuno vende latte importato, sarebbe antieconomico») - è comprensibile. C’è chi sorride pensando al “chi la fa, l’aspetti” e ricorda che la Cina sospese l’importazione delle mozzarelle italiane per paure della diossina. Ma c’è un’altra faccia della medaglia: i carabinieri del gruppo antisofisticazioni, in passato, hanno sanzionato e chiuso ristoranti cinesi con condizioni igieniche impresentabili. Non solo: il dinamismo del commercio made in Cina, anche a Roma, a volte supera i confini della legalità. Una decina di giorni fa la polizia municipale, a Torre Angela nella periferia di Roma, entrò in un negozio di alimentari gestito da cinesi. Scoprì un piccolo mondo sommerso, ottocento metri quadrati pieni di merce importata, dalle meduse al pesce, dai biscotti alle bibite. C’erano macchinari che sezionavano e impacchettavano i prodotti made in Cina. Le date di scadenza? Clamorosamente modificate. Gli acquirenti? Secondo la polizia municipale tanti privati, ma anche qualche ristorante. «Che senso ha sparare nel mucchio? - dice Marco Wong, ingegnere ed esponente di Associna - I controlli sono giusti, chi fa degli abusi va fermato. Ma questo vale per i ristoranti cinesi e italiani. Guardate che anche noi andiamo a mangiare nei ristoranti cinesi...».
http://www.ilmessaggero.it/articolo_...&npl=&desc_sez
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