L’ITALIA NON PUO’ ESSERE UNA
Di Giacinto de’ Sivo
(scritto nel 1860)
Si conceda che il Piemonte voglia fare una Italia, che strappi
Nizza, Corsica e Savoia alla Francia, e Mantova e Venezia al Tedesco;
che accheti il mondo cattolico, mandi il Papa a Gerusalemme, e giunga
a sedere in Campidoglio; si conceda che la frode e la forza vincano osta-
coli sì gagliardi, e sian raggranellate in un laccio tante sperte provincie,
e tutte le genti del SI sotto uno scettro; posto che questa nuova potenza
struggitrice de’ diritti preesistenti, sia nel suo nuovo diritto riconosciuta
dalle nazioni e trionfi; immaginiamo tutto ciò pienamente compiuto, sarà
anche allora fatta I ’1talia una?
Non può la forza congiungere animi disgiunti, interessi opposti,
passioni invide o rivali, terre separate da monti, da fiumi e da distanze,
differenti costumanze, varie stirpi, bisogni diversi, contrarie tendenze, e
gli opposti sensi e le tradizionali memorie, che si nutron col sangue e si
succhian col latte. Le parti eterogenee d'un tutto sconnesso, messe in-
sieme a forza d’insidie e usurpazioni, si sciolgono presto; e la guerra
civile inevitabile e parteggiamenti e vendette saranno il frutto d’un’opera
elevata da scellerato capriccio, a dispetto degli uomini e del cielo. Più
saranno le provincie fuse e più saranno i nemici. La natura compressa
ripiglia il suo diritto; lotta si con le opere stolte delle umane fantasie,.
ma pur vince alla fine. Ciascun essere non può mutare sua essenza, e
una nazione sarà sempre quella che fu. Potrà progredendo diventar grande
e forte, ma non fonderà i frutti di semi diversi, perché Iddio tutto die’
all’uomo fuorché la potenza di turbare le leggi della creazione.
Il cammino de’ popoli e come un sillogismo che costa di proposizione premessa e di conseguenza, e là dove si vogliano conseguenze che non iscendano dalle premesse s’ha il sofisma.
L’Italia una è un sofisma.
Gli antichimaestri di politico senno, mai non pensarono a fondere una Grecia. E la Grecia ha consanguineità e simiglianza di regioni e di usanze con l’Italia antica e moderma.
Atene, Sparta, Tebe, Argo, Corinto non potevano esser fuse; solo potettero esser dominate dai Macedoni, e poi dall’ aquile romane.
Oggi il Piemonte vorrebbe fare il Macedone in Italia, ma non
ne ha le falangi; e mentre intende ad agguantar gli altri, non vede poi tre
aquile e lioni con unghie adunche che gli stan sulle spalle, per dilaniar
esso e la preda.
L’Italia, antica più ancora della Grecia, fu sin dai principii popo-
lata da popoli molti e diversi. A’ tempi eroici furono guerre in Flegra,
che adombrano, come chiarì il Vico, le lotte campane fra gli Opici e i
Greci, fra gli uomini della terra e quelli giunti dal mare. I Polasgi non
fecero una Italia, né gli Etruschi, né i Greci, né i Troiani. Ciascun popo-
lo si adagio su un canto di terra; e fur parentele e guerre e paci fra loro,
senza più. Virgilio numera centinaia di popoli confederati con Turno o
con Enea, E Livio narra le fatiche de’ Romani per domarli. Umbria,
Etruria, Lazio, Liguria, Venezia, Gallia, Lucania, Campania, Sannio,
Irpinia, Apulia, Brezza, Caonia, Sabina, Sicania, Ernicia, Daunia e cen-
to altri nomi avevano queste contrade.
I savi Romani non pensarono a
fonderle mai, ma lor serbarono le autonomie, cioè leggi, magistrati e
governo, e soltanto le federarono, onde n’ebbero aita e forza. E pure
patirono la rivoluzione, detta la guerra sociale, per la federazione de’
soci contro di essi. E quando dopo concedettero a tutti gl’Italiarii la cit-
tadinanza romana, cioè il diritto del suffragio, allora venne meno il sen-
no di Roma. Nei comizi, fra tanti popoli diversi, si portavano, più che
voti, arme ed argento; onde sursero ambiziosi che corruppero e compra-
rono lo Stato e la repubblica cadde. Fu il sofisma sociale che non di-
scendeva dalle cose premesse; fu una maniera d’lmlia una parteggiata,
scissa e insaguinata da' Cesari e dagli Antonii. Allora la società, nella
pienezza della vita vicino ad essere disfatta, s’ebbe a ricostruire sotto lo
scettro del più furbo, e surse un Cesare, cioè il dominatore universale.
Allora l’Italia non fu una già, ma unita nella servitù con tutto il mondo,
schiavo de’ Caligola e de’ Neroni.
L’Italia non poté essere una neppur nel Medio Evo, quando le na-
zioni moderne uscirono unificate dalla spada e dal seme dei Barbari.
Spento l’Impero romano, le genti settentrionali, agguagliando con le stra-
gi e le devastazioni i popoli tutti, occuparono le regioni e furono semi di
nuove nazionalità. I Franchi fecero una Francia, gli Unni una Ungheria,
gli Angli una Inghilterra e i Goti una Spagna, ma simiglianti Goti non
poterono fare una Italia. E certo che alcuno poteva farla, questi era il
gran Teodorico Goto, perché distrutto quasi il sangue romano, ripopolata
la regione da estrema gente, fu quasi un popolo nuovo, cui si poteva
dare la forma una, con l’unità di leggi e di governo, e che poteva natu-
ralmente nel novello sangue, cominciar vergine una vita autonoma e
sua. Teodorico questo volle far col gagliardo scettro e le leggi sapienti.
Voleva una Italia; ma l’opera sua finì presto, e la spensero i diritti
preesistenti de' Greci Bizantini, e la difficoltà geografica del territorio,
più che i delitti de’ suoi successori; né valsero le buone leggi, le gagliar-
de volontà e le fortissime arme a sostenerla. Teia, ultimo Goto, non fu
vinto già da Belisario e Narsete soltanto, ma dalla impossibilità d’una
Italia. E così con uguale vicenda non riusciva a farla Narsete, né Longino,
né Alboino longobardo, vincitore venuto con tutto un popolo ad occu-
parla. I Longobardi se stessi divisero,Anat1i, terzo re, nel 589, asservendo
molte repubblichette sirio a Reggio di Calabria, fe’ qui uno stato distin-
to. E v’ha chi assicura che anche a costui preesistesse il ducato di
Benevento. Resto il regno lombardo superiore, il Beneventario nella parte
inferiore, e alquante spiagge a Greci. Incomincia da quel tempo l’auto—
nomia del napolitano paese, che conta tredici secoli e più!
Né tampoco si poco divisa e quasi tutta longobarda potette dura-
re; ché presto qua e là sursero repubbliche rivali e nemiche; ed ebbero la
prima origine le persone di tante città, e le memorie e gl’interessi vari e
contrari che non sono ancora spenti in tanto volgere di tempi.
Carlo Magno prepossente voleva in una Italia fondare l’imper0
Franco; ma Arechi Beneventano lo arresta sul Volturno e seguiva fra
essi una pace che fermò per sempre l’autonomia di questo paese meri-
dionale. Carlo allora, veramente Magno, vista la impossibilità di fare
una nazione, e farla forte con l’Impero, la volle forte con la Fede, e creò
0 forse meglio riconobbe la monarchia de’ Papi, la quale nel corso de’
secoli ha propugnato la Fede e la civiltà. Ma il fortissimo Carlo Magno
non poté fondere l’Italia.
Non serve a rammemorare gl’inani sforzi degli Svevi, né quelli
moderni del I Napoleone, che pure catturò il Papa in Vaticano.
L’Italia non poté essere una mai !
né quel misero Conte di Cavour avrebbe fatto
col braccio straniero quanto né Teodorico, né Alboino, né Carlo, né il
Buonaparte con arme propria e vittrice poteron fare, Il Cavour poteva
solo, come fece, dare allo straniero un altro lembo di questa strambellata
italica terra.
L’Italia non fu una come l’Inghilterra, Spagna e Francia, perché
Iddio la creò svariata, la fe’ lunga e smilza, e rotta da fiumi e da monta-
gne; la popolo di stirpi diverse d’indoli, di bisogni, di costumanze, e
quasi anche di linguaggio‘; le mise più centri, le fe’ elevare più città
capitali; e die’ a tutte le sue contrade una prosperità che basta a ciascuna
e a ciascuna una mente, un’ anima e una persona compiuta. Han si somi-
glianza, ma non omogeneità. Ogni suo paese è uno Stato intiero; ha san—
gue, storie e passioni e bisogni suoi, ognuno ha e vuole la sua indipen-
denza, le sue leggi, il suo nome, e la sua vita; e niuna vorrà perdere
l’essere, cioe uccidere sé, per far presente del suo spento corpo ad una
città lontana o ad un tutto ideale, per averne in ricambio la particella
d’un nome fragoroso, le difficoltà del governamento, la mutazione delle
leggi, il far parte delle guerre europee, e il servaggio della patria vera.
Non si puo per una nazionalità ideale distruggere le nazionalità
reali.
Potranno le cieche sette turbare gli Stati, destare gli odi contro i
sovrani, magnificar con paroloni un re galantuomo, muovere i facili
desideri di novità che annidano nelle masse; potranno sorprendere ed
abbagliare un momento ed in un istante di vertigini spingere una popo-
lazione ad abdicare la sua potestà; ma passa la febbre, i mali nuovi si
sperimentano peggiori de’ vecchi, si ricordano i beni perduti, risorgono
le antipatie di razze, si sentono le comprensioni dello stato nuovo, man-
ca la consueta prosperità, vien la miseria e la fame, e l’opera della rivo-
luzione in nome di una nazione fittizia è presto dal fremito delle varie
nazioni rovesciata. E se lo Stato assorbitore non fosse né forte né glo-
rioso né civile né ricco quanto quelli assorbiti? Immaginate una Torino
ingoiare una Napoli, un Piemonte abbrancar le Sicilie, l’ignoranza inse-
gnare alla scienza, una terra assiderata, e quasi non tocca dal genio del
bello, mandar pedanti a recar le lettere là dove le arti e le scienze tutte
misero eminente il loro seggio?
Solo la cecità de’ settari e quella testa
del Cavour tanta insigne presunzione potean nutrire.
A tanti argomenti di storia e di filosofia sento mettere innanzi
l’esempio della Francia rifatta una. Ma questa non ebbe difficoltà di
territorio né di stirpe. Essa è circolare, con un centro naturale; fu sem-
pre di un sol popolo, de’ Galli prima, poi de’ Franchi. Non mai fu divisa,
perocché ebbe un re solo; e se grandi vassalli n’aveano staccati gli utili
domini, pur rimasto era l’imperio al monarca. Fu opera non impossibile,
ma neppur lieve, il restituire alla corona quelle strappate gemme; e i re
francesi vi stettero più secoli a farlo, ma con trattati c successioni e
nozze, cioè rispettando i diritti preesistenti, sebben fors’anco abusivi. E
Francia ebbe solo una Parigi; né ebbe Napoli e Roma e Firenze e Geno-
va e Milano e Venezia e Palermo, né cento altre minori ma pure autono-
me città, che alla loro volta d’altri territori son centri. E oggi la rivolu-
zione, calpestando ogni diritto, vorrebbe fare di botto un’opera impossi-
bile iniziata da una Torino, quando l’opera possibile iniziata da' re in
Parigi, e rafforzata dal diritto, ebbe per di più secoli mestieri!
L’ltalia NON PUO esser una !! Né mai l’umana malvagità per più
vana impresa inabissava i popoli innocenti in più crudeli ruine!
NOTA FINALE SUI DIALETTI
Un toscano non intenderà a udire un Napolitano, né questi un Genovese, ne questi un Calabro, né questi un Lombardo, ne questi un Siculo, né questi un Veneziano.
Ciò perché nella formazione de‘ dialetti e nella fusione del romanesco col germanico linguaggio, ciascun popolo serbò le native forme di pronunzia e di vocaboli.
Senza l’ingegno di Dante che unì le sparse membra del favellare nazionale, forse non avremmo uma lingua scritta universale in Italia.