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Discussione: Una domanda...

  1. #21
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    Citazione Originariamente Scritto da codino Visualizza Messaggio
    ma secondo voi, cristianamente, nella vita bisogna ricercare la felicità o la sofferenza?
    La domanda potrebbe sembrare banale, ma non lo è, visto che tanti santi e Cristo stesso nella vita non solo hanno sofferto, ma hanno anche ricercato la sofferenza, pregando Dio non solo di dar loro la forza di sopportarla, ma di dare loro sempre più sofferenze...
    E sta anche scritto che la via per il Cielo è piena di tribolazioni...

    Quanto a me è una domanda che mi sono sempre posto...

    allora? voi che ne dite?
    Per capirlo bisogna capire il rapporto tra il cristianesimo e il dolore, e a sua volta come qsto rapporto diverga da quello della cultura greca.
    Hai presente come muoiono Socrate e Gesù? il primo sereno, tant'è che ordina a Fedone di sacrificare un gallo ad Esculapio (per ringraziarlo, l'anima si libera dalla prigione del corpo, un tema già presente in Pitagora e Platone): qsto perchè i Greci la morte l'han preso sul serio vincolandola alla giustizia della natura, al rapporto organico tra uomo e natura (intesa come orizzonte ultimo e inoltrepassabile), lo stesso Anassimandro dice che ..secondo l'ordine del tempo e secondo necessità le cose pagan l'un all'altra le pene e l'espiazione dell'ingiustizia.., godiamo cioè del privilegio di esistere a discapito di qualsiasi potenziale altro esistente, la morte rende giustizia a tale privilegio.
    Per i Greci la sofferenza è una condizione inalienabile della vita, la sorte è sempre ambivalente e mai a nessuno raggiungerà nè eudaimonìa tantomeno makarìa, perchè segnati da una tùkh non codificabile e ambigua e da una moira avversa.
    Per i Greci cioè il dolore è ineliminabile, va retto senza lamentarsi, il cristianesimo al contrario è superato nella vita eterna (non in vista della vita eterna! c'è una bella differenza), per i Greci il dolore nn ha un "perchè" al di làdella constatazione della precarietà dell'esistenza, per i cristiani è causato dal peccato originale che comporta sofferenza e il lavoro nel sacrificio: la colpa nn toglie all'uomo la natura ma rende il suo dominio laborioso e faticoso.
    Allora il dolore causato assume un senso, l'espiazione della colpa passa attraverso la condizione che Dio ci ha destinato e dunque attraverso il dolore - nn a caso la fede autentica è tribolazione, sofferenza, drammaticità, paradosso e dubbio, non stabilità.
    La vicenda della morte di Gesù d'altra parte è l'apoteosi della sofferenza, è ostentazione del dolore, la sofferenza nn solo è vissuta ma è voluta, si vuole la sofferenza per espiare la colpa e guadagnare la vita eterna

  2. #22
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    Citazione Originariamente Scritto da Ginny Visualizza Messaggio
    Se ti accorgi che digiunando non riesci a pensare ad altro che hai fame, forse vuol dire che per quel tipo di penitenza non sei pronto ed è meglio lasciar perdere. Ma questo nessuno può saperlo a parte te.
    Tutti dovrebbero digiunare e pregare quantomeno nei momenti comandati, lo dice la Chiesa non io. Perchè la Chiesa dice così? Si vede che il beneficio è universale ed oggettivo e non legato al singolo individuo. Cioè un binimo siamo chiamati a farlo tutti.
    UT UNUM SINT!

  3. #23
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    Citazione Originariamente Scritto da Πλάτων Visualizza Messaggio
    Per capirlo bisogna capire il rapporto tra il cristianesimo e il dolore, e a sua volta come qsto rapporto diverga da quello della cultura greca.
    Hai presente come muoiono Socrate e Gesù? il primo sereno, tant'è che ordina a Fedone di sacrificare un gallo ad Esculapio (per ringraziarlo, l'anima si libera dalla prigione del corpo, un tema già presente in Pitagora e Platone): qsto perchè i Greci la morte l'han preso sul serio vincolandola alla giustizia della natura, al rapporto organico tra uomo e natura (intesa come orizzonte ultimo e inoltrepassabile), lo stesso Anassimandro dice che ..secondo l'ordine del tempo e secondo necessità le cose pagan l'un all'altra le pene e l'espiazione dell'ingiustizia.., godiamo cioè del privilegio di esistere a discapito di qualsiasi potenziale altro esistente, la morte rende giustizia a tale privilegio.
    Per i Greci la sofferenza è una condizione inalienabile della vita, la sorte è sempre ambivalente e mai a nessuno raggiungerà nè eudaimonìa tantomeno makarìa, perchè segnati da una tùkh non codificabile e ambigua e da una moira avversa.
    Per i Greci cioè il dolore è ineliminabile, va retto senza lamentarsi, il cristianesimo al contrario è superato nella vita eterna (non in vista della vita eterna! c'è una bella differenza), per i Greci il dolore nn ha un "perchè" al di làdella constatazione della precarietà dell'esistenza, per i cristiani è causato dal peccato originale che comporta sofferenza e il lavoro nel sacrificio: la colpa nn toglie all'uomo la natura ma rende il suo dominio laborioso e faticoso.
    Allora il dolore causato assume un senso, l'espiazione della colpa passa attraverso la condizione che Dio ci ha destinato e dunque attraverso il dolore - nn a caso la fede autentica è tribolazione, sofferenza, drammaticità, paradosso e dubbio, non stabilità.
    La vicenda della morte di Gesù d'altra parte è l'apoteosi della sofferenza, è ostentazione del dolore, la sofferenza nn solo è vissuta ma è voluta, si vuole la sofferenza per espiare la colpa e guadagnare la vita eterna

    La sapienza dei Greci sapeva cogliere la tragicità della vita. Eraclito l’oscuro, qualche secolo prima di Cristo, scriveva (Frammento 8 nella versione di G. Colli):
    <<Dell’arco, invero, il nome è vita, ma l’opera è morte>>
    Assolutamente incomprensibile; eppure in esso v’è tanta saggezza e racconta con quale sagacia la sapienza antica intuisse e percepisse la crudeltà della vita. Arco e vita in greco antico avevano il medesimo suono,sono termini omofonici. L’arco è l’attributo principale del dio Apollo. Il frammento ci dice che la Vita è violenza, e il risultato di questa violenza è l’annientamento, il disfacimento, la Morte. Ci racconta anche che la violenza della vita scaturisce dall’azione di scoccare la freccia da parte del dio Apollo. La violenza della vita che genera la morte è dunque determinazione della divinità.

    La vita e la morte sono consanguinee, collaterali, si compenetrano vicendevolmente. Per perpetuare se stessa, la vita ha necessità di generare la morte, la quale a sua volta è fattrice di vita. Il mezzo attraverso il quale entrambe si nutrono a vicenda è appunto la violenza, che è innocente fintanto che non interseca l’esistenza dell’uomo, fatalmente (da Fato) colpevole allorquando s’insinua nella vita degli uomini. Nell’Iliade, Agamennone per giustificare davanti ad Achille il sopruso perpetrato a suo danno d’avergli sottratto Briseide, l’amata preda di guerra, attribuisce la colpa alla divinità che gli ottuse la mente… l’uomo non ha colpa alcuna: Agamennone non fu cagione diretta dell’ira di Achille.
    Eraclito, frammento [53 Diels-Kranz ]
    <<Pólemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi.>>
    Polemos, è dunque Padre e re. Da questa percezione nasce la visione tragica della vita, la dialettica inesausta che si quieta nella morte.
    La vita non è stasi, non è quiete, la Natura smentisce quest’insipida visione. Ove rilevi lo splendore della natura, puoi cogliere anche il germe della dissoluzione, è come se nel medesimo istante in cui percepisci la meraviglia della Creazione, la dissoluzione, il disfacimento, la putredine bussino alla porta della coscienza per irrompere e scompaginare il tenue acquerello che ti sei creato. Quando un occhio coglie la meraviglia e la bellezza della vita, l’altro indugia sull’orrore e lo sfacelo della morte incipiente. Anche un semplice fiore al culmine dell’infiorescenza suggerisce che in quella meraviglia è instillata la morte. La vita di ciascuno di noi dovrebbe avvertire in ordine all’incontestabile fatto che vivere è approssimarsi alla morte, tanto da far dire a qualcuno che vivere è rotolare fra le braccia della morte. Allora l’esistenza è disputa, dissidio, dia-logo, Polemos.
    La morte non è più un accadere ineluttabile, ma è un’entità ontologica che s’intreccia alla vita, che con essa procede e da essa è evocata.
    In tutto ciò s’insinua, come un mefitico ansito consolatorio, la giustificazione del dolore, o meglio la giustificazione nel dolore offerto a Dio. In questa teologia disumana (in quanto contraria alla naturale propensione dell’uomo) del cristianesimo, si vuol rilevare ed enucleare il senso del patire e del soffrire, anche in vece dell’innocenza offesa e violata. Credo, però, che non vi sia un senso nel soffrire innocente, perlomeno un significato che l’uomo possa cogliere per giustificare il pianto di chi soffre. E se questo senso o significato dovesse riposare fra le braccia del Creatore, poco varrebbe intuirlo, non servirebbe a lenire il dolore che affligge e attanaglia il mondo. ‘Il progetto di Dio’ – che guarda caso è anche il titolo di una profonda riflessione di Papa Giovanni Paolo II° - è un mistero, ma questo mistero implica anche l’esistenza del male e del dolore. Sentire i morsi del serpente che insidia il calcagno dell’umanità rende la terra arida, desertificata, inospitale, e se il disegno superiore ha previsto il soffrire affinché attraverso il patire sia impartito alla creatura un insegnamento pedagogico finalizzato alla sua crescita, vedo nell’opera di Dio un’insanabile aberrazione. Il dolore non sempre è pedagogico, e quando lo è assolve il ruolo - mistificando e falsando il sentimento - di attenuare nel singolo, in colui che ne entra in contatto, quel senso di angoscia profonda che ci travolge ogni qualvolta si è investiti dal Male. Soprattutto la gratuità del dolore non è per niente pedagogica, ma, almeno in Giobbe, è un mistero cui piegarsi; nel Dostoevskij dei Karamazov, parte del disegno divino che, giacché prevede ed implica l’esistenza del male gratuito, è da rifiutare; nell’Idiota, invece, è beota rassegnazione; nella Grecia classica destino inalienabile cui si deve piegare anche la divinità. La visione tragica dell’esistenza, intesa come tensione esistenziale fra morte e vita, fra bene e male, ben presente nella Grecia classica, è istanza dell’esistenza stessa. Il Polemos greco non è il piegarsi all’invereconda protervia del male, ma presuppone una tensione costante, inestinguibile, irredimibile che neppure la croce ha potuto abolire dalla terra, che rinvia la sua sconfitta ad un oltre escatologico, associando a questa promessa la speranza che ‘così sia’; quanto, in definitiva, alimenta la fede dei cristiani. Resta solo da scegliere la via: credere o meno a questa promessa, nutrire una speranza ed una fede che <<è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.>> (Paolo di Tarso, Epistola agli Ebrei 11-1… anche se la lettera parrebbe non sia proprio di Paolo, ma fa pur sempre parte dei suoi insegnamenti.). E’ vero! Neppure la fede è quiete, è anch’essa dia-logos, confronto anche serrato, tensione irredimibile che si dipana fra due antipodi, quello della caduta e della ricusazione ‘apostatatica’, e quello della riconferma, anche ipostatica. Sebbene sia dia-logos, rappresenta però lo sporgersi fideistico dell’uomo oltre il baratro del contingente, perché nutre ed è nutrita dalla speranza di un oltre escatologico. La fede, pur nel dissidio intimo implicato proprio dall’animo umano, oltrepassando il contingente, affaccia l’uomo in un orizzonte ricco di senso. Quello stesso senso che in una visione atea, ed anche agnostica, si traduce in non-sense. Poi chi veramente avrà ragione, non è dato saperlo, ma quando ci si percepisce intimamente menzogneri, forse è più eroico evitare di buttarsi anima e corpo in una fede non realmente sentita.

  4. #24
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    Citazione Originariamente Scritto da codino Visualizza Messaggio
    ma secondo voi, cristianamente, nella vita bisogna ricercare la felicità o la sofferenza?
    La domanda potrebbe sembrare banale, ma non lo è, visto che tanti santi e Cristo stesso nella vita non solo hanno sofferto, ma hanno anche ricercato la sofferenza, pregando Dio non solo di dar loro la forza di sopportarla, ma di dare loro sempre più sofferenze...
    E sta anche scritto che la via per il Cielo è piena di tribolazioni...

    Quanto a me è una domanda che mi sono sempre posto...

    allora? voi che ne dite?
    Beh, alla luce di questi passi, credo proprio la prima...

    E avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Mt 26, 39 cfr. Mc 16, 36 e Lc 22, 42

    e anche:

    "Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla" Gc 1, 25

    ma anche nell'AT:

    "Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui" Eccl. 8, 12

    "Perciò approvo l'allegria, perché l'uomo non ha altra felicità, sotto il sole, che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole" Eccl. 8, 15

    e:

    "Ricordati di noi, Signore, per amore del tuo popolo,
    visitaci con la tua salvezza,
    perché vediamo la felicità dei tuoi eletti,
    godiamo della gioia del tuo popolo,
    ci gloriamo con la tua eredità" Sl 105 (106), 4-5

  5. #25
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    Citazione Originariamente Scritto da catholikos Visualizza Messaggio
    Tutti dovrebbero digiunare e pregare quantomeno nei momenti comandati, lo dice la Chiesa non io. Perchè la Chiesa dice così? Si vede che il beneficio è universale ed oggettivo e non legato al singolo individuo. Cioè un binimo siamo chiamati a farlo tutti.
    Sì, però con criterio. Il criterio è quello esposto da Ginny, ed è anche, credo, che le pratiche ascetiche servono a farci essere meno attaccati alle cose terrene e più attenti a quelle celesti; insomma, più rivolti ai moti dell'anima che a quelli del corpo. Quest'ultimo ci è comunque dato da Dio, quindi, più che "mortificato" o addirittura leso (v. flagelli, cilici e altre amenità), va "controllato".

  6. #26
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    Per Voy_Ager: d'altra parte il mondo classico aveva una concezione ciclica dell'esistenza, e se ogni azione umana e divina era iscritta nel kiklos armonicamente era impensabile esercitare un dominio sulla natura - la debolezza d tekne rispetto ad ananke è una costante della cultura ellenica.
    Ebraismo e cristianesimo invece hanno una concezione lineare del tempo, e se nell'ebraismo l'inconsistenza e insensatezza della vita terrena ancora permane nel cristianesimo il senso è esplicitamente escatologico, diretto ad un eschaton, un telos supremo a cui si deve giungere - e d'altra parte il senso delle rivoluzioni politiche, economiche, industriali e sociali dei secoli scorsi si inseriscono perfettamente in qsta prospettiva, rispecchiando nient'altro che la versione secolarizzata della redenzione religiosa intesa qsta volta cm raggiungimento di una società perfetta, del benessere collettivo, dell'uguaglianza sociale..
    Ma il nodo fondamentale è che nella cultura ebraico-cristiana la natura nn è l'orizzonte ultimo, ma un prodotto della volontà di Dio a disposizione del dominio dell'uomo - e lo dice esplicitamente Dio a Mosè sul Sinai, e qsta disponibilità della natura al dominio umano si legittima maggiormente rafforzandosi concettualmente nel cristianesimo dove la natura di Dio e quella dell'uomo tendono ad assimilarsi

  7. #27
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    Citazione Originariamente Scritto da Nazzareno Visualizza Messaggio
    Sì, però con criterio. Il criterio è quello esposto da Ginny, ed è anche, credo, che le pratiche ascetiche servono a farci essere meno attaccati alle cose terrene e più attenti a quelle celesti; insomma, più rivolti ai moti dell'anima che a quelli del corpo. Quest'ultimo ci è comunque dato da Dio, quindi, più che "mortificato" o addirittura leso (v. flagelli, cilici e altre amenità), va "controllato".
    i cilici non ledono il corpo andiamo... se una cosa è lesiva del corpo è insana. Per il resto quoto a patto di non rendere TUTTO facoltativo. Certo non siamo tutti dei S.Francesco ma ad un minimo siamo chiamati. Almeno all'astinenza ed alla preghiera i venerdì ed al digiuno ed astinenza il mercoledì delle ceneri ed il venerdì santo ed ogni venerdì di Quaresima...
    una volta la regola era molto più dura e solo grazie a particolari dispense oggi è molto ammorbidita nella Chiesa Latina. Se relativizziamo quel minimo che ci viene chiesto per il nostro bene allora...
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  8. #28
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    Citazione Originariamente Scritto da catholikos Visualizza Messaggio
    i cilici non ledono il corpo andiamo... se una cosa è lesiva del corpo è insana. Per il resto quoto a patto di non rendere TUTTO facoltativo. Certo non siamo tutti dei S.Francesco ma ad un minimo siamo chiamati. Almeno all'astinenza ed alla preghiera i venerdì ed al digiuno ed astinenza il mercoledì delle ceneri ed il venerdì santo ed ogni venerdì di Quaresima...
    una volta la regola era molto più dura e solo grazie a particolari dispense oggi è molto ammorbidita nella Chiesa Latina. Se relativizziamo quel minimo che ci viene chiesto per il nostro bene allora...
    Mi sa che non ci siamo capiti...
    Procurarsi gratuitamente del dolore mi pare cosa non sana, né fisicamente ne spiritualmente. Dio non è mica assetato del nostro sangue!
    Le pratiche ascetiche (che Gesù praticò e raccomandò) non servono ad infliggersi dolore (cosa inutile) ma a rimettere i giusti equilibri tra le esigenze del corpo e quelle dell'anima. Si spiega così, per esempio, la necessità del digiuno.
    E comunque io non ho parlato di "facoltatività", ma di usare la testa, che è un po' diverso. Anzi, credo che un po' più di chiarezza e rigore nelle norme sul digiuno non guasterebbe affatto (come accade presso gli Ortodossi).

  9. #29
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    Citazione Originariamente Scritto da catholikos Visualizza Messaggio
    i cilici non ledono il corpo andiamo... se una cosa è lesiva del corpo è insana. Per il resto quoto a patto di non rendere TUTTO facoltativo. Certo non siamo tutti dei S.Francesco ma ad un minimo siamo chiamati. Almeno all'astinenza ed alla preghiera i venerdì ed al digiuno ed astinenza il mercoledì delle ceneri ed il venerdì santo ed ogni venerdì di Quaresima...
    una volta la regola era molto più dura e solo grazie a particolari dispense oggi è molto ammorbidita nella Chiesa Latina. Se relativizziamo quel minimo che ci viene chiesto per il nostro bene allora...
    Perchè ciò che ti vien chiesto per esser redento è forse il digiuno e l'astinenza? Delle volte mi chiedo se i cristiani si ricordino il motivo per cui Gesù è morto in croce o si soffermino piuttosto eccessivamente sui particolari: i misteri della fede sono misteri perchè legati ad un Evento, un accadimento storico che è (dovrebbe essere) l'espressione più alta dell'indebolimento delle pretese metafisiche e fondazionalistiche; finchè si continuerà a trattare la storia della kenosis divina come una verità di ragione (tanto che ci si guarda bene dall'ammettere le donne al sacerdozio perchè gli apostoli eran uomini, tanto per fare un esempio) invece di capire che l'organizzazione sociale e le peculiarità culturali di quel periodo sono STORICHE, nn verità immutabili, allora di passi avanti non se ne faranno mai.
    Relativizzare? ma cos'ha qsto termine che ti infiamma così tanto? se relativizzare significa affermare che certe pretese, riti, usanze altro non sono che prassi storica o se significa riconoscere la pari dignità delle altrui culture allora benedictus sit

  10. #30
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    Mi sorge un invito...
    Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio.
    Mt 9, 13

 

 
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