SFIDA GLOBALE AL MEDIOEVO ITALIA

L'Espresso - 10 ottobre 2008


Colloquio con Emma Bonino di Gigi Riva


Smentiremo i profeti della paura... L’iniezione di ottimismo sta nella coda del libro “Centomila punture di spillo” di Carlo De Benedetti, editore del gruppo Espresso, e Federico Rampini, giornalista di "Repubblica", con Francesco Daveri, docente di Economia (Mondadori, 318 pagine, 17 euro, in vendita dal 14 ottobre). L’intenzione di vedere uno spiraglio di luce all’orizzonte è dichiarata fin dal sottotitolo, “Come l’Italia può tornare a correre”. In mezzo, tra copertina e ultima pagina, un’analisi spietata dei pesi che zavorrano la nostra economia. Scuole non all’altezza, mancati investimenti in ricerca, inefficienza del sistema bancario, mancanza di una «missione condivisa» nel mercato globale, il vizio di far pagare sempre Pantalone come la vicenda Alitalia insegna. Eppure gli autori trovano buoni motivi per «credere negli italiani». Ce ne sono diversi, come recita un capitolo, «(quasi) senza paura» che non hanno vissuto la globalizzazione come minaccia e sono andati nel mare aperto della competizione puntando sulla tecnologia e l’eccellenza. Sono l’esempio da imitare. Ce la fecero i nostri genitori e i nostri nonni con un Paese uscito stremato e umiliato dalla guerra. Dunque, è la conclusione, «i loro valori non sono scomparsi: li abbiamo dentro di noi». Perché, ed è un rimando all’homo faber, «la storia non è una prigione, tocca a noi scrivere la nostra».
Emma Bonino, 60 anni, già Commissario europeo, e con Prodi ministro del Commercio internazionale e per le Politiche europee, nel suo ufficio di vicepresidente del Senato, tiene le bozze di “Centomila punture di spillo” in cima a una pila di libri. I precedenti di Rampini, l’ultimo di Fareed Zakaria. L’ha già letto: «Lo tengo lì perché mi sembra il compendio interessante di tutta la produzione di Rampini più le idee dell’economista Tito Boeri, peraltro citato». Trova che sia, dal punto di vista ideologico, «l’anti-Tremonti de “La paura e la speranza”, e lo trovo a me più affine, lo condivido, salvo magari qualche dettaglio».
Emma Bonino, condivide l’ottimismo finale? Ce la faremo a vincere la sfida globale?
«Non è automatico. Vedo chiari sia gli asset che abbiamo sia i vincoli. E, citando Jean Monnet aggiungo: non sono né ottimista né pessimista, sono semplicemente determinata. Determinata a far valere gli asset. È vero che noi italiani siamo capaci di grandi colpi di reni quando siamo sull'orlo del baratro ma, ripeto, non è automatico. E quello che la politica deciderà o meno non è irrilevante perché ce la possiamo fare solo se non ci rinchiudiamo su noi stessi, nei localismi o padanie varie».
Alla politica arriveremo. Intanto vediamo i nostri asset.
«In generale siamo meglio accettati nel mondo perché non ci portiamo dietro la grandeur francese o l’imperialismo americano, giusti o sbagliati che siano questi miti. Secondo, lo stereotipo per cui in Italia c’è il bello, l’arte, la cultura e il buon vivere è vero, ed è essenziale preservarlo. Terzo, i cinesi e gli indiani sono affascinati dai nostri distretti, da come siamo riusciti a portare il lavoro dove c’è la gente e non viceversa come fanno loro. E poi c'è una cosa che i libro non sottolinea e mi spiace».
Quale?
«Armani o la Ferrari fanno più notizia. Ma ciò che esportiamo di più sono i macchinari per la lavorazione di cuoio, legno, ferro perché abbiamo sviluppato in materia una tecnologia d'eccellenza e rispettosa dell’ambiente. La mostra di più grande successo organizzata in questi anni è stata quella virtuale sui Codici leonardeschi proiettati su schermi ad alta definizione. In Qatar erano davvero impressionati. I macchinari di oggi discendono da un’inventiva e da un design antichi. Detto questo saranno decisive le scelte che dovremo fare come Italia, o meglio, come Europa».
E siamo alla politica. Tremonti reclama più Stato nell'economia. De Benedetti-Rampini non sono d'accordo. Ce n’è bisogno di Stato secondo lei?
«Dipende dalla politica fare scuole di formazione per attrarre studenti non italiani, mentre sugli stranieri vedo la caccia alle streghe. Dipende dalla politica sostenere il commercio con l’estero perché le nostre piccole imprese possono forse conquistare Timisoara o la Serbia, ma non ce la fanno, da sole, in Cina o India. Le missioni che facemmo con Prodi e D'Alema in Cina, India, tutto il Mediterraneo, il Sudafrica sono servite - non a caso le fanno tutti gli altri - e sono il segno di un Paese dinamico».
La globalizzazione ha del resto prodotto anche la pesante crisi finanziaria e un paragrafo del libro ha per titolo "Il tradimento delle élite".
«E pensare che c'era chi predicava che il pericolo venisse da Oriente, invece lo Tsunami finanziario ci è venuto addosso dal cuore dell'Occidente. Per fortuna molti nostri imprenditori si sono internazionalizzati sui grandi mercati asiatici, per il momento ancora intatti. Il mercato è una cosa seria e se per cupidigia o disattenzione uno lo viola quello si ribella. Ma non è un problema del mercato perché si chiama truffa quella che facevano i manager che hanno venduto subprime intossicati. La politica deve stabilire le regole e sanzioni, e poi vigilare; gli imprenditori competano e vinca il migliore».
Ma c'è la possibilità di un ritorno allo Stato?
«Corriamo questo rischio. C’è un capitolo nel libro, dal titolo “la breve storia di Pantalone”, in cui si ripercorrono gli interventi pubblici. De Benedetti conosce bene di che si tratta visto che ne ha approfittato anche lui ai tempi dell’Olivetti. Speriamo non torni l’epoca di Pantalone. Anche perché nel frattempo il mondo è cambiato. Ci sono 4-5 grandi attori che si sono svegliati: Cina, India, per certi versi la Russia, il Brasile, il Sudafrica. Solo in Cina sono usciti dalla fame 400 milioni di persone, cosa che mi fa felice se penso, da radicale, alle battaglie che facemmo contro lo sterminio per fame».
Gli autori definiscono "legittima" la paura della glibalizzazione. Ma bisogna "difendersi attaccando" per vincere le sfide.
«La globalizzazione infatti non va vissuta come paura, ma come necessità di ripensare il mondo, come sfida. La democrazia non ha risposte per tutto ma ha in sé i meccanismi per correggersi. È il motivo per cui continuo a ritenerlo il sistema più adeguato allo sviluppo umano. E, comunque, la globalizazione non si può fermare. Uno può essere contro, ma è come essere contro la scoperta dell’America...».
C’è chi sostiene che una sorta di globalizzazione vnene fermata con la Prima guerra mondiale...
«Ma non si può invocare quel tipo di rimedio. Non si poteva impedire l’ingresso della Cina nel Wto, per dirne una. Quello che è mancato è la governance. Non la può fare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che è un residuato del mondo emerso dalla Seconda guerra mondiale, come hanno ragione gli autori del libro nel sostenere che il Fondo monetario internazionale si è svuotato di significato».
Comunque ci vorrà un organismo sovrannazionale che faccia da governance.
«Questo è chiaro dappertutto, in Italia non tanto. Quando è uscito il suo ultimo libro, a Tremonti ho detto che se dovessi sintetizzare le sue idee le racchiuderei nella formula “Dio, Patria e Famiglia”. Lui l’ha poi usata e rivendico il copyright. Io sto sull’altra sponda. Ripeto: non è nel localismo la soluzione o nel nazionalismo, che da noi ha solo portato a disastri. Per via della dimensione dei nostri concorrenti ci vuole l’Europa politica che oggi non c’è: non un'Europa delle patrie ma una vera Patria europea. Hai voglia a fare vertici a quattro a Parigi se poi ognuno se ne torna a casa a fare quello che vuole...».
“Centomila punture di spillo”, quelle da praticare sul corpo dell’Italia per farla reagire, va nella sua stessa direzione.
«Sì e in questo senso è utile. Aggiungerei solo la preoccupazione che ho su un altro lato: la protezione delle popolazioni, dal Darfur all’Afghanistan. Che contributo possiamo dare noi Europa e, insisto, Europa? Molto maggiore se fossimo uniti!"
L’Europa, secondo lei, non affronta nel modo dovuto la crisi globale. Nel libro si fa però l’esempio della Germania che, pur da sola, va a gonfie vele.
«Va benissimo per l’export. Ma in quello ci difendiamo bene anche noi. Abbiamo solo avuto il torto di impiegare troppo tempo nel mettere a fuoco Cina, India, e qualche altra economia emergente o già emersa. Ma per fortuna i nostri imprenditori, se la domanda interna è ferma, sanno dove andare, come fare. Il tessile lo dimostra. E le scarpe erano date per perse e ora si parla di fare a Milano sfilate per solo scarpe».
Un dinamismo che sconta tuttavia alcune deficienze di sistema. Il libro di De Benedetti-Rampini punta l’indice contro la scuola.
«È logico, da lì passa il futuro. Però non sprecherei la parola "riforma" perché si torna al grembiulino o al voto in condotta, misure sulle quali sono peraltro d'accordo. La scuola è l’esatta fotografia dell’Italia dove la meritocrazia non esiste se non nei convegni della domenica. I manager delle Asl li deve nominare la politica? Malissimo, ma almeno mettessero quelli bravi. Da noi il merito, lo sforzo individuale, non è mai premiato».
Un’opportunità, ci dicono gli autori, è di guardare alla sponda sud del Mediterraneo come la nostra Cina possibile.
«Basta aprire la carta geografica per capirlo. Ma temo che stiamo perdendo la sfida. Istanbul raddoppia il porto, Alessandria e il Pireo pure. E noi stiamo fermi perché non riusciamo ad attrarre investimenti. Si dice per via delle tasse o perché mancano incentivi fiscali. Non è vero niente. Ho chiesto a investitori cinesi o del Golfo: perché fate le vacanze da noi e poi per gli affari andate a Londra? Mi hanno sempre risposto: perché da voi non c’è certezza delle regole e una miriade d'interlocutori. Basta uno sperduto Tar a bloccare un investimento. E poi, al Sud, c’è la criminalità organizzata. Su Alitalia, la Qatar Airways era interessata purché risolvessimo i problemi coi sindacati. Il mondo non è "cinico e baro", non ci vuole male, anzi, il contrario. Se non vengono è per tutti questi motivi».
Il turismo potrebbe essere un volano.
«Non è stato saggio attribuirne la competenza esclusiva alle Regioni. E ancora: un conto è stare in un network internazionale per promuovere il Paese, un altro è avere una compagnia di bandiera che privilegia l’asse Milano-Roma-Milano».
Si dice declino. Ma le autostrade nel weekend sono una coda unica di gente che se la spassa.
«E' vero. Comunque stiamo meglio di prima. Se mi volto indietro non vedo un’età dell’oro di cui essere nostalgici. Ma probabilmente ci aspettavamo di progredire ancora e più rapidamente, mentre adesso andiamo lenti e la migliore qualità della vita non riguarda tutti».

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