Parto dal presupposto che qualsiasi scelta debba avere una sua motivazione, nulla è per caso, soprattutto quando si tratta di argomenti tanto delicati quali sono quelli trattati in questa discussione. Diversamente, a giustificazione di certi accorgimenti, mi rimarrebbe solo il vezzo estetico fine a se stesso, ma l’intervento che dà avvio al thread è lì proprio per smentire questa eventuale insinuazione.
Partendo da questo presupposto, non posso che rilevare una precisa volontà – forse esigenza – di edificare (in senso lato) un argine che, in quanto tale e proprio perché tale è, preservi un locus, che nel caso in esame non è solo topologico, da una presunta violazione, o quantomeno stimata e paventata come tale. L’evidenza di questa ‘precisa volontà’ (forse esigenza) ci rinvia alla necessità d’individuare quali siano i termini opposti della relazione instauratasi a seguito dell’edificazione dell’argine in parola (che argine o barriera in effetti non è, poiché assolve alla duplice funzione di preservare e coniugare, per un verso è, infatti, occlusiva, per l’altro funge da trait d’union, rapportandosi, nell’un caso o nell’altro, a due diverse dimensioni umane).
L’intero articolo da te inserito tende ad evidenziare che uno dei termini opposti della relazione è senza dubbio il Sancta Sanctorum, e la ‘diaframmatura’ visivo/uditiva ne preserva l’integrità sacra, opponendosi alla sua violazione. Nella paventata violazione è rinvenibile l’altro termine della relazione, ovverosia, la domanda che spontaneamente s’impone dovrebbe condurci ad individuare – quanto saggiamente non so – il ‘pericolo’ incombente dal quale garantire il Sacrum. Violazione da parte di chi o da che cosa? Presi per mano da questo interrogare, e nella nostra indagine aiutati non poco dall’articolista che ci avverte “Ora, mentre nei Riti orientali, ove storicamente vige una cultura in cui prevale l’Imago, il diaframma sacro si è sviluppato anzitutto a livello di senso visivo, nei Riti latini, più sensibili al Verbo, ha prevalso una diaframmatura liturgica di tipo uditivo-sonoro.”, giungiamo senza troppe esitazioni a enucleare le caratteristiche precipue di questa ‘diaframmatura’. Veli e balaustra che si oppongono al tatto ma, considerata la modalità in cui si compie il rito liturgico e la particolare conformazione architettonica del luogo che lo ospita, si oppongono soprattutto alla vista, allo sguardo; lingua latina pronunciata sommessamente (quasi un impercettibile bisbiglio), che si antepone all’udito. L’altra naturale domanda che consegue a questa scoperta è il perché anteporre una siffatta barriera alla vista e all’udito (cioè, evidentemente, a sensi pratici, fisici). Finora la nostra esplorazione ci ha condotto a fare i conti con dati abbastanza evidenti: esiste una barriera; questa ha particolari caratteristiche; le particolari caratteristiche ci rinviano senza fallo ai sensi pratici. Ma i dati ‘oggettivi’, quelli evidenti, in pratica terminano qui, non mi pare ce ne siano disponibili molti altri. Per proseguire l’investigazione dobbiamo far ricorso ad altre facoltà umane, che se da un lato aiutano, dall’altro dischiudono la porta all’errore di valutazione e giudizio. Non possiamo che ricorrere all’ermeneutica, ovvero all’interpretazione. Nel domandarci il perché del fatto, abbiamo necessità di noi stessi, della nostra vacillante cultura e dell’ancor più instabile intuizione. Io ho proposto una chiave di lettura che riterrei sufficientemente coerente… ma, ovviamente, lascio del tutto spalancata la porta alla possibilità d’aver intuito male… non senza una punta di malizia, affermo che a parer mio il simbolismo che si vuole cogliere nella liturgia sia solo res cogitans, ovvero adattamento a posteriori del pensiero ai superni misteri; sono infatti convinto che si tratti, ancora una volta, di un ottativo… come dire: “Vorrei che così fosse”. Capisco comunque che tutto ciò attenga alla fede piuttosto che alle capacità d’analisi di ciascuno di noi.