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  1. #11
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    Citazione Originariamente Scritto da catholikos Visualizza Messaggio
    non capisco una cosa soltanto, perchè credi la liturgia non parli ai sensi fisici? In realtà usa simboli veicolati anche e proprio da tali sensi. Siano essi visivo (liturgia orientale) o uditivo (liturgia latina). Si faceva proprio l'esempio del simbolo iconostasi/balaustra e del significato veicolato sull'importanza del Sacrum e la restituzione del Tremendum e si citavano proprio i "sensi fisici".

    Parto dal presupposto che qualsiasi scelta debba avere una sua motivazione, nulla è per caso, soprattutto quando si tratta di argomenti tanto delicati quali sono quelli trattati in questa discussione. Diversamente, a giustificazione di certi accorgimenti, mi rimarrebbe solo il vezzo estetico fine a se stesso, ma l’intervento che dà avvio al thread è lì proprio per smentire questa eventuale insinuazione.
    Partendo da questo presupposto, non posso che rilevare una precisa volontà – forse esigenza – di edificare (in senso lato) un argine che, in quanto tale e proprio perché tale è, preservi un locus, che nel caso in esame non è solo topologico, da una presunta violazione, o quantomeno stimata e paventata come tale. L’evidenza di questa ‘precisa volontà’ (forse esigenza) ci rinvia alla necessità d’individuare quali siano i termini opposti della relazione instauratasi a seguito dell’edificazione dell’argine in parola (che argine o barriera in effetti non è, poiché assolve alla duplice funzione di preservare e coniugare, per un verso è, infatti, occlusiva, per l’altro funge da trait d’union, rapportandosi, nell’un caso o nell’altro, a due diverse dimensioni umane).
    L’intero articolo da te inserito tende ad evidenziare che uno dei termini opposti della relazione è senza dubbio il Sancta Sanctorum, e la ‘diaframmatura’ visivo/uditiva ne preserva l’integrità sacra, opponendosi alla sua violazione. Nella paventata violazione è rinvenibile l’altro termine della relazione, ovverosia, la domanda che spontaneamente s’impone dovrebbe condurci ad individuare – quanto saggiamente non so – il ‘pericolo’ incombente dal quale garantire il Sacrum. Violazione da parte di chi o da che cosa? Presi per mano da questo interrogare, e nella nostra indagine aiutati non poco dall’articolista che ci avverte “Ora, mentre nei Riti orientali, ove storicamente vige una cultura in cui prevale l’Imago, il diaframma sacro si è sviluppato anzitutto a livello di senso visivo, nei Riti latini, più sensibili al Verbo, ha prevalso una diaframmatura liturgica di tipo uditivo-sonoro.”, giungiamo senza troppe esitazioni a enucleare le caratteristiche precipue di questa ‘diaframmatura’. Veli e balaustra che si oppongono al tatto ma, considerata la modalità in cui si compie il rito liturgico e la particolare conformazione architettonica del luogo che lo ospita, si oppongono soprattutto alla vista, allo sguardo; lingua latina pronunciata sommessamente (quasi un impercettibile bisbiglio), che si antepone all’udito. L’altra naturale domanda che consegue a questa scoperta è il perché anteporre una siffatta barriera alla vista e all’udito (cioè, evidentemente, a sensi pratici, fisici). Finora la nostra esplorazione ci ha condotto a fare i conti con dati abbastanza evidenti: esiste una barriera; questa ha particolari caratteristiche; le particolari caratteristiche ci rinviano senza fallo ai sensi pratici. Ma i dati ‘oggettivi’, quelli evidenti, in pratica terminano qui, non mi pare ce ne siano disponibili molti altri. Per proseguire l’investigazione dobbiamo far ricorso ad altre facoltà umane, che se da un lato aiutano, dall’altro dischiudono la porta all’errore di valutazione e giudizio. Non possiamo che ricorrere all’ermeneutica, ovvero all’interpretazione. Nel domandarci il perché del fatto, abbiamo necessità di noi stessi, della nostra vacillante cultura e dell’ancor più instabile intuizione. Io ho proposto una chiave di lettura che riterrei sufficientemente coerente… ma, ovviamente, lascio del tutto spalancata la porta alla possibilità d’aver intuito male… non senza una punta di malizia, affermo che a parer mio il simbolismo che si vuole cogliere nella liturgia sia solo res cogitans, ovvero adattamento a posteriori del pensiero ai superni misteri; sono infatti convinto che si tratti, ancora una volta, di un ottativo… come dire: “Vorrei che così fosse”. Capisco comunque che tutto ciò attenga alla fede piuttosto che alle capacità d’analisi di ciascuno di noi.

  2. #12
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    Citazione Originariamente Scritto da Nazzareno Visualizza Messaggio
    Altre considerazioni interessanti, anche se lunghette, sono in queste altre due pagine:
    http://digilander.libero.it/ortodossia/Iconostasi.htm
    http://digilander.libero.it/ortodoss...nOccidente.htm
    Grazie nazzareno. Solo un appunto. Quelle che nei links chiamano impropriamente "iconostasi", altro non sono che balaustre pre-tridentine, cioè delle impalcature a "cancellata" che non possono paragonarsi alle iconostasi orientali, mai adottate nel rito romano. Esse in primo luogo non portavano icone alla vista dei fedeli ed in secondo luogo non ne precludevano la visuale all'altare.
    Va inoltre precisato che nell'alto medioevo il riuale Romano non era il solo ad essere utilizzato in occidente ed in altre basiliche, come nel Patriarcato di Aquileia e specialmente a Venezia, si usavano dei riti che rimandavano molto di più alla tradizione orientale. Erano una sorta di "ponte". In tali liturgie spesso si usava una "barriera" a metà tra una balaustra pre-tridentina ed una iconostasi. Dico a metà poichè non precludeva la vista del Sacrum ma spesso mostrava una fila di icone ed a volte si impiegava un velo.
    Col concilio di Trento, per motivi appunto apologetici, si volle mettere in risalto il Santissimo Sacrario del Corpus Domini, il cui dogma era stato vilipeso dalla riforma protestante. Questo segno' spesso la fine della "croce di luce" cara fino all'epoca medievale, così come segnò la caduta in disuso dell'orientamento ad Est (ormai ci si orientava direttamente al Tabernacolo, Cristo realmente presente in Corpo, Anima e Divinità). Inoltre per meglio mettere in evidenza l'altare maggiore ed in Tabernacolo (spesso monumentale) posto su di esso, la balaustra "bassa" a guisa di "rinchiera" si impose.

    Questi cambiamenti però non inficiano la differenza, propria della Chiesa da sempre, della concezione e del rapportarsi orientale ed occidentale al Sacrum.
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  3. #13
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    Volendo meglio specificare il perché della chiave interpretativa da me proposta, potrei proseguire affermando – senza eccessive sicurezze – che la preclusione sensitiva ha sempre rappresentato il viatico privilegiato per l’espansione di una capacità tipicamente umana: quella immaginativa. L’immaginazione non è da intendersi in foggia di irrelata creazione onirica, nel corso della quale l’imbizzarrire dell’esuberante puledro ospitato nella nostra mente scorazza a briglie sciolte per le vaporose ed impalpabili plaghe del mondo onirico, senza un auriga che lo guidi. L’immaginazione è ben altra cosa. E’ un atto creativo, ben diverso dalla fantasia, anche se le due facoltà appaiono a prima vista consanguinee. Eleva e glorifica l’intuizione, proponendola come leva e forza inerziale intorno alla quale è edificato il costrutto astratto della mente. Indubbiamente, per far ciò, l’immaginazione non può che relazionarsi con la realtà, sia essa apodittica o dell’esperienza sensoriale, oppure dell’esperienza che non si dispone a favore della percezione immediata dei sensi.
    Per dirla in maniera quasi aforistica, si potrebbe affermare che l’immaginazione è un’attività consapevole, conscia e volontaria. Ove mente e sentimento, emozione e raziocinio operano in simbiosi. Creativa (quando lo è … sempre?) che travalica la realtà (nel senso che sa andare oltre la realtà cogente, lanciando uno sguardo oltre la fatidica siepe di leopardiana memoria) e, in qualche misura, la modifica. E’ figlia della capacità d’astrazione e madre di sublimi opere d’ingegno. Supera il contingente, scavalca gli steccati, sbriciola gli ostacoli, dimezza le distanze, alimenta le speranze, nutre i sogni (in senso lato), interagisce con le emozioni e comprime la nostalgia e le angosce. L’immaginazione è il regno dell’impossibile che, nella visione, diviene possibile e concreto. E’ una chimerica illusione che … paradosso … diviene realistica esperienza. L’immaginazione elabora l’esistente aggiungendo ai frammenti di realtà quote d’impercetto (quel che non è immediatamente percepibile attraverso i sensi), 'fantasticamente' percepito, trasformandolo in un nuovo, vitale e pregnante consistente. E’ il lessico, la semantica, la grammatica dell’anima, ma sa anche ben colloquiare con la ragione, intuitiva soprattutto, che la sottopone a verifica stringente. Apre, infatti, la ragione a nuove improbabili visioni, arricchendole d'ingredienti speciali che donano una nuova e più vitale 'conseguenza'. E’ la leva e il pungolo che sospinge l’uomo oltre la siepe del contingente, aprendo nuovi orizzonti al proprio animo. E’ facoltà tipicamente umana (almeno così si dice), che però sa, almeno in una certa misura, interagire con il pulviscolo di trascendenza che ci attornia, che né i sensi né la ragione sanno puntualmente cogliere. Da essa, l’uomo attinge nuova linfa per perpetuare e alimentare la propria voglia di VIVERE. E’ indistruttibile perché astratta, ma, una volta concepita, diviene realtà immutabile e punto di partenza per nuove e sempre più sublimi proiezioni. L’immaginazione è un paradosso ricolmo di naturale, eloquente 'significatività'.
    Il profondo perora propria questa facoltà, e dei suoi racimoli si nutre, poiché solo l’immaginazione – che converge con l’emotività e il sentimento – sa colloquiare al meglio con l’intimo umano.
    La preclusione sensitiva, l’assenza, fa sì che il meccanismo (termine sicuramente non appropriato) che ne innesca il processo trovi la sua intima forza inerziale. Così come la siepe e il monte del Leopardi, “che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude”, rappresentano il necessario ostacolo perché sia conseguita la visione dell’oltre (che spaura), così, presumo – forse desumo –, la balaustra e la dizione sommessa e flebile, rappresentano la giusta causa causante di una percezione che non coinvolge direttamente i sensi fisici, ma inerisce ad un’altra facoltà tipica dell’uomo (sia essa l’immaginazione oppure la perfetta percezione del sacro).

  4. #14
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    grazie Voy_ager per i corposi ed interessanti contributi alla discussione in particolare mi piacerebbe meditare su quanto da te scritto:

    a preclusione sensitiva, l’assenza, fa sì che il meccanismo (termine sicuramente non appropriato) che ne innesca il processo trovi la sua intima forza inerziale. Così come la siepe e il monte del Leopardi, “che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude”, rappresentano il necessario ostacolo perché sia conseguita la visione dell’oltre (che spaura), così, presumo – forse desumo –, la balaustra e la dizione sommessa e flebile, rappresentano la giusta causa causante di una percezione che non coinvolge direttamente i sensi fisici, ma inerisce ad un’altra facoltà tipica dell’uomo (sia essa l’immaginazione oppure la perfetta percezione del sacro).
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  5. #15
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    Citazione Originariamente Scritto da catholikos Visualizza Messaggio
    grazie Voy_ager per i corposi ed interessanti contributi alla discussione in particolare mi piacerebbe meditare su quanto da te scritto:

    a preclusione sensitiva, l’assenza, fa sì che il meccanismo (termine sicuramente non appropriato) che ne innesca il processo trovi la sua intima forza inerziale. Così come la siepe e il monte del Leopardi, “che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude”, rappresentano il necessario ostacolo perché sia conseguita la visione dell’oltre (che spaura), così, presumo – forse desumo –, la balaustra e la dizione sommessa e flebile, rappresentano la giusta causa causante di una percezione che non coinvolge direttamente i sensi fisici, ma inerisce ad un’altra facoltà tipica dell’uomo (sia essa l’immaginazione oppure la perfetta percezione del sacro).

    L’uomo aborrisce le assenze, il vuoto. Quando lo percepisce, anche fuggevolmente, avverte la naturale esigenza di colmarlo. Poiché è anche un animale con spiccate doti astrattive, supplisce alle assenze, al vuoto, alle mancanze, facendo ricorso, anche in modo inconsapevole, alle sue non del tutto ancora note doti creative. L’indiscutibile soffusa percezione dell’ulteriorità, dell’oltre che travalica il dato sensibile, cioè quel che è posto oltre la datità della cosa in sé, in estrema e non esaustiva sintesi la trascendenza stessa, ha fatto sì che progressivamente si venisse a costituire un corpus filosofico/teologico/spirituale d’immani proporzioni. L’uomo è un inesauribile, inesausto e inappagabile produttore di cultura. L’ostacolo erige il limite che la normale facoltà sensoriale non riesce a superare. Porre un limite significa anche stimolarne il suo oltrepassamento. Le usuali capacità sensoriali o intellettive, da sole, non sempre sono un valido strumento per consentirne il superamento. Ci si deve, evidentemente, rivolgere, ad altre doti, ad altre potenzialità, che in concorso con quelle usuali, possono fornire una qualche accettabile risposta all’esigenza che ha dato avvio al processo speculativo e/o intuitivo. L’immaginazione – bada bene, nel caso in esame, perlomeno in questo caso, ben corroborata nel suo agire dal sentimento e dall’emotività, altrimenti il risultato che si ottiene dall’indagine è una sterile e ghiaccia speculazione razionale, che nulla dice all’animo – supplisce sufficientemente bene alla congenita incapacità speculativa e/o sensoriale. L’immaginazione, anche qualora sia supportata dall’intuizione emotivo/sentimentale, però quasi mai restituisce un dato sicuramente Vero, essendo invece più incline al verosimile, alla verosimiglianza. Il dato dell’immaginaire è sempre e solo verosimile, cioè somigliante al vero. Ti dice nulla l’espressione ‘immagine e somiglianza’? L’uomo è immagine e somiglianza del suo Creatore, simile a Lui, non uguale. Questa espressione biblica è anche la cifra esatta dell’avvenuta antropoformizzazione di Dio, della trascendenza ridotta a creatura (addirittura soperchianti in tal senso gli indizi – o testimonianze - presenti nel Nuovo Testamento: il Dio fattosi uomo); non è certo l’elevazione dell’uomo a semidivinità. Se l’uomo è immagine e similitudine divina, per converso Dio deve essere a sua volta immagine e similitudine dell’uomo. L’uomo si appropria della trascendenza, colma il vuoto o l’assenza che i sensi percepiscono.
    Feuerbach – so bene che è un filosofo non troppo amato da queste parti – scriveva, non senza sensate argomentazioni, che ‘L’uomo ha creato Dio’. L’uomo è il creatore di colui che ha creato. Va rilevato, e ciò è davvero innegabile, che nonostante l’avvenuta appropriazione (mai davvero compiuta e riuscita) della trascendenza da parte dell’uomo culturale, qualcosa sfugge. Il capo del filo non è completamente in mano alla creatura. La trascendenza ancora oggi, nonostante tutti i grandi e ammirevoli sforzi ermeneutici e filosofici, scantona di lato ogni qualvolta si tende a imbrigliarla entro norme ferree, entro filosofie o dogmatiche eccessivamente decisorie. La trascendenza è davvero la coda della cometa: fatta di materiale scivoloso, e sguscia via dalle mani (ratio) di chi tende a serrarlo al loro interno. La trascendenza si presenta come la linea dell’orizzonte, che fa tanti passi indietro quanti tu ne possa compiere per raggiungerla, permanendo sempre alla medesima distanza di quando tu hai compiuto il primo passo per accarezzarne la dorsale.
    Ma siamo fatti così. Sia volontà del caso o di un Dio, io veramente non so… mi limito a constatare.

  6. #16
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    Nel celebre affresco giottesco del Presepe di Greccio, si vede S. Francesco che allestisce la rappresentazione della Natività presso l'Altare di una Chiesa (coperto, secondo l'uso dell'epoca, dal ciborio).
    Da notare, dietro, una iconostasi. In alto sono ben visibili il pulpito e il Crocifisso, quest'ultimo visto ovviamente da dietro e sostenuto da un paletto e da una fune in modo da risultare "proteso" verso i fedeli nella navata.

    Aggiungo una iconostasi latina medievale vista dalla navata (ancora un grazie a Giotto):


    Notare, in alto, il Crocifisso, l'icona della Vergine e quella dell'Arcangelo Michele (leggermente appesi in avanti, grazie ai sostegni che si vedono nell'immagine precedente).

  7. #17
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    grazie nazzareno.

    Vorrei proporre uno scritto del Santo Padre, l'allora Card. Joseph Ratzinger sull'orientamento liturgico:

    2. Nella tradizione, Oriente e immagine della croce, e quindi orientamento cosmico e storico salvifico della devozione, erano amalgamati; nell'immagine della croce era a sua volta espressa secondo un'interpretazione forse dapprima puramente escatologica il memoriale della Passione, la fede nella resurrezione e la speranza della parusia, e quindi tutta la tensione del concetto cristiano del tempo, per cui il tempo degli astri è trasformato nel tempo dell'uomo e nel tempo di Dio, nel tempo che non è Dio, ma che Dio ha per noi. Lo sguardo alla croce compendia in sé, in qualche modo, anche la teologia dell'icona, che è una teologia dell'incarnazione e della trasfigurazione; di fronte all'assenza di immagini dell'Antico Testamento (e dell'Islam) il Nuovo Testamento mette in evidenza la novità nell'immagine di Dio, verificatasi nell'incarnazione del Figlio: Dio va incontro ai nostri sensi. Egli è rappresentabile nell'uomo che è suo Figlio

    3. L'epoca postconciliare ha portato un calo dell'immagine, che si spiega con molte ragioni; non possiamo essere tranquilli. Non si dovrebbe ripristinare come cosa estremamente importante, il significato dell'immagine della croce e rispondere cosi alla costante incisiva di tutta la tradizione della fede?
    Anche nell'attuale orientamento della celebrazione, la croce potrebbe essere collocata sull'altare in tal modo che i sacerdoti e i fedeli la guardino insieme. Nel canone essi non dovrebbero guardarsi, ma guardare insieme lui, il trafitto (Zc 12, 10; Ap 1, 7).

    3. Suscita sempre in me una certa impressione il fatto che i nostri fratelli evangelici, nella trasformazione delle forme medioevali, hanno trovato un ben equilibrato rapporto tra la posizione degli antistiti e della comunità da un lato e la posizione comune in direzione della croce. Fin dai primissimi esordi, essi hanno dato un rilievo molto forte al carattere comunitario del culto e hanno così necessariamente marcato con energia l'ambito delle parti nelle quali antistite e comunità sono rivolti l'uno verso l'altra, mentre in passato, nella liturgia cattolica, esso consisteva soltanto in brevi conversioni per i saluti e per gli inviti a pregare. Ma nell'atto vero e proprio della preghiera ci si rivolge pur lì insieme all'immagine del crocifisso. Ritengo che dovremmo apprendere seriamente da questo. Nella preghiera non è necessario, non è anzi nemmeno conveniente, guardarsi l'uno con l'altro, e tanto meno nel ricevere la comunione. Dipenderà dalle disposizioni locali come si possa soddisfare a questi due punti di vista. Forse l'indicazione data al punto 2. può in molti casi aprire una soluzione pratica. In un uso esagerato e malinteso della "celebrazione rivolta al popolo" si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell'altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull'altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento. Essa è l'iconostasi, che è scoperta, non ostacola l'andare l'uno verso l'altro, ma media e significa pure per tutti l'immagine che concentra e unisce i nostri sguardi. Ardirei addirittura la tesi che la croce sull'altare non è impedimento ma presupposto della celebrazione "versus populum". Diverrebbe così nuovamente ricca di significato la distinzione tra liturgia della parola e canone. Nella prima si tratta dell'annuncio, e pertanto di un indirizzo immediato, nell'altra di un'adorazione comune, nella quale noi tutti stiamo più che mai durante la invocazione "conversi ad Dominum": Rivolgiamoci al Signore; convertiamoci al Signore

    tratto dal libro "La festa della fede". Saggi di teologia liturgica (Jaca Book, Milano, 1984)
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  8. #18
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    Molto bene Catholikos.
    Direi che molti "progressiti" dovrebbero meditare su queste parole del Papa, che tu hai riportato:
    In un uso esagerato e malinteso della "celebrazione rivolta al popolo" si è continuato a rimuovere la croce dal mezzo dell'altare perfino nella basilica di San Pietro a Roma, per non ostacolare la visuale tra il celebrante e il popolo. La croce sull'altare non è però un impedimento alla visuale, ma un punto comune di riferimento.
    E ricordiamo che nella Cappella Sistina, il Santo Padre ha fatto rimuovere lo sciatto tavolino che offuscava l'Altare antico, ed ha ripreso a celebrare su quest'ultimo. Possano le Conferenze episcopali imparare da questo (visto che, duole dirlo, lo scempio di balaustre, iconostasi e altari antichi deriva in massima parte dalle indicazioni CEI, nel caso dell'Italia).
    Ai funerali di Pavarotti, ho notato come nella Cattedrale di Modena l'antica area presbiterale, posta dietro l'iconostasi medievale, sia stata "abbandonata", per spostare le celebrazioni sul solito "altare verso il popolo" posto nella navata, con conseguente perdita degli equilibri architettonici del Tempio.

  9. #19
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    la messa celebrata a Pompei questa domenica dal Papa perevedeva sull'altare i 6 candelabri e la croce al centro.
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  10. #20
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    che bello...spero lo faranno presto anche nelle parrocchie ordinarie.....

 

 
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