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    Predefinito Coma la vogliamo la Scuola?

    Per molti magnifici rettori la riforma del ministro Gelmini è arrivata con la stessa puntualità di un colore a cuori quando al tavolo verde si è rimasti con una sola fiche.
    Proprio quando il castello di carte - bilanci e rendiconti, tenuti insieme con la colla di artifici contabili - stava per crollare, ecco arrivare il magnifico nemico, un ministro antipatico su cui riversare le colpe del «futuro» dissesto economico.
    Ma: perché se la riforma deve ancora entrare in vigore molti atenei hanno ora l’acqua alla gola?
    L’ultimo degli allarmi sulla crisi finanziaria del mondo accademico l’ha lanciato l’anno scorso la commissione tecnica per la Finanza pubblica nel Libro verde della spesa pubblica: si illustrava che nel 2006 19 università (su 66 totali) riversavano oltre il 90% (limite fissato per legge) dei finanziamenti statali in stipendi di docenti e dipendenti.
    Nel 2007 le cose sono peggiorate: gli atenei in rosso sono diventati 26, il 37% del totale. E oggi, aspettando i bilanci 2008, le prospettive non sono buone.

    Come fanno le università a finanziare la ricerca se spendono, come accade a Siena, il 104% dei fondi loro destinati esclusivamente in buste paga? «Semplicemente non la fanno» spiegava questa estate al Giornale Giulio Ballio, rettore del Politecnico di Milano, esempio virtuoso dove le buste paga sono contenute nel 66,2% dei fondi.

    Ma perché alcuni atenei hanno i pignoratori alle porte e altri hanno i bilanci in ordine? Visto che le regole sono le stesse per tutti, «le differenze - recitava l’inascoltato Libro verde - sono causate dai comportamenti particolari dell’ultimo decennio».
    Ovvero, da chi ha gestito troppo allegramente il personale, reiterando «processi accelerati di reclutamento e promozione», senza correlarli alla «qualità dell’ateneo».

    Tra il 2000 e il 2006 le università hanno bandito 13.232 posti per professori. Questi concorsi hanno creato 26.004 idonei.
    Magia?
    No, solo l’effetto del meccanismo di «idoneità multipla», introdotto una tantum nel ’99 per superare un’emergenza ma poi tacitamente adottato come regola generale, col benestare di tutti: più professori equivalgono a più corsi, e più corsi più fondi e potere - (senza considerare la possibilità di piazzare mogli, figli, parenti e amici all’interno delle facoltà).
    Il professorificio è costato allo Stato qualcosa come 300 milioni di euro in 5 anni. Corollario dell’esplosione del numero dei professori, un parallelo aumento dei corsi di laurea (una volta fatti i docenti, bisogna trovargli un’occupazione).

    Le università, passate dalle 41 alla fine anni ’90 alle 66 di oggi (e con le private e le telematiche si arriva a 94) hanno raddoppiato tra il 2000 e il 2006 i corsi di laurea, passati da 2.444 a 5.400.
    Con risultati, in alcuni casi, strepitosi: al primo gennaio del 2007 il corso di Scienze della mediazione linguistica a Forlì contava un solo iscritto; chissà con chi mediava.
    Forse con i soli in grado di capire il suo stato d’animo, gli altri 37 studenti titolari di facoltà ad personam sparsi per l’Italia: tra di loro anche uno studente di Scienze storiche a Bologna, uno di Ingegneria industriale a Rende (nel Cosentino) e uno di scienze e tecnologie farmaceutiche a Camerino (in provincia di Macerata).
    Ma il club dei corsi di laurea con più professori che studenti conta anche dieci corsi con due frequentatori, altri dieci con tre, quindici con quattro, otto con cinque e 23 con sei.

    Chi paga tutto questo?
    I vertici dell’università senese avevano le idee chiare: lo Stato.
    Peccato per loro che ci abbia pensato la magistratura amministrativa a far crollare la certezza che alla fine Roma paga sempre, bocciando il ricorso dell’ateneo, che aveva chiesto al ministero dell’Università 46 milioni di euro per far fronte agli stipendi arretrati; buste paga che il rettorato elargisce in abbondanza, visto che a Siena hanno addirittura più tecnici amministrativi che professori: 1,2 non docenti per ogni docente.
    In questo l’ateneo toscano è però in perfetta linea con le università siciliane tutte, dove le percentuali di personale che non sale in cattedra sono le più alte di tutta Italia: a Palermo ci sono 2.530 amministrativi a fronte di 2.103 professori, a Catania i tecnici superano i docenti di 232 unità, a Messina il numero di chi insegna si ferma a 1.403 e i tecnici arrivano invece a 1.742, a Enna il rapporto è di 77 a 29. Tanto per dire, a Milano il rapporto è fermo a 0,6.

    Matthias Pfaender www.ilgiornale.it 16 10 08

    saluti

  2. #2
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    Predefinito Che cosa è razzista?

    1) Volere una scuola che insegni l’italiano a chi non lo sa prima che sia immesso in una classe dove si parla italiano.
    2) Scrivere sui manifesti, riprodotti in prima pagina su Repubblica con visibile soddisfazione: “Gelmini mostro”.

    Chi è razzista? Uno che sostiene la posizione (1) oppure chi espone la mostrificazione di una donna (2)?

    Tra gente normale e di buon senso dovrebbe essere chiaro dove stia la ragione e dove il torto. La Camera dei deputati ha per fortuna votato la mozione dove si fissa una norma elementare sulla base di un principio etico di tutela: nessun bambino o ragazzo sia immesso in una comunità di coetanei senza avere il minimo di strumenti linguistici per comunicare.
    Insomma, bisogna impedire che un piccino si senta umiliato perché non capisce ciò che si dice tra i suoi compagni, magari guardandolo in faccia e ridendo. I bambini sono sì creature innocenti: innocenti ma crudeli.
    Chi sia stato bambino e abbia buoni ricordi lo sa. Occorre evitare l’isolamento che nasce dal non comprendere i compagni e gli insegnanti.

    Questo è stato il significato della mozione. L’ha proposta la Lega, che l’ha materialmente redatta, ma l’ho firmata anch’io, da bravo deputato del Pdl e componente della Commissione cultura e istruzione, proprio con questa intenzione.
    Avevamo tra le mani i pareri sconfortati di molti insegnanti e di molte famiglie. Brava gente. Raccontano di aver dovuto portar via il bambino da una scuola elementare di un quartiere periferico di Torino perché il loro piccolo era in una classe dove la grande maggioranza erano stranieri, provenienti da nazionalità molteplici, parecchi balbettanti solo nella loro lingua. Soluzione: portare via il loro bambino, trovare una scuola statale o no che garantisca un progresso vero.
    Come si fa a dargli contro, a pensare siano razzisti o poco altruisti?

    Balle. Si ragiona sempre pensando al bene del proprio bambino, è inevitabile. E sia detto da parte di uno la cui moglie, senza meriti propri, si dà da fare e si sfianca all’inverosimile per sostenere famiglie straniere (e italiane) in difficoltà qui e nel Terzo Mondo.
    È per il bene anche e soprattutto dei bimbi stranieri: non si insegna a nuotare a un bambino buttandolo nell’acqua gelata. Annega. L’idea allora era semplice: stabilire un test per vedere se un bambino ha una soglia di conoscenza dell’italiano minima. Se non la supera: ecco una classe di transizione, dove l’italiano viene impartito, senza che in alcun modo sia chiesto al piccolo di rinnegare la propria cultura, tradizione, lingua.
    Ma se fa la scuola in un altro Paese, è il caso che sia accompagnato in un cammino per non odiare questa terra.
    Oltretutto, questo evita proprio che si formino classi permanenti di soli stranieri.
    Questi sì veri ghetti, vere zone di apartheid o di enclave etniche a dominanza di questa o quell’altra nazione.

    Uno ha un’idea diversa per aiutare l’integrazione? Benissimo.
    Si forniscano motivazioni, e poi si voti.
    Di certo il peggio è lasciare le cose come stanno. Infatti si è votato su mozioni diverse.
    E ha vinto il documento della Lega (e anche mio).
    Poi, a dimostrare che nessuno l’ha letto davvero, i sindacalisti in blocco, da Epifani a Bonanni, si sono messi a criticare l’“emendamento”.

    Ma quale emendamento.
    Per chi si occupa di politica, scambiare una mozione per un emendamento, è come per chi si occupa di calcio confondere un corner per un rigore. Approssimazione è segno di inciviltà, di volontà di demonizzazione del prossimo. La cosa più schifosa che esiste è squalificare le scelte altrui, individuando nel prossimo una zona nera della coscienza, dove dovrebbe guardare solo Dio.

    Invece ci è toccato essere scrutati da Piero Fassino.
    Una volta Guareschi inventò il manifesto: Dio ti vede, Stalin no.
    Adesso gli epigoni sono migliorati, sono più lunghi d’occhi che il compagno dal Baffo d’Acciaio.
    Ma la scuola è quella. Ha detto ieri Fassino, a cui noi del centro destra avevamo tributato un lungo applauso di solidarietà quando è stato infamato da un’intervista di Repubblica: «Non solo introducete un principio di discriminazione grave in sé, ma fate una cosa che moralmente è anche più abietta: discriminate tra i bambini e tra i più piccoli».

    E così ha dato la linea a Repubblica, Stampa, Corriere (il Corriere iniziava così: «Proposta abietta, si inserisce la discriminazione nella scuola»), fornisce obiettivi ai cortei studenteschi e alle occupazione sempre pronte (illegali, ma la legalità per la sinistra è una proprietà privata: decide lei dove si applichi).

    Incredibile Fassino.
    Si presentano come re magi in parlamento e in tivù a dare del razzista, anzi del razzista nemico dei bambini, a più di mezza Italia (perché questa maggioranza esprime più della metà degli italiani), trattando Lega e Pdl come una sorta di Ku Klux Klan. E lo fanno proprio applicando un criterio che più razzista non ce n’è: quello di attribuire al prossimo un’anima bacata dal pulpito della propria immacolata concezione. Come Dio che incenerì Sodoma, come Mosè che fece ingoiare l’oro fuso agli idolatri.
    Attaccatevi al tram, Fassino e Veltroni.

    Renato Farina www.libero-news.it 16 10 08

    saluti

  3. #3
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    Predefinito Dalla parte di chi lavora

    Ma che cosa urlate? Che cosa sfilate? Che cosa fate in corteo? Non vi rendete conto che ormai sconfinate nell’archeologia? Non vi rendete conto che il vostro sciopero dei mezzi pubblici è un ritornello stantio, un rito che sa di vecchio più di un programma di Pippo Baudo? Non vi accorgete che il pianeta sta cambiando, tutto attorno? E affrontarlo in questo modo è come provare ad andare su Marte con un velocipede?
    E voi, studenti, perché vi ostinate, quarant’anni dopo, a scimmiottare i vostri infelici padri, quasi-nonni? Perché vi fate attirare dai titoli di giornale, dalle allusioni e dalle illusioni, dalla piccola ebbrezza di giocare alle marianne? Perché sui vostri cartelli scrivete ancora «non è che un debutto» come fosse un vino d’annata, Sorbona 1968?
    E voi, professori, perché difendete a spada tratta questa scuola che non funziona? Perché continuate a raccontare balle a voi stessi, così evidenti che nemmeno lo specchio vi crede? E voi, studenti universitari, perché vi ostinate con quei megafoni a richiamare folle che non ci sono?
    Perché difendete atenei che s’inventano corsi (37) frequentati da un solo studente? A chi giova la laurea in scienza e tecnologia del fitness o quella in aiuole fiorite? Perché non mettiamo fine a questi sprechi?
    Che cosa c’è da protestare?

    E perché basta ancora un Cobas per spaventare il Paese? Perché nei prossimi giorni la sinistra avrà più manifestazioni in piazza che idee nei cervelli? Non vi accorgete di quello che sta succedendo, del mondo che cambia, dei Paesi emergenti che ci mangiano in testa, dei fondi sovrani che ci mangiano e basta?
    A che serve, di fronte agli sconvolgimenti in salsa hedge fund, l’armamentario anni Settanta, con gli stessi slogan e gli immancabili sit in?

    Scusate lo sfogo, ma oggi ancora una volta l’Italia si divide in due. C’è una minoranza urlante e una maggioranza operosa, c’è chi blocca tutto e chi s’industria per andare avanti comunque, c’è chi va in piazza e chi va a lavorare.
    I primi hanno visibilità in tutti i Tg, le Tv e gli Annozero che vogliono.
    Dei secondi non si occupa nessuno. E per questo stiamo preparando il nuovo Giornale che vedrete da lunedì. Per essere con loro, cioè con voi, ancora di più.

    il Direttore de www.ilgiornale.it 17 10 08

    saluti

  4. #4
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    Predefinito Quante balle!

    Dicono che il tempo pieno verrà abolito, invece aumenterà del 50%.
    Dicono che le ore di lezione cresceranno nei licei mentre invece diminuiranno da 36 a 32.
    Dicono che verrà abolita l'educazione civica che invece è stata reintrodotta.
    Dicono che la scuola sarà più "povera" per i tagli e invece i risparmi fatti verranno reinvestiti.

    Le parole d'ordine sono: no alla distruzione della Scuola.
    Già il Capo dello Stato ha duramente criticato tutti questi NO.
    Ma gli italiani, quelli che non partecipano alle manifestazioni in piazza, si chiedono: chi non manifesterebbe CONTRO la distruzione della scuola?
    E si chiedono anche: ha ragione la piccolissima MINORANZA che manifesta o l'enorme MAGGIORANZA che non partecipa non perchè se ne frega ma solo perchè è stufa della DISINFORMAZIA.

    saluti

  5. #5
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    Predefinito Il raglio della scuola

    A volte per giudicare una protesta basta guardare in faccia gli scioperanti. Ebbene, ieri a Roma è sfilato il folclore, non la politica.
    Tant’è che lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha commentato: «Non si può dire solo no».

    Facce pitturate, magliette inneggianti al solito Che Guevara o alla fu Pantera, pugni chiusi, striscioni “contro la scuola di classe” (boh…) e proteste contro “una scuola per soli ricchi” (straboh…), orecchie d’asino che spuntavano ogni due per tre. Insomma, un’autentica cretinata. Che però passerà nei titoli dei telegiornali e dei giornali come una manifestazione di protesta.

    «Una manifestazione senza precedenti», esultano i Cobas che hanno contato «500mila persone». Vogliamo augurarci che tra gli organizzatori non ci fossero professori di matematica, perché altrimenti saremmo messi davvero male.

    “Il futuro dei bambini non fa rima con la Gelmini”, gridavano alcuni genitori con figlioletti al seguito. È vero, in certi casi, il futuro dei bambini fa rima con i cretini: cosa ci fanno i bimbi agli scioperi?

    A Roma dicono: quando non sai come si mettono le cose, buttala in caciara. È esattamente quello che hanno fatto ieri: ognuno protestava con un ministro diverso; chi ce l’aveva con la Gelmini, chi con Brunetta, chi con Berlusconi, chi con Tremonti. Quando si dice non aver le idee chiare.

    Del resto, è difficile mettere a fuoco il motivo di questo pandemonio. Si sbraita a proposito dei tagli degli insegnanti, quando nessun insegnante resterà a casa: avete mai visto un dipendente statale con contratto a tempo indeterminato perdere il lavoro? Nemmeno col coltello sporco di sangue in mano e la madre in terra sgozzata ti licenziano; figurarsi qui. Passare da tre insegnanti – cioè il famoso modulo – al maestro unico non equivale a licenziare gente. Significa solo ridistribuire diversamente il carico di lavoro. Come? Ve lo dico subito, sbugiardando così un altro cavallo di battaglia degli scioperanti.

    “Ridurranno le ore del tempo pieno!”. Qualche madre in buona fede si è già spaventata. Si tranquillizzi, non sarà così: a dirla tutta il tempo pieno aumenterà. E sarà tenuto proprio da quegli insegnanti “tagliati fuori” dalla riforma del maestro unico. In parole povere: se in classe resta un solo maestro anziché tre, gli altri due saranno destinati al tempo pieno. Non mi sembra difficile da capire. Invece sono mesi che la menano.

    Vado avanti con i ragli d’autore. “Con il nuovo “dimensionamento” saranno tagliate le scuole di montagna e dei paesini”. Nemmeno questo è vero. Le scuole resteranno aperte e operative; potrà capitare che non avranno più ognuno il proprio preside o il proprio personale di segreteria. Non mi sembra la fine del mondo, vorrà dire che una volta tanto toccherà alla burocrazia alzare le chiappe dalla scrivania. Meglio che lo facciano i presidi e le segretarie piuttosto che le famiglie, no? Oltre alla praticità per i genitori, lo Stato risparmierà un bel po’ di soldi pubblici. Era ora: questo meccanismo era previsto in un decreto del ’98, finora mai applicato. Meglio tardi che mai.

    È un po’ quello che già accade nelle piccole parrocchie: poiché non ci sono più preti sufficienti, qualche don celebra anche nelle chiese di montagna o di periferia. Si spostano i preti, mica si chiudono le parrocchie. Lo stesso varrà per le piccole scuole con pochi alunni.

    Altra panzana: il governo taglia gli insegnanti di sostegno ai portatori di handicap. Il colpo di scena pietistico è eccezionale ma non va a segno. Nell’ultima finanziaria del governo Prodi era scritto che il rapporto tra disabili e insegnanti dovesse essere di due a uno. Nella riforma della Gelmini non si fa altro che applicare questo parametro di buon senso. Se qualcuno si lamenta è perché, sulle spalle dei disabili, vorrebbe assunzioni in batteria.
    Furbetti e pure sciacalli.

    Respingiamo infine l’ultimo colpo, quello sulle ore di inglese. Come si fa a parlare di riduzione delle ore di lingua straniera, quando è già previsto (per effetto della riforma Moratti) che dall’anno prossimo le ore passeranno da tre a cinque? Mistero.

    Allora perché tutto questo casino? Semplice, perché dopo tanti anni in cui la mucca del pubblico impiego ingrassava a dismisura ruminando nella mangiatoia della concertazione, finalmente un governo sta provando a invertire la tendenza. Se poi ci riuscirà fino in fondo non lo so; intanto ci sta provando.

    Capite bene, allora, perché i sindacati fanno il diavolo a quattro: se la scuola è diventata più numerosa dell’esercito degli Stati Uniti d’America, se ci sono più bidelli dei carabinieri e se la qualità dell’insegnamento mediamente è peggiorata, la colpa è in gran parte loro.

    Ecco perché a certa gente non resta che attaccarsi in testa un paio di orecchie d’asino e ragliare qualcosa.

    Gianluigi Paragone www.libero-news.it 18 10 08

    saluti

  6. #6
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    Predefinito Gelmini: proteste insensate

    "Incomprensibili".
    Il ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini definisce così le proteste contro il suo provvedimento per la scuola.
    Oggi è il "No Gelmini Day" e manifestanti in tutta Italia sono scesi in piazza contro il ministro. Durante l'intervista a "Mattino 5", il ministro si dice connvinta che coloro i quali scendono in piazza non abbiamo "letto il provvedimento, perchè non si capisce come mai si occupino le università, si facciano manifestazioni nella scuola secondaria, che sono ambiti minimamente toccati dal provvedimento".
    Perchè il provvedimento, ha precisato il ministro, "riguarda solo la scuola primaria e la scuola media inferiore: introduce la valutazione del comportamento, lo studio dell' educazione civica, il ritorno ai voti come meccanismo di valutazione, ma certo non tocca le università e la scuola superiore".
    La Gelmini non esita neppure a sottolineare che c'è la sinistra alla base di questa "campagna di disinformazione: sta dicendo alle famiglie che verrà meno il tempo pieno e gli insegnamenti aggiuntivi, è una grande bugia".

    E a proposito delle classi per soli stranieri, il ministro si dichiara favorevole nei contronti della mozione della Lega Nord: "Le classi di«inserimento per i bambini immigrati non sono un problema di razzismo, ma un problema didattico. È un dato di fatto che per come è organizzata la scuola oggi non riesce ad assolvere al meglio a una funzione importante, quella di integrare gli alunni immigrati. Ogni genitore che ha un figlio nelle classi elementari sa che ci sono problematiche legate all'inserimento dei bimbi stranieri nelle classi perchè molti non conoscono l'italiano. Molte classi rallentano l'apprendimento e l'integrazione dei bambini stranieri perchè non ci sono corsi specifici di insegnamento della lingua italiana. Se vogliamo integrare in maniera adeguata i bambini stranieri" ha concluso la Gelmini, "è giusto investire delle risorse perchè questi bambini possano conoscere la lingua italiana e integrarsi al meglio".

    Intanto cortei e manifestazioni di protesta contro la Gelmini sono stati organizzati in tutta Italia. A Milano, dietro lo striscione "Blocchiamo il decreto, occupiamo dappertutto. Gelmini la scuola ti ripudia" si sono riuniti i due cortei formati dagli studenti delle scuole superiori e quello degli universitari che protestano contro la riforma della scuola. Del corteo fanno anche parte gli insegnati e i genitori della 'Rete Scuole'.
    Un petardo è stato anche lanciato contro al sede distaccata del Provveditorato agli Studi del capoluogo lombardo.

    Il popolo della scuola sfila compatto anche nella capitale. Ad aprire il lungo corteo, dietro lo striscione 'No alla distruzione della scuola' firmato dal 'Popolo della scuola pubblica', ci sono bambini, genitori, insegnanti con fischietti, magliette colorate che affermano che "il futuro dei bambini non fa rima con Gelmini". Gli altoparlanti, oltre a spiegare le motivazioni della protesta, lanciano slogan contro il ministro dell'Istruzione, università e ricerca. Sulla musica di una canzone di protesta delle mondine, i manifestanti protestano contro l'aumento del numero degli alunni per classe:
    "Se 20 alunni vi sembran pochi, provate voi ad insegnare. Così vedrete la differenza tra insegnare e comandare".
    E ancora, "Per la Stellina la scuola va in rovina, la classe traballa e nessun resta a galla".
    Molti anche gli striscioni legati all'università e alla ricerca: "La ricerca è in mutande. Ora leviamo anche quelle?" o "Avete risolto il problema della fuga dei cervelli, avete tagliato le teste".
    In migliaia sono scesi in strada anche a Genova: in testa bambini delle elementari e delle materne, seguiti da studenti, docenti e precari delle scuole e dell'università.

    www.libero-news.it 17 1 08

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    Predefinito Altro che “no Gelmini day”....

    ....guardate che bell’indotto


    I grembiulini iniziano ad andare a ruba, ma non sono più quelli di una volta

    La corsa ai grembiulini è partita. E ci sono già le aziende che si fregano le mani. Per ora, i negozi hanno visto svuotarsi i magazzini. I primi segnali di un incremento di vendite c’è già stato. Ma il vero boom è atteso per l’anno prossimo e le big del settore si preparano: “La strategia di noi fornitori è semplice: abbiamo fatto un acquisto supplementare di tessuti”, rivela Andrea Prato, direttore commerciale di Creazioni Brigitte. “In caso di bisogno avremo la scorta per gestire l’aumentata richiesta, altrimenti utilizzeremo comunque il tessuto per la prossima stagione”. “I negozi avevano già ordinato i capi prima della decisione del ministro”, sottolinea il titolare della campana Savim, che osserva: “Di positivo c’è però che hanno esaurito tutto lo stock in magazzino. Il vero aumento delle vendite è prevedibile nel 2009”.

    “La vendita al dettaglio è andata molto bene: oltre a una richiesta di riassortimento del 5 per cento, che denota la vivacità del mercato, non si registrano resi”, dichiara Gino Marta, presidente del gruppo Siggi, principale e storico produttore italiano del settore con un fatturato complessivo annuo di 36 milioni di euro. Aggiunge Marta: “L’annuncio del ministro Gelmini è stato dato a ridosso dell’avvio delle scuole facendo sicuramente a tempo a creare dibattito ma non a spostare sensibilmente i numeri del mercato. E poi la scelta del grembiulino, per quanto consigliata dal ministro, resta a discrezione dei singoli istituti scolastici”. Tuttavia, secondo il presidente della Siggi, “il 2008 può essere considerato un momento di passaggio che potrebbe sfociare in un vero e proprio boom nel prossimo anno”, con un aumento delle vendite anche del 30 per cento.

    Allora c’è da prevedere nel 2009 l’arrembaggio al grembiulino? “Osserviamo nei clienti di Creazioni Brigitte tre atteggiamenti: quello standard di chi li ha sempre trattati e non cambia abitudini, se non nel prevedere un piccolo aumento dei volumi acquistati; quello ‘della formica’, che non avendoli mai trattati non vuole comunque trovarsi sprovvisto nel momento di bisogno; e quello del ritardatario, che si affiderà all’aleatorio mercato del pronto moda in caso di necessità”, dice Prato. Ma non tutte le aziende sorridono: le piccole non riescono a stare al passo della concorrenza delle grandi, che hanno costi di produzione ridotti anche perché usano manodopera straniera. Sia Creazioni Brigitte (600 mila grembiuli la produzione media annua) che Siggi (quest’anno ha venduto 1 milione di pezzi) realizzano gran parte del prodotto all’estero, spesso in aziende totalmente di loro proprietà. “Produrre il grembiulino in Italia non ci permette di coprire i costi”, dice Stefania Maculan, titolare della Eletta di Vicenza. “Tagliare e ricamare un grembiule in Cina costa molto di meno”, concorda Ivano Gava, titolare della Confezioni Liza di Zanin Maria (Treviso). Sorridono invece i proprietari delle licenze: “Da un paio d’anni sono divenute un elemento di rilievo nella struttura delle vendite al pubblico e fanno lievitare parecchio il costo del grembiulino”, sottolinea Prato.

    Molti bambini esigono l’uniforme col marchio di un super-eroe alla moda. Le licenze che andranno per la maggiore il prossimo anno? Batman, Hannah Montana, High School Musical e Walt Disney, secondo Creazioni Brigitte. Anche Siggi commercializza numerose firme dei cartoon, da Spiderman alle Winx, ma il presidente Marta nota che al momento dell’acquisto è il buon senso delle mamme ad avere la meglio: “I più apprezzati sono i capi a prezzo medio e non griffati, che hanno un miglior rapporto qualità/prezzo”. Nessun rischio di spersonalizzazione col grembiulino degli Anni 2000, però: “Il grembiulino di oggi è ben diverso da quello, nero e triste, della nostra infanzia”, nota Marta del gruppo Siggi, “ora i capi lasciano un’ampia libertà di scelta in termini di colori, modelli, ricami, applicazioni e, naturalmente, prezzi”.

    di Patrizia Licata www.ilfoglio.it 18 10 08

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    Predefinito Calma, ragazzi

    Il corteo-omnibus dei Cobas e dei Cub
    sotto la pioggia di Roma, con “protagonisti”
    gli studenti liceali “preokkupati
    per il futuro”, anche se il famigerato
    decreto Gelmini non li sfiora nemmeno.
    Le “notti bianche” di protesta
    delle maestre, in ansia con qualche motivo
    in più, ma francamente oltre misura
    poiché nessuno le sta cacciando con
    il forcone dal posto di lavoro.
    Il furbo
    presidente pugliese Nichi Vendola addirittura
    pronto a comportarsi “secondo
    i principi della legittima difesa”,
    perché “siamo di fronte ad atti che sono
    violenti nella sostanza e nel metodo”.

    Dall’altra parte, un ministro della
    Pubblica istruzione con qualche evidente
    difetto di comunicazione e con
    qualche ingenuità nel portare le sue
    mosse: errore blu quando si gioca a
    scacchi, e la scuola è una scacchiera
    minata.

    A metà strada tra i due fronti,
    stanno i fatti e i problemi veri. E sono
    proprio questi la materia incandescente
    che gli studenti furiosi e le prefiche
    della scuola in lutto evitano di affrontare:
    o li ignorano, o li manipolano.

    Andiamo con ordine.
    La protesta si è dapprima catalizzata su alcuni provvedimenti
    in realtà marginali – come il ritorno
    al voto espresso in numeri o il
    grembiule nelle primarie – e contro altre
    decisioni, sacrosante ed effettivamente
    urgenti: vedi il voto di condotta.
    Ma la vera bandiera della contesa è diventata
    presto la questione del maestro
    prevalente.
    Ed è qui che alle motivazioni della protesta mancano parecchie
    pezze d’appoggio. Su questo non ha torto
    il ministro Gelmini, quando dice di
    trovarsi di fronte a critiche non motivate.
    Innanzitutto il tempo pieno – che
    pur essendo importante non è comunque
    la scelta prevalente delle famiglie
    italiane – che non verrà toccato. O la
    lingua straniera, secondo alcuni addirittura
    abolita mentre non lo sarà; e
    semmai il taglio degli insegnanti specialisti
    l’aveva attuato la Finanziaria
    Prodi nel 2005. In più, con l’entrata in
    vigore della riforma Moratti l’inglese alle
    medie passerà da tre a cinque ore.
    Analoghe approssimazioni per quel
    che riguarda il presunto taglio selvaggio
    dei posti di lavoro, e che invece – come
    è già stato chiarito anche dal premier
    Berlusconi e come appare ben
    chiaro ai tecnici – sarà di fatto un corposo
    blocco del turnover: non ci saranno
    87 mila licenziamenti selvaggi.
    Dunque molte delle critiche ascoltate
    in piazza sono fuori bersaglio, e va
    anche detto che la Gelmini non avrebbe
    agito se non sotto la pressione di
    una duplice urgenza: le indicazioni finanziarie
    di Tremonti e il dissesto ereditato
    dal precedente governo, causato
    dalle sue non-decisioni in fatto di
    spesa.

    Ma proprio per questo qualche
    critica alla Gelmini può essere rivolta.
    Innanzitutto, perché per lunga tradizione
    ministeriale i decreti sulla scuola
    non si annunciano per aprirci dibattiti,
    ma si rendono attuativi entro il
    mese di agosto. In secondo luogo, il ministro
    avrebbe fatto meglio a bloccare
    il turnover nelle scuole elementari, e
    ad affidare la questione didattico-pedagogica
    del maestro prevalente (non
    propriamente urgente) a una riflessione
    meno abborracciata di quella consentita
    da un decreto di fine estate. I
    suoi sono provvedimenti di natura gestionale
    ed economica, come lei stessa
    giustamente rivendica (“chi protesta ci
    dica dove trovare i soldi per occupare
    altre centomila persone nella scuola”),
    questo è il loro pregio e il loro limite.
    Infine nessuno, neppure la Gelmini,
    sottolinea gli aspetti migliori e strutturali
    dei suoi programmi, come la riorganizzazione
    degli indirizzi di studio
    nelle scuole tecniche e dei sistemi di
    reclutamento dei docenti. Diversa la
    questione dell’università, dove le critiche
    agli effetti della legge 133 segnalano
    invece rischi di un malfunzionamento
    reale. Qui è necessario avere al
    più presto idee chiare per intervenire
    in modo strutturale.
    Invece di limitarsi al populismo retorico,
    una seria opposizione (persino
    sindacale) dovrebbe piuttosto puntare
    a incalzare il governo sulla mancanza
    di un progetto di riforma complessivo.
    Quella che abbiamo sotto gli occhi, invece,
    appare la solita protesta ideologica,
    anzi pavloviana, ingigantita ad arte
    dai giornali per motivi politici e gradita
    ai sindacati perché funziona da copertura
    ideologica a quelle che sono
    mere difese corporative. E’ dal 1968 che
    gli studenti (e i sindacati) bloccano
    qualsiasi riforma e tentativo di farne, e
    qualcuna magari non era nemmeno così
    tremenda. Ed è l’assenza di qualsiasi
    riforma ad aver prodotto questa situazione
    su cui prima o poi qualcuno dovrà
    mettere le mani d’urgenza. Stavolta
    è toccato alla Gelmini. “Non pagheremo
    noi la vostra crisi”, è lo slogan degli
    universitari del 2008. E invece è proprio
    ciò che rischiano di fare, loro e i loro
    pessimi uffici stampa.
    Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi,
    dovrebbe meglio chiarire
    ciò che ha inteso dire con la frase secondo
    cui “il mondo è cambiato e adesso
    gli aiuti di stato diventano un imperativo
    categorico”. La congiuntura è indubbiamente
    sfavorevole, in Italia ma
    soprattutto a livello internazionale. La
    crescita dell’economia italiana dipendeva
    dal settore delle esportazioni e
    questo è bloccato. La domanda interna
    è fiacca e le imprese si trovano, loro
    malgrado, in una stretta del credito, dovuta
    alle difficoltà delle banche di svolgere
    i loro compiti ordinari di finanziamento
    dell’economia, a causa dei
    bassi parametri patrimoniali. Se dunque
    non è cambiato tutto il mondo, è
    cambiata drasticamente la situazione
    economica. Qui Berlusconi ha ragione.
    D’altra parte, in sede europea, le regole
    sul divieto di aiuti di stato sono
    state sospese a favore delle banche
    con interventi massicci che hanno cambiato
    la geografia bancaria. Berlusconi
    fa bene a prenderne atto. Ma non tutti
    gli aiuti pubblici sono eguali, dal punto
    di vista dei loro effetti per l’economia
    di mercato. Le sovvenzioni alle imprese
    e le partecipazioni di capitale
    comportano di mescolare lo stato con
    le industrie, turbando il sistema concorrenziale.
    Non altrettanto accade
    con sgravi fiscali selettivi, come la temporanea
    abolizione del bollo per chi
    compra un’auto o un camion, o la sospensione
    dell’Iva per automobili ed
    elettrodomestici. Questi sono provvedimenti
    di rilancio della domanda di
    consumi durevoli che fanno parte delle
    manovre congiunturali tradizionali e
    che, in quanto selettivi, possono essere
    definiti aiuti di stato, dal punto di vista
    di Bruxelles.
    Si possono anche immaginare sgravi
    fiscali per nuove iniziative in aree del
    sud o in crisi, che finora Bruxelles ha
    negato con un’interpretazionie discutibile
    delle norme comunitarie. Sarebbero
    tutti interventi di finanza pubblica
    produttiva, favorevoli al mercato.
    Non statalismo. Per questo è opportuno
    che il premier chiarisca la sua frase
    e le sue intenzioni.

    G.F. su www.ilfoglio.it di oggi

    saluti

  9. #9
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    Predefinito Cronaca

    Roma. Mentre i siti Internet di alcuni giornali
    italiani ieri pomeriggio parlavano di trecentomila
    persone in piazza contro la Gelmini
    e di diecimila studenti davanti al ministero
    dell’Istruzione a Roma, gli stessi manifestanti
    visti dal vivo non arrivavano a occupare
    in larghezza tutta la facciata del ministero
    e le due corsie di viale Trastevere.
    “In tutte le università di Italia c’è mobilitazione”,
    gridava l’altoparlante, salutato da applausi
    e grida. “Da lunedì continueremo a
    occupare le facoltà e a chiedere il blocco
    della didattica”, prometteva una voce femminile
    mentre il corteo si scioglieva.
    La Sapienza
    di Roma è considerata una delle “piazze calde” del momento, ma se non fosse
    per qualche stiscione e banchetto all’ingresso
    gli altri studenti non saprebbero nemmeno
    dell’occupazione.
    “Sono due settimane che il collettivo a Fisica prova a occupare la facoltà – raccontano alcuni studenti – ma sono troppo pochi e trovano la resistenza della maggior parte degli studenti che vogliono andare regolarmente a lezione”.
    Negli ultimi giorni hanno indetto diverse assemblee, una
    delle quali con quaranta professori di Fisica
    (meno della metà di quelli che insegnano alla
    Sapienza): l’incontro doveva essere informativo,
    ma dalle bocche dei professori si sono
    sentite cose tipo “i soldi dei tagli andranno
    al Vaticano”, “siamo come gli operai della
    Fiat nel Sessantotto”, proposte di lezioni
    notturne, di scioperi a sorpresa e addirittura
    il blocco per un anno di tutte le attività didattiche.
    L’assemblea è terminata con la decisione
    di sospendere le lezioni per due settimane
    (anche perché i ragazzi dei collettivi
    hanno fatto capire che o si faceva così o loro
    avrebbero occupato).
    La sospensione per ora
    è però solo teorica, perché la maggior parte
    dei corsi si tiene regolarmente. Giovedì però
    sembravano in molti.
    “Per avere numeri alti – racconta un ragazzo del quinto anno – hanno
    dovuto chiamare a raccolta ragazzi dei licei
    e di altre università. E comunque erano
    poco più di un migliaio su centoquarantacinquemila
    studenti”. Qualcuno fa notare come
    le agitazioni siano cominciate esattamente
    dopo le elezioni del nuovo rettore della
    Sapienza, Luigi Frati, uscito vincente dalle
    urne a discapito di candidati considerati
    più a sinistra, come il professor Martinelli.
    Non c’è ovviamente collegamento fra le due
    cose, ma è curioso notare come le promesse
    elettorali dei candidati – Frati escluso – fossero
    di lotta dura alla Gelmini, e i primi a
    muoversi siano stati ricercatori e membri del
    personale amministrativo, seguiti poi dai collettivi.
    Chiamato a parlare agli studenti, il
    neo rettore Frati giovedì ha usato parole di
    grande equilibrio, dicendosi contrario tanto
    ai tagli all’università quanto al blocco delle
    lezioni, auspicando invece un riordino innanzitutto
    dall’interno della stessa Sapienza.
    Duecentocinquanta firme per riaprire i corsi
    Non solo a Roma però i media raccontano
    di grandi manifestazioni mentre le lezioni
    continuano a essere affollate. Quello di Firenze
    è un altro ateneo teatro di proteste. I
    primi movimenti cominciano un mese fa,
    quando alcuni ricercatori vogliono fermare i
    corsi. Viene deciso di sospendere le lezioni per
    una settimana ad Architettura per fare
    incontri informativi sulla riforma, ma nel giro
    di poco nessuno li segue più. Lo stesso
    provano a fare a Ingegneria: identico risultato.
    E’ a Scienze che allora si cerca di fare sul
    serio: lunedì scorso la sinistra occupa il polo
    universitario di Sesto Fiorentino. Sono una
    cinquantina di persone e i professori decidono
    di rinviare l’inizio delle lezioni al 3 novembre.
    A Scienze sociali circa cinquecento
    persone (molte delle quali non studenti) sospendono
    il consiglio di facoltà di Scienze
    politiche. Ci sono attimi di tensione e la palazzina
    viene occupata. Ieri al pranzo sociale
    erano una quindicina, alcuni dei centri sociali
    e altri di facoltà diverse. Dice Davide
    Cristoferi, rappresentante degli studenti in
    Senato Accademico per Lista Aperta: “Incontrando
    la gente e parlando con gli studenti
    è evidente che la maggior parte di loro
    vuole potere andare a lezione”. In due giorni
    Davide e altri ragazzi di Lista Aperta raccolgono
    duecentocinquanta firme a Scienze
    (facoltà notoriamente a sinistra) per chiedere
    al Consiglio di facoltà di riprendere i corsi,
    ma i professori non accolgono la richiesta.
    Non differente la situazione a Torino: dopo
    qualche lezione all’aperto, i gazebo della
    protesta di fronte alla sede storica di Palazzo
    Nuovo sono deserti da giorni, così come
    l’atrio, dove pende qualche striscione solitario.
    Al Politecnico è stata fatta un’assemblea
    di informazione sfociata in un blocco del
    traffico davanti all’ateneo (durato alcuni minuti)
    fatto da un centinaio di persone. Stefano
    Pistillo, studente di Ingegneria e membro
    del Cnsu, l’organo di rappresentanza nazionale
    degli studenti universitari, dice al Foglio
    che “l’impressione è che ci sia una stretta
    minoranza che protesta. Anche tra i docenti,
    se ne parla ma senza che questo crei
    disordini. La sensazione è che si aspetti una
    mossa proprio da parte dei professori”. Per
    ora la protesta è in mano a gruppi sparuti dei
    centri sociali, tanto che gli stessi rappresentanti
    di sinistra dell’Unione degli studenti si
    sono detti contrari al blocco delle lezioni. Alcuni
    docenti cominciano a invitare alla protesta:
    giovedì un professore di Giurisprudenza
    a lezione ha detto che “si dovrebbe impedire
    la libertà politica di esprimere un opinione
    favorevole al decreto Gelmini: ai miei
    tempi avremmo avuto sicuramente il coraggio
    di farlo”. Ma finora le lezioni continuano
    regolarmente.

    C’è chi sta con Napolitano
    Anche nella rossa Bologna la didattica va
    avanti senza intoppi. Un po’ di fermento c’è
    nella facoltà di Lettere, dove un’aula è stata
    occupata per qualche ora. “Ma – raccontano
    alcuni studenti – a protestare sono un centinaio
    di persone su sedicimila iscritti”. A Bologna
    studia Giurisprudenza Diego Celli, presidente
    del Cnsu eletto nelle liste del Coordinamento
    Liste per il Diritto allo Studio,
    che racconta al Foglio che “ci sono state in
    questi giorni alcune assemblee pubbliche
    per informare sui termini del decreto, ma né
    occupazioni né blocchi della didattica”. Ma
    come si pone il presidente degli universitari
    di fronte alle sforbiciate della Gelmini? “Come
    Clds – dice Celli – abbiamo fatto nostro
    quanto detto dal presidente della Repubblica
    Napolitano, secondo il quale servono scelte
    coraggiose di rinnovamento e non sono sostenibili
    posizioni di pura difesa dell’esistente.
    Con realismo osserviamo innanzitutto
    che i tagli più pesanti alle università cominceranno
    tra due anni e non subito; per
    questo ci sembra esista uno spazio di manovra
    sufficiente per migliorare la riforma.
    Aspettiamo che il ministro dichiari apertamente
    quali sono le linee guida secondo le
    quali intende muovere i primi passi per ridisegnare
    il sistema, ma siamo contro a qualsiasi
    forma di occupazione o blocco delle lezioni.
    La maggior parte degli studenti vuole
    andare a lezione, a chiederne la sospensione
    ci facciamo del male da soli”.

    A Milano ieri ci sono state proteste in
    piazza. Nei giorni precedenti, come altrove,
    l’università era tutto tranne che bloccata o
    occupata: ieri, complice lo sciopero del personale
    amministrativo, molte aule non sono
    state nemmeno aperte. Le stesse porte d’ingresso
    della Statale sono rimaste chiuse fino
    alle nove e un quarto, ora in cui il corteo anti
    Gelmini è partito: centinaia di studenti sono
    così rimasti a guardare aspettando di poter
    andare a lezione, venendo così contati
    tra i partenti del corteo (che ha visto partecipare
    qualche migliaio di manifestanti, tra
    cui molti liceali). Durante la giornata diversi
    professori hanno comunque tenuto lezione,
    chi all’aperto e chi nelle poche aule a disposizione.
    I manifestanti hanno cercato di impedire che questo avvenisse: è il caso, fra
    gli altri, della lezione di Diritto civile del
    professor De Nova, che è stato costretto a
    spostarsi coi suoi studenti (dal chiostro dell’università)
    da un centinaio di manifestanti,
    per buona parte membri del personale
    amministrativo della Statale. A parte alcuni
    casi però, la vita studentesca è regolare: le
    biblioteche sono affollate così come i corsi.

    All’ora di pranzo ieri in Statale i rappresentanti
    di Lista Aperta Obiettivo studenti hanno
    organizzato un incontro informativo sui
    tagli previsti dal decreto. Perché non è vero
    che chi non protesta sia supinamente allineato
    alla linea ministeriale: “Non difendiamo
    a priori nessuno – spiega Matteo Forte,
    tra i promotori dell’incontro – Anche noi
    siamo preoccupati del futuro dell’Università,
    ma siamo contrari a forme di protesta
    violente e estranee. L’Università si ricostruisce
    dall’interno”.

    La stessa idea che ha il presidente del Coordinamento Liste per il
    Diritto allo Studio, Stefano Verzillo, studente
    di Statistica all’Università Bicocca di Milano.
    Verzillo ricorda come “in tempi non
    sospetti” avesse criticato i tagli: “Con un comunicato
    del 17 luglio scorso, ‘Prove tecniche
    di eutanasia’, avevamo espresso le nostre
    perplessità soprattutto sui criteri con
    cui verranno fatti questi tagli”. Saranno infatti
    uguali per tutti gli Atenei, siano essi
    “virtuosi” o no.
    A questo proposito, Verzillonota con curiosità come “le università in cui
    c’è più agitazione sono proprio quelle più in
    difficoltà con i conti, come Firenze, Pisa, Napoli
    e Genova”. Là dove forse conviene mantenere
    lo status quo e continuare a chiedere
    solo “più soldi”.

    Chi non critica abbastanza viene spintonato
    Nel capoluogo ligure l’altro ieri alcuni
    studenti che volantinavano contro il blocco
    delle lezioni e nel contempo davano un giudizio
    critico al decreto che ha deciso i tagli,
    sono stati circondati da persone appartenenti
    ai collettivi, e spintonati fino a che i loro
    volantini non sono stati strappati e buttati.
    Evidentemente non basta criticare i tagli,
    bisogna anche volere bloccare tutto.
    Verzillo dice al Foglio che “questa è una campagna
    soprattutto mediatica: il novanta per
    cento degli studenti, anche di sinistra, vuole
    andare a lezione. Tanti ricercatori e docenti
    sono nelle prime file della protesta. Ma
    iniziative di questo tipo non sono altro che
    sciacallaggio politico sulla pelle degli studenti
    che sono l’anello più debole della catena”.
    Che l’università abbia bisogno di essere
    rinnovata è sotto gli occhi di tutti e non
    da oggi, ma non è sospendendo le sessioni di
    laurea come è stato fatto a Genova che si risolve
    qualcosa. “Infatti – continua Verzillo –
    ora là ci sono decine di studenti che devono
    aspettare sei mesi per laurearsi”. La Gelmini
    ha detto che sta lavorando alla stesura di
    un piano programmatico per l’università, cosa
    che un comunicato di Clds ha definito “timidi
    segnali positivi”. Da qui si riparte, secondo
    Verzillo: “E’ necessario che tutti facciano
    la loro parte e si assumano le proprie
    responsabilità: governo, ministro, rettori e
    comunità accademiche”.

    www.ilfoglio.it di oggi

    saluti

  10. #10
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    Predefinito L'Università dei somari

    Agli esami per magistrati abbiamo scoperto schiere di laureati che riempiono i loro temi di «ogniuno», «comuncue», «l’addove», «un’altro», «qual’è» e «risquotere».
    Un altro laureato tristemente celebre, Raffaele Sollecito, processato a Perugia per la morte di Meredith, nel suo memoriale scrive: «Il bagno è sporco ho chiesto che venghino a pulirlo».
    Ricevo il curriculum di una laureata in Scienza della Comunicazione alla Sapienza che si candida a lavorare come giornalista che comincia così: «Denoto un grande interesse per il mondo del giornalismo...». Denoto? Io denoto, tu denoti, egli denota interesse? E vuol fare la giornalista?
    Sempre meglio della sua collega, pure lei laureata, che ha scritto: «L’attore all’ungandosi verso la finestra...».

    E dunque: laureati? O l’aureati?
    In questi giorni gli studenti di alcuni atenei hanno provato a inscenare proteste.
    Fallite.
    In corteo quattro gatti e un megafono, tutti gli altri in classe a studiare.
    Ma studiare cosa? Quanto? Come? E con che profitto?
    Cercheranno, nelle prossime settimane, di far montare la protesta anche qui, in facoltà. La sinistra ha voglia di Sessantotto, e il Sessantotto non partì proprio dagli atenei? Il paradosso è che quarant’anni fa la rivolta, che si rivelò sciagurata, cominciava da un principio sano: quello di cambiare un sistema universitario che non funzionava.
    Ora, invece, chi scende in piazza, quel sistema che non funziona, lo vuole conservare.
    Ma sì, vuole conservare quest’Università, cioè l’Università dei concorsi bloccati, della parentopoli, degli scandali dei baroni.
    L’Università delle lauree vendute e dei testi falsificati.
    L’Università truccata, come rivela in un bel libro della Einaudi, il professor Roberto Perotti, docente della Bocconi: l’Università che nelle classifiche internazionali finisce dietro quella delle Hawaii, che spende più di tutto il resto del mondo (16mila dollari per ogni studente contro i 7mila degli Usa) ma non dà risultati scientifici né una formazione adeguata.
    L’Università che, grazie alle sue inefficienze, premia le élite e, contrariamente a quello che si crede, punisce i ceti meno abbienti: solo l’8 per cento degli universitari italiani proviene dalle fasce più basse contro il 13 per cento degli Stati Uniti.
    Ma non erano i costosi Atenei americani il simbolo dell’anti-democrazia educativa?

    Oggi vi raccontiamo l’ultima scoperta: all’Università di Como ci sono 24 docenti per 17 studenti.
    Un bel record, non vi pare? Ma da qualche giorno il Giornale (e solo il Giornale, come spesso accade) sta denunciando questa strana situazione dei nostri atenei che alzano la voce per lamentarsi dei tagli, dimenticando i loro sprechi. In sei anni le Università hanno moltiplicato i corsi di laurea: da 2444 a 5400.
    E non tutti utilissimi, si direbbe a prima vista.
    In effetti oggi si può diventare dottori, tanto per dire, in scienza dell’aiuola, in mediazione dei conflitti, in tecnologia del fitness, in scienza del fiore e in benessere animale.
    Manca solo il corso di laurea in raffreddore dei suini e quello in filosofia delle oche e poi il quadro sarebbe completo.

    Ma poi che sbocchi danno queste facoltà? E chi le frequenta? Tenetevi forte: trentasette corsi di laurea in Italia (dicasi: 37) hanno un solo studente, a questi vanno poi aggiunti altri 66 corsi che hanno meno di sei studenti. Ma vi pare possibile? Tenere in piedi un corso di laurea e relative spese per un unico studente? O per due o tre? E poi le Università si lamentano dei tagli... A Siena hanno collezionato un buco di 145 milioni, non pagano le tasse dal 2004. Poi vai a vedere i bilanci e scopri che, per esempio, l’oculato ateneo spendeva 150mila euro l’anno per affittare alcune stanze di lusso con affaccio su piazza del Campo: inutile tutto l’anno, certo, ma nei giorni del Palio, sai che goduria...

    Mario Giordano www.ilgiornale.it 19 10 08

    Non sottovalutatelo il problema "scuola".
    Detto in parole povere...ma chiare.... una scuola del cazzo prepara insegnanti del cazzo....che formeranno insegnanti del cazzo e via così fino a quando si riesce a interrompere la caduta.
    E poi servono anni e anni per tornare "Scuola".

    saluti

 

 
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