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    Predefinito Capitalismo italiano, capitalismo antinazionale

    Gianfranco La Grassa - 5.05.2009
    Ripensare Marx

    1. Prima o poi sarà necessario che qualcuno riscriva la storia del capitalismo italiano nel novecento, e della Fiat in particolare. Credo ci si ricordi della foto di Valletta e di Giovanni Agnelli (il nonno dell’Avvocato) in fez e camicia nera. Tuttavia, erano fascisti obtorto collo, avrebbero preferito un Governo Giolitti-Turati (un centro-sinistra ante litteram) quale garanzia migliore per gli interessi della loro azienda. Si dovrebbe seguire tutto l’iter della creazione dell’IRI; dopo un anno di “rimessa in carreggiata” dell’industria (con la solita “socializzazione delle perdite”), Beneduce, incaricato da Mussolini, offerse agli imprenditori privati (fra cui “quelli della Fiat”) di riprendere in mano la situazione. Con grande “preveggenza” (cioè assoluta miopia e scarsa propensione all’imprenditorialità “schumpeteriana”) costoro rifiutarono; si dice volessero, per soprappiù, sovvenzioni onde non rischiare proprio nulla. Da lì partirono le fortune dell’industria statale italiana e delle grandi banche (statalizzate) che poi, a guerra finita e con l’aggiunta di quel pezzo rilevantissimo che fu l’Eni e più tardi l’Enel, sono state promotrici importanti del nostro sviluppo industriale e base forte del potere democristiano e, successivamente, del centrosinistra.
    Sarebbe interessante sapere quale parte abbia eventualmente avuto la Fiat nel colpo di Stato monarchico-badogliano del 25 luglio 1943 con cambio di alleanze dell’Italia. Nel dopoguerra, questa azienda – diretta da imprenditori che nulla volevano rischiare, e quindi costantemente sorretta con finanziamenti pubblici e costruzione di infrastrutture necessarie a sviluppare il trasporto di persone e merci su ruota, mentre assai meno si faceva per quello su rotaia – fu uno dei principali gruppi dominanti a spingere il paese alla subordinazione all’area “atlantica” (Usa). Nel contempo, essa fu all’avanguardia nel reprimere duramente ogni lotta operaia (“reparti confino” e altri ammennicoli). Quando le convenne, fece l’accordo sulla “scala mobile” (1975), che teneva conto dell’indice del costo della vita (sempre più basso rispetto al reale) e non invece dell’andamento del Pil e della produttività del lavoro. Nell’80 favorì la “marcia dei quarantamila” (quadri) per contrastare la troppa “ingordigia” di Pci e Cgil. Infine, al “crollo del muro”, irretiti i piciisti dalla prospettiva di salvarsi dal tracollo “socialistico” divenendo i migliori servitori degli Usa e della nostra Confindustria, furono favorite le privatizzazioni decise nell’incontro sul panfilo Britannia. Il processo di esaurimento di ogni residua nostra autonomia, facilitato fra l’altro da una specie (anomala) di colpo di Stato (d’ordine giudiziario e non politico-militare), vide la Fiat sempre all’avanguardia del capitalismo antinazionale italiano. Famosa la frase di Agnelli che, grosso modo, suonava così: nulla di meglio della sinistra se voglio difendere i miei interessi di destra (in realtà dei gruppi capitalistici subdominanti rispetto a quelli statunitensi predominanti).
    La Fiat è stata dunque nell’intero dopoguerra la capofila dell’industria “decotta” italiana (quella, cioè, delle passate “rivoluzioni industriali”) e dei nostri istituti finanziari, “weimarianamente” asserviti a quelli statunitensi; per tutto un periodo storico, prima della recente crisi, la finanza americana ha avuto come sua “punta di lancia” la Goldmann Sachs (si vedano in youtube le dichiarazioni rese a Unomattina da Cossiga in merito alla nomina a Governatore della Banca d’Italia di un vice-presidente di tale istituto americano, dichiarazioni contro le quali, per semplice salvaguardia della propria onorabilità, qualsiasi altro personaggio avrebbe mosso querela per diffamazione grave, gravissima).
    Il colpo di mano del 1992-93 fu fatto, soltanto in parte, fallire dall’intervento in politica di Berlusconi (certo per difendersi, non per “nobili scopi”). Tuttavia, non si è mai più sanata la situazione di grave dipendenza del capitalismo italiano; già sussistente, sia chiaro, dalla fine della guerra mondiale, ma con qualche capacità autonoma di manovra (in specie verso il mondo arabo e nei Balcani). Pur se va ricordato che la più forte azione indipendentista fu quella promossa dall’Eni (impresa “pubblica”) durante la direzione di Mattei; e se questi fu eliminato, appare ovvio che la mafia, tirata spesso in ballo, è stata al massimo la fornitrice della “mano d’opera”. Se, come tutti hanno sempre pensato, l’incidente di Bescapè non fu affatto un incidente, è difficile credere che non ci fossero nel regime politico italiano, e anche dentro la stessa Eni, determinate “quinte colonne” filo-americane. Comunque, di questo non si saprà più nulla. Resta il fatto che dopo l’incidente la nostra autonomia, già ridotta, diminuì ancora; non si annullò però completamente fino al 1992-93. Dopo di allora, il capitalismo “privato” italiano, il cui nocciolo era la GFeID (con capofila la Fiat e la Confindustria da questa influenzata pesantemente), fu sempre più apertamente antinazionale.
    Per difesa direi quasi personale, Berlusconi ha messo più volte i bastoni fra le ruote a tale blocco capitalistico reazionario, che si è rivolto alla sinistra nel tentativo di prevalere infine nettamente (con Prodi sembrò quasi farcela). Il lavoro detto autonomo, le PMI, perfino settori sempre più rilevanti dei salariati (indagini appena effettuate dall’Ipsos Sole24ore sull’orientamento elettorale danno il 60% degli operai favorevoli al centrodestra, mentre la sinistra prevale solo tra studenti e insegnanti), pur senza alcuna consapevolezza di quanto stava (e sta) accadendo, hanno di fatto aiutato Berlusconi a difendersi, ma per i “fatti propri”, da questi vampiri e sanguisughe del nostro paese.
    Anche gli unici lembi “pubblici” dell’industria italiana, in particolare l’Eni che per ragioni geo-economiche è necessariamente “volta ad est”, sono difesi da pochi settori politici contro le manovre della GFeID, particolarmente devastanti per l’autonomia del nostro paese. Quale esempio preclaro, teniamo ben presenti i reiterati tentativi di scorporare la rete di distribuzione da quella di produzione della nostra azienda energetica, al fine di indebolirla fortemente e lasciarla completamente in balia degli interessi “privati” (cioè degli imprenditori succubi delle strategie statunitensi). Non solo la sinistra, ma buona parte della destra, sono schierate per la più supina acquiescenza agli Usa (acquiescenza di cui è preciso sintomo, fra l’altro, l’indegno atteggiamento sempre filoisraeliano perfino di fronte alle peggiori azioni di quello Stato); il grosso degli schieramenti attuali – se non si avvia un processo inverso a quello di mani pulite, ma di carattere apertamente politico senza “surrogati” d’altro genere – non potrà che restare asservito all’antinazionale apa (accolita per azioni) del capitalismo italiano.
    Dal punto di vista delle sedicenti “leggi del libero mercato”, la Fiat era e resta un’impresa decisamente fallimentare. L’operazione Fiat-Chrysler (con propaggini verso la GM) si basa su un finto “piano industriale”. L’operazione è condotta con non particolare furbizia, ma trova conniventi le forze economiche, politiche, giornalistiche, ecc. – salvo rarissime eccezioni che, proprio per questo, vanno encomiate senza fare gli schizzinosi con i soliti facili “da che pulpito….” – per cui non vi è dubbio che tutta l’opinione pubblica italiana casca nel tranello; e così pure buona parte di quella europea. Il “piano” è al 100% politico, si inquadra nel mutamento di strategia degli Usa dopo che quella apertamente “imperiale” – dei due Bush e di Clinton – è ormai accantonata per un periodo di tempo non predeterminabile, ma credo non breve. Questo è il significato dell’elezione di Obama, un’altra operazione vergognosamente osannata dalla sinistra e da buona parte della destra; una pura operazione di immagine (come fu quella di Kennedy). Mentre si tratta in realtà di un uomo che rappresenta ambienti particolarmente reazionari, con uomini di punta legati a quella finanza contro cui si tuona ufficialmente, attribuendole tutta la responsabilità della crisi (altra operazione “pubblicitaria”, di distorsione della realtà, cui si prestano perfino laidi residui “radical” e “marxisti”).
    Da un certo punto di vista, l’operazione che gli Usa conducono tramite la Fiat non pare avere l’ampiezza strategica di quella tentata nel 1992-93 con lo scopo di asservire completamente questo nostro povero paese. Tuttavia, quel gigantesco inganno e manipolazione dell’opinione pubblica italiana non ebbe alla fine un grande successo; e mai ha condotto alla sedicente “seconda Repubblica”, bensì solo a quella “una e mezzo”. Il fallimento dipese da due motivi, su cui sbagliarono i loro calcoli i “complottardi”. Innanzitutto, la maggioranza elettorale, che aveva sempre votato per il centro-sinistra Dc-Psi, non poteva rassegnarsi a regalare il governo ad uno schieramento incentrato sui “nemici di sempre”, per quanto questi avessero rinnegato ogni cosa possibile e immaginabile (e persino l’inimmaginabile). Inoltre, gli “sciocchi” – probabilmente proprio istigati dalla Confindustria, con a capo la solita Fiat – fecero l’errore (eccesso d’arroganza) di voler distruggere imprenditorialmente Berlusconi, considerato forse ancora un residuo del “craxismo” e quindi, malgrado il suo smaccato filo-americanismo, non fidato al fine di ridurre tutta l’economia del paese – e l’attività dell’intera forza lavoro: dipendente e “autonoma” – a forziere da rapinare per coprire i buchi delle proprie operazioni fallimentari, prive di qualsiasi progetto di reale sviluppo; meno fidato perfino di quei falsoni dei rimasugli di sinistra “estrema” che, per ingannare i nostalgici della “falce e martello” e del “movimento dei lavoratori” (ormai in emigrazione, per fortuna, verso tutt’altra parte), hanno per anni giocato agli “antimperialisti” antiamericani.
    Adesso, comunque, è presto per ben valutare il pericolo di ulteriore depauperamento e sottomissione dell’Italia alla nuova, più subdola, manovra statunitense, che si serve per i suoi scopi dei nostri falliti industriali (la finanza è già abbondantemente subordinata perfino negli uomini che ne stanno a capo). I raggiri condotti dagli Usa nel Caucaso, in Pakistan e Afghanistan e anche in Sud America (malgrado i finti sorrisi e le false strette di mano tra Obama e Chavez, ecc.), sono sintomo della maggior pericolosità di questa Amministrazione rispetto alle precedenti, più scoperte e “sincere” nella loro prepotenza a tutto tondo. La Fiat – fallita in quanto impresa – è ormai legata mani e piedi alle sorti di questa nuova politica statunitense; adesso si presta a fare pure da testa di ponte in Germania con il tentativo in direzione della Opel. Anche tale manovra politica, al seguito di una potenza straniera, è presentata come pura “operazione di mercato” (dalla stessa Merkel, che ha impresso alla politica tedesca, già da anni, una decisa virata in senso filo-Usa).
    Si sostiene che la Fiat forse dovrà cedere la Iveco per reperire soldi. Anche se simile operazione venisse realizzata, sarebbe solo per mascherare l’assoluta politicità del nuovo ruolo assunto dall’azienda torinese in quanto “sicario” della politica “obamiana”. Il ricavato della vendita Iveco, se questa vi sarà, verrà strombazzato da “venduti” ambienti economici, partiti e stampa italiani (e stranieri) come dimostrazione che tutto si gioca nel pieno rispetto del “libero mercato”. Va denunciata questa vile gentaglia ormai solo mercenaria degli Stati Uniti. In Germania sembrano esserci maggiori ostacoli che in Italia, in specie presso dati settori economici e politici (di cui fa parte l’ex cancelliere Schroeder), che naturalmente agiscono pure loro per precisi interessi. Questo può turbare soltanto gli sciocchi (o imbroglioni) che predicano scopi “ideali”. Qui si sta giocando la sorte di un’area che, dopo almeno tre secoli recitati da attore principale nel proscenio della storia, dal novecento (soprattutto nella seconda metà) ha cominciato ad entrare nel “cono d’ombra”. Oggi, però, si sta esagerando con la riduzione dell’Europa a puro zerbino degli Usa nella loro lotta contro le potenze emergenti. Soprattutto indigna il ruolo che meschini e falliti ceti dirigenti, guidati da questa vetusta azienda del “superato” settore automobilistico, vogliono assegnare all’Italia: quello del più servo di tutti i paesi europei.
    A fronte della Fiat – in quanto semplice, e forse modesto, avamposto delle nuove “orde obamiane” – si erge l’Eni e poco più. La stessa Finmeccanica ha troppe cointeressenze con gli Usa, pur se potrebbe comunque diversificare maggiormente la sua area di mercato. In ogni caso, i nostri interessi vengono calpestati soprattutto dalle mene condotte – in area europea (sempre con la “buona scusa”, di cui si presenta la pura veste economico-mercantile, di diversificare le fonti di approvvigionamento di energia), ma per conto delle nuove “aggiranti” manovre statunitensi ai fini del predominio mondiale – contro il Southstream (Eni-Gazprom con “allungamenti” verso la Noc libica e la Sonatrach algerina) e in favore del Nabucco, progetto patrocinato dagli Usa perché volto a danneggiare la potenza russa. Interessantissimo seguire al proposito tutte le oscure e lambiccate manovre statunitensi verso il Caucaso (servendosi soprattutto del Turkmenistan), verso la Turchia (che si cerca di rabbonire appoggiandola nei suoi desideri di entrare in Europa malgrado il “broncio” di Francia e Germania), perfino verso l’Iran, tentando di impedire possibili alleanze con Russia (e Cina) e con ciò sollevando ostilità e diffidenza in Israele, ecc.
    Tuttavia, non cadremo nel puro economicismo. Senza dubbio, dal punto di vista della classe dirigente finanziario-industriale e per interessi di potere con però chiara impronta economica, esistono in Italia due schieramenti: uno, quello dei servi antinazionali, capeggiato (di nuovo, dopo i brutti colpi, squalificanti, presi dall’apparato finanziario) dalla Fiat, l’altro capeggiato dall’Eni. La situazione non è per nulla rassicurante. Così come non è rassicurante che, tutto sommato, il secondo schieramento (oggettivamente nazionale) abbia qualche appoggio politico in più negli ambienti – non a caso tanto denigrati da intellettuali e giornalisti di sinistra, i peggiori, ma anche da buona parte di quelli di destra – che vengono dati per “berlusconiani”; e contro cui si usa di tutto, perfino i fatti della vita personale. Non credo ci si possa fidare di un Berlusconi. Non certo per quel che dicono i vermiciattoli di sinistra: meschini, venduti, immorali, privi di qualsiasi dignità. Non ci si può fidare soltanto perché certi ambienti sono labili, risentono di come muta il vento, stanno attenti solo a quei vantaggi che, alla fine e dopo tanti anni di denigrazione e calunnia (e persecuzione giudiziaria), potrebbero magari essere offerti sulla base di nuovi inganni, di più accorti aggiramenti delle posizioni, di “serpenteschi” sorrisi e strette di mano; tutto il nuovo armamentario dell’infida strategia americana, sempre tesa alla supremazia mondiale, oggi come e più di ieri. Bush era un “rozzo cowboy”; Obama è un “rettile” che cerca di ipnotizzare le sue vittime, strisciando loro tutt’intorno in sinuosi avvolgimenti per poi colpire di scatto scaricando il suo veleno.
    Qui non bastano le mire economiche delle nostre aziende, pur se alcune, come già detto, sono ormai in pieno gioco di svendita degli interessi nazionali, mentre altre li difendono. Occorre una vera durissima forza politica che non usi più pietà verso i traditori e i venduti, quelli che ci pugnalano alle spalle, pagando fior di marmaglia intellettualoide – vergognosi economisti, (in)esperti finanziari, politologi, perfino filosofi che ormai sono dei puri venditori di noccioline (americane) – per incamminarci verso l’abisso del più puro abominio. Ammetto che una forza politica simile non si vede; eppure non si deve smettere di invocarla, è ormai necessaria più dell’aria (inquinata) che respiriamo. E, se dovesse venire, dovrà usare metodi “esemplari”, più di ogni altra volta nella nostra storia; poiché mai, come questa volta, gli odierni ceti dirigenti italiani hanno toccato un simile fondo di ignominia servile e di svendita del paese, accettando perfino di fare da testa di ponte (d’oltreatlantico) per piegare alla torbida strategia statunitense anche altri paesi europei (certo in combutta con una parte non irrilevante dei loro gruppi dominanti, altrettanto verminosi dei nostri).

    http://sitoaurora.altervista.org/glg/capitalismo.htm

  2. #2
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    Predefinito Riferimento: Capitalismo italiano, capitalismo antinazionale

    «Edoardo Agnelli martire sciita»
    A Teheran circola la storia dell'erede convertito all’Islam «che non si suicidò, ma fu ucciso perché l’impero Agnelli non finisse nelle mani d’un musulmano» STRUMENTIVERSIONE STAMPABILEI PIU' LETTIINVIA QUESTO ARTICOLO
    «Riaprite l’inchiesta su Edoardo Agnelli». A Teheran, se faranno il sit-in di protesta davanti all’ambasciata italiana, gli studenti dell’università Imam Sadegh promettono d’alzare le foto d’un giovane magro, dinoccolato, il bastone in pugno, che negli anni Novanta veniva spesso a trovarli. Poco più in là, nel Museo dei martiri dell’Islam, sezione dedicata alle reliquie degli shahid stranieri e di chiunque nel mondo abbia fatto qualcosa per la Causa, sono anni che un ritratto-altarino dedicato all’erede Fiat e un custode chiacchierone raccontano ai visitatori la più famosa delle leggende metropolitane sul «sionismo italiano »: la storia di Edoardo convertito all’Islam «che non si suicidò, ma fu ucciso perché l’impero Agnelli non finisse nelle mani d’un musulmano».

    Le foto di Edoardo Agnelli scattata in Iran
    La diceria è salita al rango di notizia martedì, quando a rilanciarla è stata un’agenzia di stampa vicina al presidente Mahmoud Ahmadinejad, la Fars. A propagandarla in Italia ha provveduto il sito www.edoardo.ws, corredato di foto e di documenti attribuiti al defunto, del tutto privo di testimonianze dirette.
    E’ una vicenda che muove da un fatto, l’unico risaputo: la tormentata religiosità del figlio dell’Avvocato. Che (raccontano fonti iraniane) un giorno si presentò all’ambasciata degli ayatollah a Roma e, riconosciuto, ottenne d’incontrare Khomeini nella città santa di Qom. Che qualche anno più tardi tornò a Teheran per un venerdì di preghiera con Khamenei. Che infine avrebbe lasciato molti scritti infervorati: «Possa Allah guidarvi, proteggervi, essere sempre con noi... Non ci sarà una nuova religione dopo l’Islam».
    Fin qui l’Agnelli che cercava un Dio, ovunque fosse. Ma dove comincia il «martirio»? Quando Edoardo precipita dal viadotto di Fossano, 15 novembre 2000, in Iran gl’integralisti si decidono: bisogna costruire il mito. L’anno successivo, una troupe tv viene in Italia per un’inchiesta. Immagini dal luogo della morte, riprese ai cancelli Fiat, memorie di studenti islamici in Italia e d’un hojatoleslam che aveva certificato la conversione: tutto per sostenere come l’Agnelli islamizzato fosse stato «emarginato dal ramo sionista degli Elkann». Una guerra per l’eredità, è la tesi, che nascondeva una guerra di religione.
    Il documentario oggi è un cult movie della tv iraniana, spesso replicato in prima serata e venduto in dvd. Nessuna prova. Ed è ormai un’aureola anche per chi lo girò: l’antivigilia di Natale del 2001—eravamo in piena emergenza 11 settembre —, i quattro della troupe furono fermati a Roma mentre facevano riprese nei pressi del Vaticano. Interrogati per capire chi fossero. Trattenuti 24 ore. Consegnati all’ambasciata iraniana. Rimpatriati senza troppe spiegazioni. Niente di meglio, per accusare l’Italia di voler censurare la verità. E gridare in piazza, ora che serve: visto che non è una leggenda?
    Francesco Battistini
    03 novembre 2005

  3. #3
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    Predefinito Riferimento: Capitalismo italiano, capitalismo antinazionale

    Edoardo Agnelli (parte prima)






    Giovedì, 15 novembre 2000, ore 10:05 del mattino, mentre Carlo Franchini, vice direttore della rete dei trasporti Torino-Savona, come ogni giorno si trovava sull'autostrada di Savona a svolgere il suo compito quotidiano, si accorge di una Fiat Croma, color grigio, abbandonata a quasi metà del ponte romano, sulla corsia di destra, con i fari ancora accesi e gli sportelli aperti e senza nessuno dentro. Lui all'inizio pensa a un difetto tecnico e quindi all'autista che per lui si era allontanato a piedi per andare a chiamare l'officina che distava poco. Ma quando il personale dell'officina gli dicono che nessuno gli si era rivolto a chiedere aiuto, comincia a credere che doveva essere successo qualcosa di poco gradevole. Franchini ritorna sul posto e scavalca le sballe laterali del ponte alte un metro e mezzo ed è lì che vede, sotto il ponte, il cadavere di un uomo con la faccia in giù. Lui chiama immediatamente le pattuglie della polizia. Il fatto è che per poter raggiungere sotto il ponte, che si chiama Piccola Boscaglia, bisogna percorrere una lunga strada, attraversando campi coltivati e vignetti. Ore undici; la polizia è già presente sulla scena. Il viso dell'uomo è gravemente ferito, ma la carta d'identità trovata nella tasca della sua giacca, conferma che si tratta di Edoardo Agnelli, figlio unico del senatore Giovanni Agnelli, padrone di Fiat e Juventus. Nicola Cavalieri, questore di Torino, è andato personalmente a Lingotto, sede centrale di Fiat, a informare il padre di Edoardo, il quale parte immediatamente con il suo elicottero personale, arriva sul posto e identifica il proprio figlio. Si tratta della famiglia Agnelli e quindi vengono inviati subito diversi gruppi di giornalisti per saperne di più sull'accaduto. Riccardo Bovson, procuratore speciale che si trova lì per le indagini, dice ai giornalisti che non si conoscono ancora le cause dell'incidente e che la polizia avrebbe continuato le proprie indagini. Ma sembra che le indagini di cui parlava il procuratore fossero fatte in modo proprio non approfondite perchè la salma di Edoardo, prima del mezzogiorno, viene trasferito al vicino cimitero di Fossano e lì il medico di turno, pur affermando l'esistenza delle ferite sulla testa e sul petto, rilascia il certificatio di sepoltura senza eseguire l'autopsia.

    Nel pomeriggio nello stesso giorno la salma di Edoardo viene portato a Villa Prosa e il mattino dopo, quando sua madre era già rientrata da New York, viene seppolto in presenza della famiglia Agnelli e senza che fosse presente qualche giornalista. Lo stesso giorno è stato ufficialmente dichiarato il suicidio di Edoardo e tutto ciò mentre Edoardo non aveva lasciato nessun indizio. Lui, la mattina del giorno dell'accaduto, aveva parlato con un tono più che normale con uno degli zii e come di consueto, prima di uscire di casa, aveva ricordato al cuoco il piatto che avrebbe dovuto preparargli per il pranzo. Edoardo Agnelli naque il 6 giugno 1954 a New York. Suo padre, Giovanni, era proprietario del gruppo Fiat. Edoardo frequenta la scuola elementare di San Giuseppe a Torino e poi continua al colleggio di Atlantico in Inghilterra e dopo aver conseguito il diploma, va all'università di Prinston negli Stati Uniti dove continua gli studi in filosofia e religioni fino al dottorato. La ricchezza della famiglia agnelli è tale che i media d'Italia la descrivono come stirpe reale italiana. Il gruppo Fiat fu fondato dal nonno di Edoardo quasi un secolo fa a Torino e oggi è considerato uno dei principali pilastri dell'economia italiana. Ma il gruppo è soltanto una parte della ricchezza della famiglia Agnelli, a cui bisogna aggiungere le case automobilistiche di Lancia, Lamborghini, Alfa Romeo, Ferrari ed Iveco più numerose banche, aziende e società di moda e vestiti, quotidiani come La Stampa, il Corriere della Sera, la società calcistica di Juventus. Ma non dimentichiamo che questa famiglia è anche tra i maggiori azionisti di numerose ditte civile e edile, una fabbrica di elicotteri ecc… addirittura, il ponte generale Franco Romano sotto cui è stato trovato il cadavere di Edoardo, era costruito da una delle aziende di proprietà di suo padre. Gli esperti di economia stimano più di 60 miliardi di dollari il reddito annuale della famiglia Agnelli che è praticamente tre volte quello che la Repubblica Islamica dell'Iran ottiene tramite la vendita del suo petrolio. Ma Edoardo, che era unico erede naturale di tale ricchezza, sin da quando era molto giovane si vedeva che non era interessato a controllare la ricchezza della famiglia come lo voleva suo padre. Lui aveva studiato filosofia e religioni, il chè non c'entrava per niente con Fiat e l'industria automobilistica e quindi dedicava molto spesso il proprio tempo a leggere, attività umanitarie e viaggio.

    La società calcistica di Juventus era l'unica parte della ricchezza della famiglia a cui Edoardo presentava una certa attenzione. Lui aveva una certa passione per il calcio ed era proprio per questo che a metà degli anni ottanta prese in mano il controllo di una parte della società calcistica che circa un secolo prima fù fondata dai suoi antenati. Edoardo il 20 aprile del 1986, quando la squadra dei bianco neri faceva gli ultimi sforzi per vincere la Roma dentro lo stadio di Olimpico a Roma, entra nel campo e passa 45 minuti insieme all'allenatore e ai giocatori della Juve. Lui, anche prima, era stato tra coloro che aveva abbracciato Michel Platini a Tokyo nell'85 mentre quest'ultimo teneva in alto la coppa dei campioni. Ma lui, nonostante l'interesse che dimostrava per la Juve, fù licenziato dal suo carico e suo zio Umberto occupò il suo posto. Edoardo passò il decennio novanta senza occuparsi di qualche responsabilità. Era praticamente isolato e quindi passava il tempo leggendo, viaggiando e occupandosi di attività umanitarie. A causa dell'importanza della famiglia Agnelli, la notizia della morte di Edoardo, sin dal primo momento e per qualche giorno, era tra quelle più importanti. Il primo ministro e alcuni ministri d'Italia si sprimevano le loro condoglianze, le due squadre d'Italia e d'Inghilterra fecero un minuto di silenzio come segno di rispetto per Edoardo, personaggi sportivi, giornalisti e addittura gente comune, parlando con le sei reti televisive e i giornali, ricordavano Edoardo. Il titolo principale della maggior parte della stampa italiana era dedicato proprio a lui, mentre migliaia di siti web diffondevano la notizia della morte di Edoardo. I media descrivevano Edoardo come uno sensibile, isolato, timido, drogato e addirittura malato. Ma tra tale quantità enorme di notizie fu pubblicato una piccola notizia su un sito web che conteneva delle cose nuove. Questa notizia riguardava l'annuncio di una formazione di nome L'Associazione Islamica dei Laureati in Italia, in cui si leggeva che Edoardo era stato un musulmano sciita e uno degli ammiratori dell'imam Khomeini e che non si era suicidato ma era stato ucciso dai sionisti come un martire. Ma nonostante ci fossero delle informazioni nuove riguardo Edoardo in quell'annuncio, le quali erano state inviate anche a tutte le agenzie di stampa e media importanti, nessuno di essi ne fece cenno. Ma quali potrebbero essere le motivazioni per confermare tutto ciò?

    Sembra che il primo contatto di Edoardo con la Rivoluzione Islamica dell'Iran, risalga al periodo immediato post rivoluzionario, quando lui vide nella tv italiana l'intervista realizzata con il dottor Ghadiri Abianeh che allora era l'addetto di stampa nell'ambasciata iraniana a Roma e quindi decise di rivolgersi all'ambasciata per incontrarlo. Il dottor Hossein Abdollahi era l'amico iraniano più vicino a Edoardo Agnelli. Hossein e il suo fratello Isac avevano studiato al politecnico di Torino e 20 anni fa attraverso L'Associazione Islamica degli Studenti in Italia conobbero Edoardo. Questi due fratelli per via del loro forte rapporto sincero con Edoardo, erano al corrente di molti suoi problemi. il dottor Hossein Abdollahi oggi vive a Madrid. L'hojjatoleslam Ghaffari, ex ambasciatore della Repubblica Islamica dell'Iran presso il Vaticano, è colui che 20 anni fa rilasciò per Edoardo il certificato della sua conversione all'Islam. Il signor Hedjazi durante uno dei suoi viaggi in Italia e tramite i ragazzi dell'Associazione Islamica, conobbe Edoardo e più tardi quando Edoardo fece un viaggio in Iran, lo portò a incontrare l'imam Khomeini. L'ayatollah Hashemi Rafsanjani nella pagina 42 del suo libro intitolato Attraversare la crisi fa un breve riferimento all'incontro tra l'imam Khomeini e Edoardo Agnelli. Il signor Hedjazi e il figlio del patron della Fiat durante l'incontro con l'imam Khomeini parlarono di quello di cui gli studenti islamici all'estero avevano bisogno. Rafsanjani racconta che il suddetto incontro ebbe luogo in un sabato nella primavera del 1982 ed erano presenti anche l'ayatollah Khamenei e il signor Ahmad, figlio dell'imam. In quel incontro, l'imam Khomeini baciò il fronte di Edoardo. Egli a causa della posizione finanziaria e politica della sua famiglia, aveva incontrato parecchi leader politici e religiosi del mondo, ma incontrando l'imam Khomeini, rimase intensamente colpito dalla semplicità, dalla moralità e dal carattere di quest'uomo. Bisogna dire che quest'incontro trasformò praticamente la vita di Edoardo. L'interesse di Edoardo verso l'imam era talmente grande che Igor Man, noto giornalista ebreo italiano, parecchio tempo dopo la morte di Edoardo, in un suo articolo pubblicato su La Stampa, senza accennare al fatto che Edoardo si era convertito all'Islam, parlò della grande ammirazione di Edoardo nei confronti dell'imam e cercò di insinuare che Edoardo soffriva di problemi psichici e di depressione e che era per questo motivo che voleva bene all'imam Khomeini.

  4. #4
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    Predefinito Riferimento: Capitalismo italiano, capitalismo antinazionale

    Oggi Torino è la più importante città dell'Italia settentrionale, una città industriale che deve una gran parte della propria importanza agli Agnelli. La famiglia Agnelli è una delle più vecchie a Torino e la maggior parte di fabbriche e aziende in questa città è di loro proprietà. La sede centrale della Fiat è a Torino e molti cittadini sono dipendenti di questo gruppo. La Villa del Sole è situata su una collina nella parte residenziale ricca di Torino; una villa grande e splendida che è considerata la casa principale degli Angelli, dove Edoardo subì le più dure pressioni perchè cambiasse le sue opinioni. Edoardo nel corso di anni fu minacciato, disprezzato, privato dalle normali possibilità di vita e addirittura imprigionato e tutto ciò era solo una parte di problemi che egli dovette affrontare. Nel corso degli anni, Edoardo, anche se per via della sua particolare situazione aveva preferito non svelare il suo essere musulmano, ma era rimasto ugualmente sensibile riguardo i problemi del mondo islamico. Egli durante la guerra nei Balcani e lo sterminio dei musulmani in Bosnia, fu molto attivo e tra le sue note personali, ci sono molte lettere in cui parlava proprio di tale tragedia. Una di quelle è la lettera che lui scrive nel 1992 all'allora presidente francese, Francois Mitterand. Edoardo comincia la lettera criticando duramente la politica dei paesi occidentali nel riconoscere ufficialmente le repubbliche indipendenti di Croazia e Slovenia e parla anche dei problemi del mondo islamico, continuando con la politica estera inglese e in fine chiede a Mitterand di assumere un politica diversa nei Balcani, cercando di aiutare il disarmo dei gruppi armati in Yugoslavia. L'interesse di Edoardo verso l'islam, insieme ad altri pensieri, diede la possibilità al padre per capire che lui non era l'erede ideale per la ricchezza dell'impero familiare. In realtà Edoardo aveva scelto la strada che lo allontanava dalla dirigenza del gruppo Fiat giorno per giorno, ma lui non ne dava nessuna importanza. Verso la fine degli anni '80, il consiglio d'amministrazione della Fiat si mise a discutere sulla scelta di chi avrebbe dovuto sostituire il senatore Giovanni Agnelli. La dirigenza del gruppo bocciò Edoardo per tale posizione, perchè lo riteneva inadeguato a causa della sua visione religiosa. Ma siccome si trattava dell'erede principale e non uno qualsiasi, avrebbero dovuto trovare una certa scusa per potere convincere l'opinione pubblica. Fu proprio in quel periodo quando accadde l'incidente di Malindi la cui notizia venne diffusa in larga scala dai media di cui una parte era di proprietà del padre di Edoardo. Nell'ottobre del 1990, i media diedero la notizia dell'arresto di Edoardo Agnelli nella città balneare di Malindi in Kenya con l'accusa di avere in possesso, 300 grammi di eroina. Un fatto del tutto falso di cui la polizia keniota se ne accorse molto presto l'errore commesso e in seguito un tribunale del Paese africano lo assolve immediatamente. Però ormai il materiale necessario per nutrire i media era stato fornito. Alcuni della stampa lo chiamarono perfino trafficante di stupefacenti, insinuando il fatto che l'assoluzione di Edoardo era dovuta all'influenza del gruppo Fiat. Lo stesso Edoardo nel 1992, in una lettera indirizzata a Paolo Mieli, direttore del quotidiano La Stampa, contesta le propagande mediatiche errate che venivano diffuse contro lui. Anche se alcuni della famiglia della stampa avevano confessato in modo limitato di aver sbagliato su Edoardo, però con il diffondersi delle dicerie, l'opinione pubblica era già matura per accettare qualcuno che non fosse Edoardo per la dirigenza della Fiat. All'inizio degli anni '90 il consiglio d'amministrazione della Fiat, eliminando Edoardo, scelse il cugino di quest'ultimo, Giovanni Umberto, some sostituto del senatore Agnelli. Edoardo voleva bene a suo cugino, perciò non solo non obiettò tale scelta bensì gli scrisse una lettera in cui si congratulò con lui per il nuovo incarico e gli consigliò di stare attento con gli appassionati del denaro.

    Nel 1977 la famiglia Agnelli dovette affrontare una tragedia: Giovanni Umberto morì a 36 anni per un cancro sconosciuto. Qualche giorno dopo, il consiglio d'amministrazione della Fiat si radunò un'altra volta per scegliere il nuovo sostituto e questa volta fù eletto John Iacci Alkan, nipote ventenne di Edoardo. L'unica sorella di Edoardo si era sposata due volte; la prima con un ebreo sionista e la seconda con un principe cattolico russo. Da entrambi i matrimoni ebbe dei figli e il primogenito era del padre sionista. La scelta affrettata del sostituto del senatore Agnelli lasciò fortmente giù di morale Edoardo che, a differenza della volta precedente, decise di rompere il silenzio e addirittura porsi contro alcuni membri della sua famiglia, i quali avevano intenzione di cambiare il cognome di Alkan in Agnelli. In un'intervista rilasciata al quotidiano Il Manifesto della sinistra italiana, quindi politicamente contro suo padre, Eduardo contestò fortemente questa decisione. La reazione di Edoardo nei confronti della propria famiglia provò che aveva deciso di difendere ad ogni costo il proprio diritto di impadronirsi dell'eredità. Tutto ciò mentre i suoi oppositori di famiglia non avevano nessuna scusa per privarlo. Negli ultimi due anni, Edoardo cercava perfino di mischiarsi negli affari della Fiat, incontrava i membri del consiglio d'amministrazione e criticando il loro modo di fare, li parlava delle proprie idee; il consiglio però non dava mai importanza a tutto ciò. Questo sforzo aveva duramente preoccupato una parte della famiglia e probabilmente il ritrovamento del suo cadavere il 15 novembre 2000 era dovuto proprio a questa preoccupazione. Il giorno dopo, il giudice dichiarò che si era suicidato mentre invece esistono molti indizi che negano questa probabilità. Apparentemente si trattano di indizi ignorati volontariamente dal giudice. In base alla testimonianza dei suoi amici che erano stati in contatto con lui fin pochi giorni prima della sua morte, Edoardo psicologiamente si trovava in buone condizioni. Inoltre per un musulmano fedele il suicidio sarabbe stato una cosa impossibile. C'è da prendere in considerazione che Edoardo non aveva assolutamente cambiato i suoi punti di vista religiosi, addirittura nell'ultima settimana della sua vita aveva deciso seriamente di imparare l'arabo per comprendere meglio i concetti coranici. Oltre a tale motivazione, tecnicamente molti fatti negano il suicidio, contrariamente a quello che si diceva. Il dottor Marco Bava, uno degli amici piu' intimi di Edoardo, ha svolto molte indagini sull'accaduto. In base agli indizi, Edoardo è stato portato al martirio in un'altra località e poi trasferito sotto il ponte con la propria auto. A 40 Km da Torino e sulle splendide pendici delle Alpi c'è un bel piccolo villaggio chiamato Villa Prosa, messo su dagli Agnelli, per dare alloggio agli operai della fabbrica S.K.F. Sulle colline che danno sul villaggio, si trova la villa degli Agnelli con dentro una chiesa e un cimitero. Sul punto più alto del cimitero c'è una piccola chiesa che in realtà è considerata il sepolcro familiare degli Agnelli, dove Edoardo è sepolto come un crisitano.

    Vedi il clip

  5. #5
    Tringeadeuroppa
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  6. #6
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    Claudio Moffa



    L'attualità di Mattei

    Testo scritto in occasione dell'inaugurazione
    del Master Enrico Mattei in Vicino e Medio Oriente
    27 ottobre 2008
    http://www.mastermatteimedioriente.i...iattualità.pdf

  7. #7
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    due alternative per il capitalismo di stato e patriottico.

  8. #8
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    Don Curzio Nitoglia - Mattioli e Cuccia
    http://www.doncurzionitoglia.com/mattiolcuccia.htm

  9. #9
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    Enrico Mattei, italiano “pericoloso”
    Maggio 11, 2009 di byebyeunclesam

    http://byebyeuncles am.wordpress. com/2009/ 05/11/enrico- mattei-italiano- pericoloso/



    Gli scorsi 3 e 4 maggio, un significativo successo di ascolti ha caratterizzato la messa in onda da parte della Televisione di Stato – a quasi quarant’anni di distanza da “Il caso Mattei” di Francesco Rosi – di un film in due puntate diretto da Giorgio Capitani. Il titolo è “Enrico Mattei. L’uomo che guardava al futuro” e ne è produttrice, con la collaborazione dell’archivio storico dell’ENI, la Lux Vide di Ettore Bernabei, un amico fraterno di Mattei.
    Secondo sir Ashley Clarke, ambasciatore britannico a Roma, il fondatore dell’ENI aveva obiettivi molto chiari. Il primo era di “dominare la distribuzione dei prodotti petroliferi in Italia” mediante un controllo sulle fonti. Un modo per garantire al suo Paese scorte sufficienti di greggio, necessarie all’industria petrolifera nazionale ed allo sviluppo industriale. Sia perchè le grandi compagnie petrolifere angloamericane costituivano oggettivamente un impero capace di influenzare la politica e la finanza su scala planetaria, sia perchè nella sua tempra di uomo tutto d’un pezzo, la sua personale lotta contribuiva ai suoi ideali di patria e di dignità nazionale.
    Ma l’obiettivo di evitare la dipendenza petrolifera dai britannici e dagli americani non era un affare di poco conto. Innanzi tutto per le sue implicazioni geopolitiche.
    Basti pensare che l’Italia rivestiva la duplice funzione di centro nevralgico dell’anticomunismo in Europa e di controllo delle risorse energetiche del Vicino e Medio Oriente. Una partita alla quale dai primi anni Quaranta partecipano, da un lato, grandi compagnie come la Standard Oil Company per gli USA e la Shell per la Gran Bretagna, con i suoi dominions in Iraq, Transgiordania ed Egitto; dall’altro, l’Unione Sovietica, artefice di una politica di espansione ideologica e di alleanze strette con gli Stati emergenti dalla lotta anticoloniale.
    Quello che temevano le potenze angloamericane non era solo la messa in discussione degli equilibri che regolavano il controllo delle fonti energetiche nel mondo così come era uscito dalla seconda guerra mondiale, ma anche e soprattutto gli elementi di disturbo o di attacco all’ordine geopolitico già dato, mediante l’attivismo di personaggi come appunto Enrico Mattei. Egli mirava a raggiungere una totale sovranità per il nostro Paese o, come diceva A. Jarratt, funzionario del Ministero dell’Energia britannico, “l’autarchia petrolifera” nei Paesi in via di sviluppo, guarda caso in gran parte ex colonie di Sua Maestà.
    Il 7 agosto 1962, in un documento indirizzato allo stesso Jarratt, qualcuno riferisce quanto avrebbe detto Mattei in una conversazione privata: “Ci ho messo sette anni per condurre il governo italiano verso un’apertura a sinistra. E posso dirle che mi ci vorranno meno di sette anni per far uscire l’Italia dalla NATO e metterla alla testa dei Paesi neutrali [Non Allineati]”. Mancava poco più di un anno alla nascita del primo governo di centro-sinistra guidato da Aldo Moro…

    Qui vogliamo segnalare anche l’ottimo lavoro del documentarista Fabio Pellarin, “Potere & petrolio. La sfida di Enrico Mattei”, dvd coprodotto da Istituto Luce e Croce del Sud Cinematografica, con la consulenza storica di Simone Misiani (docente di Storia Economica presso l’Università di Teramo), Marcello Colitti (consulente petrolifero, già stretto collaboratore di Mattei) e Giuseppe Accorinti (Amministratore delegato Agip Petroli ed attualmente Presidente della scuola Mattei).
    Il documentario, avvalendosi di materiali del Luce e soprattutto di filmati d’epoca provenienti dal ricco archivio dell’ENI, ripercorre la vita pubblica di Mattei, ma senza indagare sull’attentato che ne causò la morte nell’ottobre 1962, con la caduta dell’aereo privato che lo riportava a Milano dalla Sicilia. “Non dimentica però – come sottolinea l’autore – che il tribunale di Pavia, riaprendo il caso nel 1994, è giunto alla conclusione che in quell’aereo ci fu un’esplosione provocata da una bomba”.
    Giusto per ricordare la fretta con cui la penna di Indro Montanelli tentò di liquidare la questione con “l’insaziabile voglia di giallo” degli italiani. A chi scriveva articoli contro di lui, a cominciare proprio da Montanelli, Enrico Mattei non aveva l’abitudine di rispondere. Preferì pubblicare i 35 volumi intitolati ‘Stampa e oro nero’ in cui furono raccolti, rigorosamente senza replica, i continui attacchi della stampa atlantista.

    __._,_.___

 

 

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