Bene, bravo ma scelgo un altro


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di Sabina Minardi
In Italia il merito non viene premiato. Nella scuola. Come pure nella vita professionale. In uno studio la diagnosi impietosa dei 50 migliori laureati italiani





Quell'estate passata sui test di Medicina per finire ammesso alla facoltà di Giurisprudenza. E quella volta che i compagni copiarono e presero per beffa un voto più alto. Il professore che dava 30 e lode a chi per tutto l'anno faceva sì dai primi banchi. E l'esame che era un terno al lotto solo per tenere alta la fama del docente.

Non è un paese per bravi. Lo sapevamo, ma ora arriva una nuova conferma. E non da sfaticati cronici inclini alle giustificazioni. Ma dai più bravi di tutti: i 50 migliori neolaureati italiani selezionati dalla scuola di specializzazione Alma Graduate School di Bologna, in occasione del Best 2008 (Bologna Experience for Superior Talents), l'iniziativa che assegna cinque borse di studio ai più talentuosi in assoluto. Ragazzi di 23-24 anni che il merito lo hanno visto riconosciuto e premiato. E che per questo hanno la credibilità necessaria a un resoconto ancora più disincantato.

Il risultato è l'indagine 'Il merito e le regole': fotografia di un'eccellenza di giovani, diversi per provenienza e per studi, concordi però sul fatto che il sistema formativo valorizzi poco o per nulla il merito. Che un mix di furbizia e accondiscendenza verso il docente siano più utili dell'effettiva preparazione. E che l'intero sistema dell'istruzione sia poco trasparente.

"Che in Italia il merito non sia un valore di riferimento è cosa nota", dice Massimo Bergami, docente di Organizzazione aziendale e direttore della Scuola: "Ma la situazione non è così generalizzata: ci sono ambiti nei quali la creatività, il talento, la capacità di innovare trovano il modo di imporsi. Nel sentire comune, tuttavia, il merito è poco valorizzato. Ed è necessario riportarlo al centro dell'attenzione. Servono regole chiare: se sono esplicite sin dall'inizio, fisse, tutto funziona. Ma se non ci sono, o sono troppe, o non trasparenti, è normale che si ricorra alle scorciatoie. Con un senso di ingiustizia per tutti".

Raccomandazioni, favoritismi, meccanismi baronali nella costruzione delle carriere. La cultura del compromesso si è fatta strada nella società. E ora i ragazzi ne affrontano la convivenza con un gigantesco realismo: contano le raccomandazioni? Decisamente sì per il 58 per cento. Il sapersi arrangiare? Altrettanto: dice l'86 per cento. Obbedire, per fare carriera? Moderatamente per il 28,6 per cento; molto per il 40 per cento; moltissimo per il 14,3 per cento. Nelle aziende sono preferiti criteri di selezione diversi dal merito? Sì, dice il 57 per cento. L'Italia, in generale, è orientata al merito? Per nulla, risponde il 35,7 per cento. Poco, insiste il 45,2.

"Dipende dalle università e dalle facoltà: ma le discriminazioni ci sono, e spesso", dice Alberto Grimod di Aosta, laureato in Ingegneria al Politecnico di Torino e tra i 5 premiati: "A me non è mai capitato di viverle, ma mi sento un'eccezione: i 'figli di', i raccomandati sono sempre favoriti. Del resto, lo vediamo nel mondo professionale: per perpetuare il potere, chi è al vertice assegna il lavoro senza tenere in gran conto il merito". L'83,3 per cento degli intervistati sottoscrive: dicendosi d'accordo sul fatto che l'attuale classe dirigente non abbia convenienza ad applicare il criterio del merito. "La meritocrazia non è conveniente", ribadisce Rita Contini, di Cagliari, laureata in Economia: "Ho visto riconosciuti i miei meriti. Ma ho l'impressione che un'esperienza così positiva non sia tanto frequente".

Tratto comune, la sensazione di privilegiati, in uno scenario generale di disfunzioni e malcontento. "Ci sono docenti con poca voglia di fare, difficilissimi da cacciare", racconta Silvia Piovesan, di Castelfranco Veneto, laurea in Economia a Venezia: "In più, i corsi sono troppo brevi per darci il tempo di individuare i più bravi insegnanti, e quelli che potrebbero essere per noi anche dei modelli umani".

"Io, anzi, ero il più ottimista", dice Francesco Tarantino, ingegnere informatico di Palermo: "Ma la maggior parte dei miei compagni era demoralizzata. Anche perché copiare nei compiti è un'abitudine diffusa. Si va all'esame tentando la sorte. Ci si presenta con cellulari, libri, fotocopie: al massimo, ti buttano fuori. Ma la punizione finisce lì. E poi è evidente la disomogeneità nei criteri di valutazione da università e università: dai bonus, che in certi casi valgono di più, ai criteri per la lode".