....commossi insieme

In fondo El Alamein, che in arabo vuol dire due bandiere, è solo un imbuto, una strettoia di gole nel deserto dopo chilometri di nulla, e a un passo da Alessandria d’Egitto; l’imbuto dove è finita una battaglia furibonda lunga 12 giorni, l’imbuto stretto che ha frenato l’offensiva più importante della Seconda guerra mondiale, l’imbuto strettissimo in cui è passata la storia del ’900.
Oggi, se vai a cercare il sacrario di Alamein vedi solo una distesa di sabbia e cespugli che comincia nel nulla e improvvisamente finisce nel mare.
In mezzo due torri:
la prima è il mausoleo dei caduti italiani, la seconda è la residenza di Paolo Caccia Dominioni, ingegnere, militare, scrittore, l’uomo che passò 14 anni nel deserto a ricercare le salme degli italiani dispersi.
Quattordici anni e sette ascari saltati per aria sulle jeep, nei campi ancora minati.
In fondo El Alamein è solo un imbuto, l’imbuto dove ieri si sono trovati un presidente della Repubblica post-comunista e un ministro della Difesa post-missino.
Davanti al sacrario, ogni anno si ritrovano 14 diverse nazionalità e divise e bandiere, tutti gli eserciti che lì si batterono fino all’ultimo uomo.
Quest’anno il turno dell’Italia assegnava a Napolitano il discorso più importante.
E il presidente, di fronte a una platea molto speciale, che univa anche gli ultimi dieci superstiti della battaglia, ha tenuto un discorso forte, intenso e brevissimo.
Dieci minuti in cui Napolitano ha commosso i militari e i sopravvissuti di quella battaglia.

Ha iniziato subito con un riconoscimento e una distinzione molto importante: «Le generazioni che non hanno conosciuto la guerra, che hanno vissuto nella nuova Europa via via unitasi nella pace e nella democrazia, debbono rispetto e riconoscenza, sempre, ai tanti che caddero in questa terra e a quanti combatterono, da entrambe le parti, onorando le loro bandiere».

Qui un brivido percorre gli anziani, il più giovane ha 80 anni, con in mano i labari e le vecchie uniformi. Il discorso di Napolitano non è formale, sotto un sole a picco, fa una pausa e dice:
«Comandante, dia il riposo».
Il battito dei tacchi sull’impiantito è il primo rumore che si sente dopo la tromba del Silenzio. La suggestione è grande. Napolitano prosegue:
«Il nostro rispetto e la nostra riconoscenza sono tanto più grandi quanto più riconosciamo le condizioni in cui i combattenti furono chiamati a operare, tra sofferenze e sacrifici».
Poi, il passaggio più delicato:
«Tutti furono guidati dal sentimento nazionale e dall’amor di patria, per diverse e non comparabili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale».
Il presidente ribadisce il concetto ancora meglio.
«La causa in nome della quale erano stati chiamati a battersi, fino a immolare le loro vite fra le dune di questo deserto, gli appartenenti alle forze armate dell’asse nazifascista apparve, a partire da quei mesi del ’42, votata alla sconfitta. Una sconfitta che non avrebbe gettato alcuna ombra sui valori di lealtà ed eroismo dei combattenti italiani e tedeschi, ma che fu dovuta non solo alla soverchiante superiorità di mezzi e di uomini dell’opposto schieramento - e qui c’è un altro passaggio decisivo -, ma alla storica insostenibilità delle ragioni, delle motivazioni e degli obiettivi dell’impresa bellica nazifascista. Tutto questo è oggi e da un pezzo alle nostre spalle: ma non va dimenticato».

Il sole è a picco, fa caldo, ma né il presidente, né i superstiti sembrano farci caso. Le parole di Napolitano dipanano il filo della prospettiva storica:
«È giusto dire che i veri sconfitti, anche sulle sabbie di El Alamein, furono i disegni di aggressione e dominio, fondati perfino su aberranti dottrine di superiorità razziale, che avevano trovato nel nazismo hitleriano l’espressione più virulenta e conseguente».
Il discorso è quasi alla fine, l’excursus di Napolitano si chiude con un apprezzamento per la nuova Europa delle democrazie uscita dalla catastrofe della guerra mondiale:
«Abbiamo dato vita a un’autentica comunità di valori, fra i quali hanno primeggiato quello della pace, di una cultura della pace basata sulla ricerca paziente di soluzioni negoziate per le controversie internazionali».

Il calendario prosegue. Quando la porta si apre, il padrone di casa della residenza che fu di Caccia Dominioni è il saggista Arrigo Petacco. Una visita ai locali, insieme alla first lady, al ministro La Russa, alle autorità dell’esercito e perfino ai ragazzi della scuola del Cairo.
Professori, militari, divise, il clima è informale, quasi festoso.
Napolitano scherza con i ragazzi, fa la foto con loro. I corazzieri impugnano i telefonini. In fondo El Alamein è un imbuto della storia, e ieri un presidente post-comunista e un ministro post-missino hanno celebrato una delle tragedie del nostro esercito con una riflessione condivisa, ma senza retorica.

LuTel www.ilgiornale.it 26 10 08

Non è retorica....mi sono messo sull'attenti per salutare tutti quei morti e per ringraziare il Capo dello Stato per quello che ha detto.
Grazie, Presidente!

saluti