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    Predefinito FORMAZIONE - Conservatori e neoconservatori negli Stati Uniti

    Conservatori e neoconservatori

    di Adam Wolfson


    Il neoconservatorismo è diventato l'argomento del giorno. Ma esiste davvero? E se esiste, che cos'è? Che cosa c'è esattamente di "nuovo" nel neoconservatorismo, e in che modo si differenzia da altre correnti del pensiero conservatore americano? Qual è l'influenza politica esercitata oggi dal neoconservatorismo? E' a quest'ultima domanda che tutti vorrebbero dare una risposta. Eppure, non si può valutare l'influenza del neoconservatorismo sulla Casa Bianca di Bush se non si è prima raggiunta una corretta comprensione di ciò che è, e di come si distingue dal vecchio conservatorismo.

    Fino a poco tempo fa, si pensava che la forza del neoconservatorismo si fosse esaurita. Pochi intellettuali si definivano ancora "neocon", e quest'etichetta non compariva quasi mai nei dibattiti politici o nei media. I due più autorevoli esponenti del neoconservatorismo avevano entrambi dichiarato che la definizione aveva perso il suo significato e la sua utilità. Nel suo libro "Neoconservatism: The Autobiography of an Idea", pubblicato nel 1995, Irving Kristol poneva questa domanda: "Dove sta oggi il neoconservatorismo?", e dava questa risposta: "E' chiaro che ciò che si può a ragione definire l'impulso neoconservatore è stato un fenomeno generazionale, ora in gran parte riassorbito in un conservatorismo più ampio e di vasta portata". Un anno dopo, in un discorso all'American Enterprise Institute, Norman Podhoretz ha dichiarato con enfasi che "il neoconservatorismo è morto".

    Nel corso dell'ultimo anno, tuttavia, e soprattutto nei mesi che hanno preceduto la guerra in Iraq, la definizione di neoconservatorismo è rientrata sulla scena delle nostre discussioni pubbliche e politiche. "Sono i neocon il cervello che opera dietro la decisione di rovesciare Saddam presa da Bush", ha scritto Jacob Heilbrunn sul Los Angeles Times, aggiungendo: "senza di loro non si parlerebbe così tanto di guerra". I neocon sono anzi diventati l'obiettivo preferito delle critiche della sinistra e della destra pacifiste. Sebbene John Judis e Patrick Buchanan possano avere ben poco in comune, e sebbene Christopher Mattews e Paul Craig Roberts non abbiano la stessa opinione quasi su nulla, tutti concordano sul fatto che la guerra in Iraq sia stata in qualche modo il frutto dell'ideologia neoconservatrice. E l'interesse suscitato dal neoconservatorismo non è affatto diminuito: "I Neocon in prima linea" titolava un recente articolo di Newsweek; "I Neocon assumono il controllo" era il titolo di un altro pubblicato sul New York Review of Books. L'aspirante presidente Howard Dean ha dichiarato in campagna elettorale che il presidente Bush "è stato preso prigioniero dai neoconservatori che gli stanno attorno".

    All'inizio ho avuto la tentazione di considerare il ritorno del neoconservatorismo come un semplice spauracchio agitato dalla sinistra, o come una sorta di etichetta conveniente, usata dai giornalisti per sottolineare le evidenti spaccature all'interno dell'Amministrazione Bush. Entrambe le spiegazioni hanno un certo merito; tuttavia bisogna osservare che il neoconservatorismo non è mai del tutto scomparso, come viene spesso affermato. Il neoconservatorismo potrebbe rappresentare non un fenomeno generazionale ma soltanto una delle varie correnti fondamentali che animano il conservatorismo nel suo complesso. La definizione di neoconservatori è stata applicata a uno specifico gruppo di intellettuali che si sono spostati da una visione politica di tipo neo-liberal negli anni Sessanta e Settanta a quella poi nota con il nome di neoconservatorismo. Ma ora sembra che esso rappresenti, almeno in America, una naturale risposta del conservatorismo alla modernità; una risposta dotata di proprie qualità, formulata con un proprio stile, con tutte le sue forze e le sue debolezze.

    Gli elementi fondamentali del neoconservatorismo appaiono nel modo più chiaro se confrontati con quelli dei suoi due principali rivali all'interno del mondo conservatore: il libertarismo e il tradizionalismo (non mi dilungherò sui conservatori religiosi e sugli straussiani, dato che sono spesso alleati con i neocon e hanno contribuito alla formazione del neoconservatorismo). Queste tre tradizioni conservatrici (tradizionalismo, libertarismo, neoconservatorismo) hanno radici storiche e filosofiche ben distinte. Esprimendoci in termini generali, i tradizionalisti hanno il proprio modello in Edmund Burke, i libertari in Friedrich Hayek e i neocon in Alexis de Tocqueville. Tuttavia, ognuna di esse ha origine anche in qualcosa di più profondo ed elementare. Nessuno di noi può sottrarsi al proprio personale giudizio sulla moderna vita americana: sulle sue possibilità e sui suoi limiti, se sia rispettosa della dignità umana oppure alienante e corrotta. Chi disprezza una buona parte della nostra vita moderna, aggrappandosi agli antichi costumi ereditati dal passato, propende per il tradizionalismo. Altri, che festeggiano le nuove libertà e le nuove tecnologie, scelgono il libertarismo. E chi vede nella modernità ideali e principi ammirevoli, ma anche tendenze preoccupanti, opta per il neoconservatorismo.

    I Tradizionalisti

    Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, alcuni straordinari pensatori cercarono di adattare alla vita pubblica americana il conservatorismo tradizionalista à la Burke. Vennero presto definiti i "nuovi conservatori". Il più autorevole era Russel Kirk, autore, nel 1953, del best-seller "The Conservative Mind". Un modo senza dubbio troppo semplicistico, ma per i nostri scopi comunque sufficiente, di caratterizzare l'opera di Kirk sarebbe quello di dire che ha avviato una svolta tra i conservatori americani, allontanandoli da una filosofia borghese ispirata a Locke e avvicinandoli ad una moderatamente aristocratica ispirata a Burke. Nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale un tipico "conservatore" americano era infatti un liberal del XIX secolo: un fedele sostenitore del laissez-faire, dello sviluppo scientifico e, più in generale, del progresso. La rinascita di Burke che Kirk ha contribuito a rilanciare negli anni cinquanta ha fornito al conservatorismo americano una voce molto diversa. Non sarebbe stato più disposto ad accettare di essere il partito del "big business" o un difensore della società borghese. I tradizionalisti si unirono a Burke nel suo lamento che "l'èra della cavalleria è finita" e nella sua denuncia del "nuovo dominante impero dei lumi e della ragione".

    Per i "nuovi conservatori" il problema era rappresentato innanzitutto dalla moderna rapacità degli uomini, come dimostra questo brano tratto dall'opera classica di Kirk: "Lo spettacolo moderno di foreste scomparse e terre desertificate, di petrolio sprecato inutilmente, di debiti nazionali lasciati ad accumulare senza alcuna preoccupazione fino a livelli incontrollabili, di continue revisioni del diritto positivo, è una prova evidente dei danni che un'èra priva di qualsiasi venerazione causa a se stessa e a quelle future". Nella romantica descrizione che Kirk fa della cittadina di Beaconsfield, dove fu sepolto Burke, la difficoltà del tradizionalismo ad adattarsi alla moderna società di massa appare con grande evidenza: "Ben poco è cambiato qui: le solide case vecchie di quattro secoli, la piccola e pulita locanda, le grandi querce e le tranquille vie sono ancora le stesse dei tempi di Burke, anche se le villette e i nuovi sobborghi urbani di Londra affondano già i propri denti in Buckinghamshire e le piccole industrie stiano invadendo le città della zona. A Stoke Poges, a sole poche miglia di distanza, un enorme e orribile complesso edilizio di oppressiva monotonia si appoggia direttamente al muro del camposanto della chiesa principale. Ma la Città Vecchia di Beaconsfield è soltanto un'isola dell'antica Inghilterra nel mare industriale e proletario dell'umanità".

    Il progetto di Kirk non si indirizzava alla politica pubblica, ma era uno sforzo di definizione filosofica e di rinascita culturale. Prendendo Burke a suo modello, Kirk voleva spiegare al pubblico americano che cosa significava essere un conservatore e pensare in modo conservatore. Nel libro "The Conservative Mind" analizzò un'ampia serie di pensatori conservatori, da John Adams a Tocqueville e da Disraeli a Henry Adams. Era passato molto tempo da quando si insegnava ancora agli americani di studiare con serietà questi pensatori, e i numerosi scritti di Kirk hanno trasformato il panorama del conservatorismo americano. Nei suoi primi anni di attività, la rivista National Review è stata profondamente influenzata da modelli di pensiero tradizionalista, e per un certo periodo lo stesso Kirk vi collaborò. Il motto della rivista, scritto da William F. Buckley nel 1955, era una chiamata alle armi di ispirazione neo-burkeana, in cui si dichiarava che National Review "si alza in piedi di fronte alla storia, e grida: stop".

    Il desiderio di fermarsi, riflettere, riconsiderare e magari tornare indietro resta vivo all'interno dei circoli conservatori. Lo si può osservare nella difesa della famiglia tradizionale, nel rispetto delle antiche virtù e della sensibilità religiosa. Sul terreno pratico, appare evidente nell'idea tradizionalista che il governo federale abbia usurpato le prerogative delle comunità locali. Questi conservatori guardano con nostalgia ad un'America di piccole città e comunità strettamente legate, e diventano sempre più critici nei confronti di ciò che considerano il "conservatorismo del big government" sponsorizzato dal Presidente Bush.

    I Paleoconservatori

    Questo è il momento adatto per fare una breve digressione e dire qualche parola sui paleoconservatori, come sono stati definiti. Comunemente considerati gli eredi di Kirk e dei tradizionalisti, i paleoconservatori in realtà non sono d'accordo con quelli che Kirk definisce gli autentici principi conservatori. Non sono conservatori, quanto piuttosto reazionari o pseudo-radicali. Si può affermare con sicurezza che i paleocon disprezzano gran parte del moderno stile di vita americano e desidererebbero di superare in qualche modo gli attuali schemi del dibattito politico americano.

    I paleoconservatori sono rimasti praticamente sconosciuti al pubblico fino agli anni Novanta, quando Patrick Buchanan si è fatto campione di molte loro idee nel suo tentativo di dare nuova forma al partito repubblicano. L'obiettivo di Buchanan non era quello di restaurare un più antico ideale conservatore, bensì di avviare una riforma della destra. Nel 2000, ha mostrato chiaramente le sue intenzioni radicali uscendo dal partito repubblicano e presentandosi come candidato del Reform Party. "Con questa campagna elettorale", ha dichiarato, "intendo ridefinire il significato della parola conservatore". Il conservatorismo à la Buchanan è, nel settore della politica economica, contro la liberalizzazione del commercio e contro la globalizzazione; in quello della politica sociale, contro l'immigrazione e per la protezione del diritto alla vita; in quello della politica estera, isolazionista. Tuttavia, nonostante le sue rigide posizioni sul diritto alla vita e i suoi frequenti richiami religiosi, Buchanan è stato rifiutato tanto dalla leadership quanto dalla base del conservatorismo religioso. Può anche avere dichiarato una "guerra religiosa" per il cuore e l'anima della nazione, ma i conservatori religiosi non lo hanno appoggiato. Nelle primarie repubblicane si sono schierati con il presidente Bush nel 1992 e con il senatore Robert Dole nel 1996, benché fosse ben noto che nessuno dei due appoggiava particolarmente l'agenda politica della destra religiosa. I mezzi di informazione in larga misura non si accorsero dell'importanza di queste alleanze, che danneggiarono notevolmente le prospettive elettorali di Buchanan. Il programma politico dei paleocon, a quanto sembra, è più idealista e donchisciottesco di quanto sembri a prima vista, e la destra religiosa è più borghese di quanto si creda comunemente.

    Lo stesso termine di paleoconservatori è fuorviante. A differenza dei tradizionalisti, i paleocon sostengono che siamo ormai irrevocabilmente tagliati fuori da una tradizione viva e sostenibile. A loro giudizio, i veleni della modernità hanno corroso gli antichi usi e costumi, e il progetto di conservazione elaborato dal conservatorismo non è altro che una scintillante illusione. Sono quindi partiti alla ricerca di nuovi dèi. Thomas Fleming, direttore della rivista paleocon Chronicles: A Magazine of American Culture, si è rivolto alla sociobiologia, alla teoria evolutiva e all'antropologia, modelli niente affatto tradizionali tra i conservatori. Paul Gottfried, altro autorevole teorico paleocon, ha cercato una soluzione nella filosofia di Carl Schmitt e in altre ideologie storiciste. Samuel Francis, editorialista politico di Chronicles, ha invocato una "opposizione radicale al regime". Nel frattempo, Gottfried, nel suo libro "The Search for Historical Meaning", ha parlato con simpatia di un ritorno agli "eroi spirituali che elevano la civiltà illuminando con la loro luce il terreno dell'essere". In un altro suo libro, "The Conservative Movement", Gottfried ha riassunto così la posizione dei paleocon: "Sollevano questioni che sia i neoconservatori sia la sinistra vorrebbero lasciare chiuse nell'armadio, come, ad esempio, quelle sull'opportunità dell'uguaglianza sociale e politica, sull'utilità della riflessione sui diritti umani e sulla base genetica dell'intelligenza. In tutti questi assalti ai sentimenti di pietà liberal e neoconservatori, i paleocon rivelano una passione iconoclasta che non ha quasi mai caratterizzato gli intellettuali della destra post-bellica. Il loro animo è ispirato più da Nietzsche che dal neo-tomismo; e, come Nietzsche, vanno in cerca di idoli democratici, guidati dal disprezzo nei confronti di tutto ciò che considerano indegno della vita umana".

    I Libertari

    A differenza dei paleoconservatori e dei tradizionalisti, i libertari si trovano perfettamente a loro agio nel mondo di oggi. Si fondano su John Locke, Adam Smith, John Stuart Mill, e pensatori sociali del XX secolo come Friedrich Hayek. Lo spirito dei libertari non è né rivolto al passato né a un utopico futuro. E' progressista, e aspira ad un'estensione sempre maggiore della libertà economica e della scelta individuale. I libertari si oppongono praticamente a ogni forma di regolamentazione, nel settore del mercato come nel campo della morale.

    Si può discutere sul fatto se il libertarismo sia davvero una variante del pensiero conservatore. Hayek ha scritto un saggio per spiegare perché non era un conservatore, e Milton Friedman ha sempre ribadito di essere un liberal del XIX secolo, e non un conservatore. Ma ormai non ha più senso abbandonarsi a giochetti semantici e a polemiche su etichette e definizioni. Dagli anni Cinquanta ad oggi, il libertarismo ha costituito una importante e influente (se non la più influente) corrente di pensiero della destra, che ha profondamente inciso sulla formazione della politica repubblicana e dell'ideologia conservatrice nel suo complesso.

    L'influenza del libertarismo è evidente in modo particolare nell'opposizione conservatrice al Big Government. E qui l'importanza degli scritti di Hayek, soprattutto del suo bestseller del 1944 "The Road to Serfdom", è decisiva. Il libro fu scritto per rispondere all'ascesa dei totalitarismi nazista e sovietico, ma anche alla crescente popolarità della pianificazione economica e del pensiero socialista, che caratterizzava in quegli anni tutta l'Europa. Hayek suonava l'allarme: "Abbiamo gradualmente rinunciato a quella libertà negli affari economici senza la quale non è mai esistita, nel passato, la libertà personale e politica". Il suo obiettivo principale era il socialismo, ma le sue argomentazioni avevano portata più ampia. Nelle prefazioni scritte per questo libro nel 1956 e nel 1976, Hayek ha sostenuto che anche i Welfare States degli Usa e dell'Europa occidentale, in continua espansione, avrebbero necessariamente portato al tramonto della libertà. Lo stesso concetto di "benessere generale" era sospetto ad Hayek, e in "The Road to Serfdom" lo ha denunciato come una nuvola di fumo dietro alla quale marcia il totalitarismo.

    Anche i tradizionalisti considerano con molto scetticismo il moderno Welfare State. Ma è la forma meno romantica, più analitica e politicamente orientata della critica libertaria che oggi domina nei think tank di Washington, come quelli del Cato Institute, dell'American Enterprise Institute e della Heritage Foundation. Predomina la loro preoccupazione per l'efficienza economica e la libertà individuale, e non il desiderio dei tradizionalisti di preservare lo spirito morale della vita di una cittadina. Nel 1994, Newt Gingrich è stato eletto Presidente della Camera dei Deputati grazie soprattutto alla sua campagna libertaria per tenere sotto controllo l'autorità regolamentativa del governo e le sue spese. E' stato il più grande trionfo politico del libertarismo. Il preambolo del "Contratto con l'America" impegnava il partito repubblicano a porre "fine ad un governo che è troppo esteso, troppo intrusivo e troppo generoso con il denaro pubblico". Nel suo discorso inaugurale come presidente della Camera, Gingrich ha consigliato agli altri membri del Congresso di "imparare dal settore privato: dalla Ford, dalla Ibm, dalla Microsoft". Qui possiamo rintracciare una causa della storia d'amore tra i tradizionalisti e le nuove tecnologie: vorrebbero modernizzare il governo per mezzo della tecnologia informatica e promuovere la ricerca della felicità umana per mezzo della biotecnologia.

    Il tradizionalismo e il libertarismo trovano un terreno comune su cui appoggiarsi, ed è proprio qui che emergono le prime differenze con il neoconservatorismo. Per i tradizionalisti e i libertari, in netto contrasto con i neocon, la politica ha un'importanza secondaria. Secondo i tradizionalisti, la cultura o la storia sono il fattore primario nella vita degli uomini; per i libertari è l'economia. Non sorprende che sembrino spesso avere ben poche affinità con la vita democratica. La caratteristica distintiva del neoconservatorismo può essere rintracciata nella sensibilità per la politica in generale e per la politica della democrazia in particolare.

    Il neoconservatorismo è quasi del tutto privo di quella nostalgia per un passato pre-industriale e pre-illuministico che caratterizza il tradizionalismo. Ciò non significa che i neocon sostengano un mercato senza regole o non sappiano apprezzare la nostra eredità morale e spirituale, come nel caso dei libertari. Al contrario, i neoconservatori condannano il progetto neoburkeano di Kirk per la sua totale inutilità. E' molto probabile che gli appelli alla tradizione come autorevole guida per la vita americana o come freno al cambiamento e all'innovazione non verranno ascoltati quasi da nessuno. E' vero che in America abbiamo le nostre tradizioni, ma sono per lo più di stampo democratico-liberale, come il nostro rispetto per i diritti individuali e la nostra venerazione per la salute e il benessere. Non c'è bisogno di avere vissuto in prima persona le nostre più recenti e turbolente trasformazioni culturali per riuscire a capire questa verità sulla democrazia americana. Già durante la sua visita in America negli anni Trenta dell'Ottocento, Tocqueville aveva osservato che gli americani "danno valore alla tradizione soltanto come fonte di informazioni".

    La politica à la Burke non è costruita con questa materia prima della cultura americana. In virtù del riconoscimento di questo fatto fondamentale della vita americana (ossia che praticamente tutto è in vendita e in continuo movimento), i neoconservatori credono, per parafrasare Tocqueville, che il nostro obiettivo deve essere l'educazione e la direzione della democrazia, anziché l'idea di superarla o, cosa altrettanto sconsigliabile, di disprezzarla, come fanno molti intellettuali conservatori. L'assioma politico di Burke era che, "quando vengono sottratte le antiche concezioni e regole di vita, la perdita è incalcolabile. Da quel momento in poi ci manca una bussola per mezzo della quale governarci". Per i conservatori questo è eccessivo. Pur senza condividere la fede illuministica nella ragione come nostra unica autentica bussola, i neocon sono convinti che, nell'èra democratica, le antiche concezioni non possono essere mantenute solo sulla base della loro autorità, ma devono essere difese e sostenute con una discussione aperta, e che le antiche regole, per continuare a valere, devono essere fatte appoggiare su un fondamento diverso da quello che si definisce con il termine di "prescrizione". La perdita è considerevole; ma anziché battere sconfitti in ritirata o condannare la democrazia tout court, i neoconservatori vanno alla ricerca di alternative democratiche per questi antichi modelli di vita. I neoconservatori sono consapevoli che la tradizione e i costumi, in se stessi, hanno ben poca presa su un popolo democratico, e perciò cercano altri mezzi per tenere la democrazia lontana dai suoi istinti peggiori.

    Almeno su questo punto i neocon e i paleocon sono parzialmente d'accordo: a differenza dei tradizionalisti, entrambi ritengono che il passato non sia più recuperabile. La domanda è quindi: partendo da qui, dove andiamo? Il lamento per la perduta tradizione conduce i paleoconservatori alla ricerca di nuovi dèi, nuovi eroi e nuovi miti. Pieni di disprezzo per ciò che considerano gli idoli democratici dell'uguglianza e del benessere, cercano non di salvare la democrazia da se stessa bensì di accelerarne il crollo, aprendo la strada a un'èra postmoderna e postdemocratica. Al contrario, i neoconservatori intendono dare nuova vita ai principi fondatori dell'America e al suo modello di vita democratico. Sono perfettamente consapevoli dei difetti della democrazia (le sue spesso basse aspirazioni e le sue tendenze alienanti), ma riconoscono anche la fondamentale giustizia dell'eguaglianza democratica. I neoconservatori cercano di garantire un'autentica libertà e dignità umana nell'èra in cui viviamo, l'èra democratica, e non in qualche utopia futurista.

    Libertà e Dispotismo

    Il realismo politico del neoconservatorismo, la sua insistenza sul fatto che le nostre analisi debbano avere come punto di partenza i concreti modelli di vita dei popoli democratici, non è mai equivalso a un semplice e incondizionato sostegno al capitalismo democratico. Una celebre frase di Irving Kristol è "Due hurrà per il capitalismo"; non tre. E' qui che passa la linea di demarcazione tra il neoconservatorismo e il libertarismo.

    Consideriamo ancora la questione del Big Government. Anche i neoconservatori sono stati estremamente critici nei confronti del welfare state, e soprattutto delle esagerate speranze che vi ripone la sinistra; ma le loro argomentazioni avevano una portata minore rispetto a quelle dei libertari. L'ostilità del neoconservatorismo per il welfare state non si è mai estesa, come nel caso del libertarismo, all'idea dello stesso bene pubblico. Mentre i libertari temono che il Big Government possa cancellare praticamente ogni libertà personale, i neocon vedono le cose diversamente. A loro giudizio, le democrazie tendono a incoraggiare la ricerca dell'interesse privato a scapito di tutto il resto; di conseguenza, è il benessere generale la più probabile vittima di una degenerazione.

    L'analisi del Big Government proposta da Hayek è sempre apparsa ai neoconservatori troppo semplicistica e persino un po' ingenua. I pericoli del dispotismo (hard o soft che sia) contro i quali Hayek metteva in guardia, sono allo stesso tempo più remoti di quanto credeva e più insidiosi di quanto immaginava. Quasi tutte le democrazie moderne hanno avuto un più deciso welfare state e un'economia più attenta al sociale che negli Stati Uniti, senza per questo raggiungere il "punto limite" nel quale si trasformano in regimi totalitari. In realtà, non esiste nessuna "strada" che, passando per il welfare state, conduca alla servitù.

    Ma questa buona notizia è messa in ombra da un problema molto più profondo, che Hayek e i suoi seguaci libertari non hanno individuato con sufficiente chiarezza, ma che è stato perfettamente descritto da Tocqueville. Questa svista è per certi versi sorprendente, dato, a detta di Hayek stesso, il filosofo francese era stato l'ispiratore immediato di "The Road to Serfdom". In un certo senso, Hayek non ha compreso le argomentazioni di Tocqueville sui pericoli per la libertà in un democrazia, essendo privo di quella esplicita cura e attenzione per la sfera pubblica che anima il suo predecessore.

    Come ci ha spiegato Tocqueville, è la stessa democrazia che favorisce la crescita del governo e minaccia la libertà. Il Big Government ha origini molteplici: i popoli democratici non hanno né la volontà né il tempo per occuparsi direttamente degli affari pubblici (essendo troppo indaffarati a seguire i propri), e quindi, nella loro apatia, lasciano le questioni di governo allo Stato. Anche il loro peraltro ammirevole orgoglio per la propria indipendenza alimenta la crescita dello Stato. A differenza del potere esercitato da un capo famiglia, da un magistrato locale o da un prete, l'autorità del governo, essendo più anonima, è nella gran parte dei casi meno offensiva, ed è perciò più facilmente accettata e tollerata in una democrazia. Anche il capitalismo democratico gioca un ruolo preciso. In periodi di uguaglianza, la classe media si espande e alla fine predomina. Le sue aspirazioni alle comodità e ai piaceri della vita diventano quelle della società nel suo complesso, così come la sua radicale opposizione a tutto ciò che possa mettere in pericolo la sua ricerca del benessere, sicché lo Stato viene visto in misura sempre maggiore come il garante della sicurezza e dell'ordine pubblico. Per tutte queste ragioni, concludeva Tocqueville, nelle democrazie gli uomini "amano per natura il potere centralizzato e ne estendono volontariamente le prerogative".

    Il Big Government è, per così dire, scritto nel dna politico della democrazia. Consapevoli di ciò, i neoconservatori ritengono che l'idea di combatterlo sia quasi del tutto fuori luogo. Il punto importante è sapere distinguere tra intromissioni del governo che sono semplicemente un'umiliazione per il cittadino e interventi che rappresentano una risposta naturale al senso di insicurezza della classe media. Il problema del welfare state non riguarda tanto la libertà politica quanto piuttosto lo spettro della corruzione morale. I neoconservatori si sono opposti all'AFDC (Aid to Families with Dependent Children), abrogato con la riforma del 1996, ma in generale sostengono un sistema della previdenza sociale (Social Security). Era infatti risultato chiaro che l'AFDC scoraggiava il lavoro e causava notevoli danni alla famiglia e all'istituzione del matrimonio, mentre, nonostante le spese maggiori, la previdenza sociale non può certo essere considerata uno svantaggio per le persone più anziane. Naturalmente, la forma di assistenza che viene scelta è di grande importanza per il risparmio e l'investimento nazionale e altresì per l'efficienza economica del paese.

    I neoconservatori sollevano obiezioni non soltanto contro la critica libertaria del Big Government ma anche contro la sua zoppicante comprensione della libertà. I libertari si schierano in difesa di ogni concepibile libertà tranne quella dell'autogoverno. Sono, caratteristicamente, di solito in favore dell'aborto, della legalizzazione delle droghe, della clonazione, ecc. Ma il "diritto di scegliere" è stato garantito, nell'America contemporanea, soltanto da una proibizione giuridica, che vieta agli individui di agire insieme per decidere sotto quali leggi vivere.

    Ora, i neoconservatori non sono certo una cerchia di moralisti. Su alcuni di questi controversi temi culturali, hanno la stessa probabilità di schierarsi "pro" oppure "contro". Per di più, la loro analisi tende a presentarsi in forma piuttosto pacata e colta; forse fin troppo, considerando ciò che è moralmente in gioco. I conservatori religiosi perdono spesso la pazienza per la moderazione di molti neoconservatori su questi temi di vitale importanza. Tuttavia, questa sorta di distacco non deve essere fraintesa come un'approvazione o un'incapacità di comprendere il vero significato della questione.

    Il neoconservatorismo è nato come reazione alla rivolta nichilistica della sinistra contro la moralità tradizionale e la religione. Per di più, i neoconservatori sono unanimi e compatti nella loro condanna del modo arrogante e arbitrario con cui i libertari mettono in atto i propri obiettivi politici. Si impedisce una discussione democratica, e il concetto simboleggiato dalla frase "Noi, il popolo" viene calpestato. Per i neoconservatori, la vera strada per la servitù è rappresentata dagli sforzi dei libertari e delle èlite di sinistra per cercare di imporre una politica sociale anti-democratica soltanto in nome della libertà. Ma quella che viene garantita è una libertà ristretta e privatizzata. La conseguenza è che viene scoraggiato l'affermarsi di un concreto e attivo interesse per gli affari pubblici. Tutto è permesso, tranne la possibilità di dire la propria nella formazione dell'ethos pubblico. L'ideologia libertaria trasformerebbe i cittadini in stranieri che vivono felicemente, anche se in modo distratto e indifferente, nel loro paese.

    I neocon al comando?

    In che cosa consiste, quindi, l'influenza politica del neoconservatorismo, e qual è il suo effetto sulla politica estera statunitense? Le politiche di George W. Bush, bisogna ammetterlo, presentano, come già quelle di Ronald Reagan, una certa sfumatura neoconservatrice. Durante le primarie, Bush criticò l'impostazione libertaria, dichiarando che "la crescita economica non è la soluzione adatta per ogni problema", e rifiutò l'idea di fondo che "se soltanto il governo si togliesse di mezzo, tutti i nostri problemi sarebbero risolti". Troppo spesso, disse Bush, "il mio partito ha dipinto l'immagine di un'America che degenera inesorabilmente in una sorta di nuova Gomorra". Contro questa visione, Bush propose l'idea del "conservatorismo compassionevole", da lui stesso definito come "il credo di un riformismo aggressivo e permanente. Il credo del progresso sociale". Il conservatorismo compassionevole, al pari di quello dei neocon, è tenuto con i piedi per terra dai difficili problemi e dalle specifiche illusioni dell'èra moderna, ma rimane cautamente ottimista nella convinzione che si possa ancora creare un futuro migliore. Una buona parte delle scelte di politica interna adottate da Bush, a cominciare dalle iniziative a sostegno delle fede fino alla sua creazione di una commissione sulla bioetica, sono in perfetta armonia con l'ideologia neoconservatrice.

    Ma è stata la guerra in Iraq che, più di ogni altra cosa, ha riportato alla ribalta i neoconservatori. I loro avversari dicono che i neocon hanno assunto il controllo della politica estera dell'Amministrazione Bush. A prima vista, è un'affermazione sorprendente. Il neoconservatorismo si è dedicato a questioni di politica interna, e non ha mai dato vita a un atteggiamento unitario in politica estera (esattamente come non ha mai fondato un proprio metodo di interpretazione costituzionale). Molti dei più autorevoli esponenti del neoconservatorismo (per fare solo qualche nome: Irving Kristol, Nathan Glazer, Daniel Patrick Moynihan, Norman Podhoretz e Jeane Kirkpatrick) hanno opinioni alquanto diverse sulle attuali questioni di politica estera. L'affermazione è sorprendente anche perché, prima delle elezioni presidenziali del 2000, molti neocon non appoggiavano con decisione Bush. I giornalisti del Weekly Standard, ad esempio, nelle primarie si schierarono a favore del senatore John McCain, e criticarono come troppo rigidamente "realiste" le posizioni di Bush in politica estera.

    Comunque, dalle elezioni ad oggi, molte cose sono cambiate, e c'è qualche elemento concreto per sostenere che la politica estera di Bush sia influenzata dal neoconservatorismo. Senza dubbio, non ha un grande appoggio da parte delle altre correnti del conservatorismo. I libertari e i paleocon hanno apertamente disconosciuto la politica estera di Bush, e sono stati tra i critici più feroci del presidente. I conservatori del Congresso, fautori di tagli al bilancio, si sono amaramente lamentati dei 20 miliardi di dollari richiesti da Bush per il progetto di nation-building in Iraq. E il conservatore di stampo tradizionalista George Will si è fortemente opposto alla nuova Dottrina Bush, da lui accomunata al neoconservatorismo. Will ha criticato i neoconservatori per il loro "zelo da crociata" in nome della democrazia, e li ha severamente bacchettati per la loro convinzione che, come dice lui stesso, "in politica, gli obiettivi morali siano imperativi universalmente applicabili". Ha anche paragonato i neocon ai rivoluzionari francesi e russi, in quanto condividerebbero con loro l'idea che "le cose ­ la società, la natura umana ­ siano più malleabili di quanto sono in realtà". Queste accuse sono fuori luogo, ma ci aiutano a capire più chiaramente quale sia la posta in gioco in queste dibattito.

    Nell'affrontare le sfide di politica estera degli anni Novanta, i neoconservatori si sono sostanzialmente divisi in due campi. Tutti i neoconservatori si sono opposti in modo compatto al neo-isolazionismo di Buchanan, al realismo amorale di James Baker e di Bush padre, così come all'umanitarismo cosmopolita dell'Amministrazione Clinton; ma si sono divisi sulle alternative. Alcuni, come William Kristol, Robert Kagan e Lawrence Kaplan, hanno sostenuto che il modo migliore per promuovere gli interessi nazionali dell'America è diffondere la democrazia in tutto il mondo. Hanno quindi appoggiato un deciso intervento americano nelle crisi del Kosovo, del Ruanda e di altre regioni; per certi aspetti, si può dire che siano degli "evangelisti democratici". Ma solo fino a un certo punto. A differenza dei liberal wilsoniani, non promuovono la democrazia soltanto in nome della democrazia stessa e dei diritti umani. Al contrario, la promozione della democrazia deve servire a rafforzare la sicurezza dell'America e a consolidare la sua supremazia mondiale; è concretamente e pragmaticamente connessa agli interessi nazionali degli Stati Uniti. I principi seguiti da questi neocon sono universalistici; ma questo non vale per la loro politica, che si mantiene alla larga dalle organizzazioni internazionali e assume posizioni nazionaliste e unilateraliste. I neoconservatori condividono anche certe preoccupazioni di politica domestica del tipo espresso da Tocqueville, come la convinzione che le democrazie siano impazienti e instabili nella conduzione degli affari esteri. A loro giudizio, solo una politica estera fondata su principi morali e sul presupposto dell'espansione democratica può favorire nel lungo periodo gli interessi nazionali dell'America.

    Nel frattempo, una nuova e sparuta banda di neoconservatori, il cui esponente più autorevole è l'editorialista del Washington Post Charles Krauthammer, ha elaborato una visione diversa. Anche loro appoggiano una politica estera attiva e fondata su principi precisi morali, ma non sono del tutto convinti che gli interessi nazionali dell'America coincidano perfettamente con la promozione della democrazia all'estero. Krauthammer, ad esempio, si è opposto all'intervento americano in Kosovo e in Liberia perché, a suo giudizio, vi era soltanto una vaga e debole connessione tra questi conflitti e i nostri interessi nazionali, per quanto vasti possano essere considerati. Per questi neoconservatori, l'ambizioso obiettivo di diffondere la democrazia in tutto il mondo è del tutto irrealizzabile. Credono anche, al contrario degli altri neocon, che missioni a scopo puramente umanitario, come quella del Kosovo, abbiano come risultato di allontare gli americani dalla politica estera e di alimentare sentimenti isolazionisti. Allo stesso tempo, anche questi neocon concordano sul fatto che gli interessi dell'America siano necessariamente quelli di una grande e potente democrazia. Per di più, questi interessi non si possono definire, a loro giudizio, in termini strettamente strategici, ma soltanto nel senso di un'affermazione delle nostre convinzioni democratiche, soprattutto quando queste stesse convinzioni si trovano minacciate. L'orgoglio per il nostro stile di vita democratico esige proprio questo.

    Ora, ben poco di questa visione della politica estera sembrava avere avuto un'effettiva influenza su George W. Bush e i suoi consiglieri, né durante le campagna elettorale né nel corso dei primi mesi del nuovo governo. Poi però c'è stato l'11 settembre. Non sembrano esserci dubbi sul fatto che, per loro stesso temperamento, il presidente e i suoi più stretti consiglieri preferiscano prendere l'iniziativa, anziché aspettare la prima mossa del nemico per reagire. Da un punto di vista concettuale, ritengono che il ramo esecutivo debba avere un atteggiamento energico, soprattutto negli affari esteri. Costretti ad affrontare una crisi senza precedenti, hanno trovato nel neoconservatorismo un'ideologia e una strategia cui affidarsi. In un articolo pubblicato nel 1996 su Foreign Affairs, William Kristol e Robert Kagan hanno sostenuto la necessità di "elaborare e perseguire attivamente politiche intese, in ultima analisi, a determinare un cambio di regime in paesi come l'Iran, Cuba e la Cina". Non hanno menzionato l'Iraq; ma dopo l'11 settembre le loro argomentazioni in favore del cambio di regime e della promozione della democrazia hanno trovato nuovi lettori nella Casa Bianca.

    Bisogna dire, tuttavia, che è facile esagerare, come avviene spesso, l'influenza dei neocon sull'Amministrazione Bush. Il concetto di intervento preventivo in difesa dei nostri diritti ha profonde radici nella cultura politica americana, e costituisce una caratteristica specifica di una teoria politica liberal ispirata alla filosofia di Locke. Per tutto il corso della nostra storia abbiamo cercato di innalzare barriere a protezione dei nostri diritti, e abbiamo avuto la tendenza a vedere in una lunga serie di abusi dei complotti per schiavizzarci. Gli americani preferiscono passare all'azione prima che le minacce si siano abbattute sulle loro teste. Si potrebbe dire, certamente a rischio di cadere in un'eccessiva generalizzazione, che l'Amministrazione Bush, attaccando l'Iraq, ha rivelato un aspetto della psicologia politica del "Secondo Trattato" di John Locke.

    In questo trattato si sostiene infatti che, per la loro stessa difesa, i popoli devono agire prima "che sia troppo tardi, e che il Male sia diventato incurabile"; inoltre, per "proteggersi dalla tirannia" i popoli devono "avere non soltanto il diritto di ribellarvisi, ma anche di prevenirla". L'intervento preventivo in difesa dei nostri diritti fondamentale è probabilmente inscritto nel nostro dna politico, esattamente come il Big Government. Senza dubbio sembra una caratteristica permanente della politica americana. Quale che sia la nostra interpretazione delle fonti della Dottrina Bush, una cosa è certa: è un modello politico ancora in gestazione, e ci sono molte fazioni, all'interno dell'Amministrazione, che si scontrano per stabilirne la portata e il significato fondamentale. L'Amministrazione impara lungo il cammino e ricorre all'improvvisazione. Non è affatto chiaro dove sia diretta.

    Il più delle volte le etichette politiche ci fanno perdere di vista ciò che è veramente importante; e quando finiscono nelle mani degli "esperti" e dei politicanti possono diventare semplicemente un mezzo per screditare i propri avversari. Queste etichette sono utili soltanto se contribuiscono alla nostra comprensione della realtà politica. La riscoperta del neoconservatorismo da parte dell'opinione pubblica è quindi benvenuta, perché ci costringe ad affrontare alcune questioni fondamentali, ma ancora irrisolte, che caratterizzano il pensiero conservatore. Contrariamente a quel che si crede di solito, il neoconservatorismo non è stato mai incorportato in un più vasto movimento intellettuale conservatore. D'altra parte era ben difficile che ciò accaddesse, perché il neoconservatorismo non rappresenta tanto una semplice reazione alla cultura antagonista degli anni Sessanta quanto una corrente sempre presente nel pensiero conservatore della nostra èra democratica, e forse persino quello più vitale. Le altre correnti del conservatorismo sono stranamente antidemocratiche. I tradizionalisti aspirano all'aristocrazia; i libertari desiderano un governo di tecnocrati, con un'autorità alquanto limitata; e i paleoconservatori sognano vaghe utopie postmoderne. Tra tutti i contemporanei modelli teorici del pensiero conservatore, soltanto il neoconservatorismo ha firmato la pace con la democrazia americana; e se la democrazia fiorirà, altrettanto farà il neoconservatorismo.

    Adam Wolfson
    © The Public Interest - Il Foglio 10 Gennaio 2004
    traduzione di Aldo Piccato

    * L’articolo è stato pubblicato su Il Foglio con il titolo: “Neocon, paleocon, tradizionalisti e liberisti”, mentre qui si è preferito il titolo originale (“Conservatives and Neoconservatives”). Allo stesso modo si è preferito tradurre l’inglese “libertarian” con “libertario” e non con “liberista”, che si presta a fraintendimenti.

  2. #2
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    Norman Podhoretz e la Quarta Guerra Mondiale

    di Christian Rocca


    Prendete nota: "La Quarta guerra mondiale: come è cominciata, che cosa significa e perché dobbiamo vincerla", è il titolo del saggio che troverete a puntate, oggi e la settimana prossima, sul Foglio. Si tratta di un formidabile testo scritto da un letterato e polemista con il dna della sinistra newyorchese, ma che alla fine degli anni 70 diventò uno dei fondatori del movimento neoconservatore: Norman Podhoretz. Il saggio uscirà a settembre sulla rivista americana Commentary, ma Il Foglio lo pubblica a partire da oggi in italiano, in esclusiva e in anteprima.

    Fidatevi, è un testo fondamentale per ripercorrere i grandi temi di dibattito culturale che nei tre anni dall'11 settembre 2001 a oggi questo piccolo quotidiano ha riportato ai suoi lettori. Così come due anni fa il libro di Robert Kagan sull'America e l'Europa (altro testo scoperto e pubblicato dal Foglio) fu il canovaccio del dibattito sulla frattura dei rapporti transatlantici, questo saggio di Podhoretz spiega con eleganza, chiarezza e senza fronzoli il mondo post 11 settembre, la guerra che il totalitarismo islamo-fascista ci ha dichiarato, i pericoli che stiamo correndo, la lezione del passato, la battaglia culturale e le sfide che siamo costretti ad affrontare per mantenere le nostre libertà. Un testo che è soprattutto il modo migliore, nei giorni della convention repubblicana di New York, per provare a capire sine ira ac studio l'essenza della presidenza di George W. Bush, la sua politica, l'intervento in Afghanistan e poi in Iraq, la dottrina del primo colpo, la rivoluzione del regime change e l'impegno generazionale per la democrazia e la libertà in medio oriente. Un'alternativa seria e argomentata alla goliardia del Gabibbo Michael Moore, inopinatamente assurta da intrattenimento di qualità ad analisi politica e culturale.

    Norman Podhoretz rivisita gli eventi, le questioni e le politiche che dalla seconda metà del secolo scorso hanno prima condotto all'11 settembre 2001 e poi creato le basi per la cosiddetta dottrina Bush. L'autore, oggi 74enne, è stato una delle colonne intellettuali della sinistra newyorchese degli anni 60 e 70, amico fraterno delle Susan Sontag, dei Norman Mailer e dei guru della controcultura leftist che poi lo ripudiarono quando il suo giornale, Commentary, si fece baluardo dei valori liberali e americani che l'antiamericanismo made in Usa voleva abbattere (a questo percorso Podhoretz ha dedicato "Making it", "Ex Friends" e "Breaking Ranks"). Così come i suoi "ex amici", anche Podhoretz era contrario alla guerra in Vietnam, ma non ha mai smesso di pensare che l'America fosse la nuova Gerusalemme, la terra promessa delle libertà e delle opportunità. "My love affair with America", la mia storia d'amore con l'America, è uno dei suoi libri più famosi, nel quale con stile personale ma senza mai perdere di vista il fuoco della questione, Podhoretz spiega la grandezza del sogno americano che lui stesso ha esaudito da figlio d'immigrati ebrei in fuga dall'Europa. Nato a Brooklyn in povertà, con il padre che faceva il lattaio, Podhoretz da adolescente faceva addirittura fatica a parlare inglese. Poi, invece, l'aristocratica Columbia, due anni di militare nella Germania post nazista, infine polemista di pregio fin da quando prese di mira i suoi amici beatniks che accusava di nichilismo e di barbarie bohémienne. E, ancora, fustigatore delle azioni positive, cioè delle discriminazioni in favore delle minoranze, anticomunista rigoroso (ha scritto "The present danger") e, infine, esegeta dei Profeti.

    Gli islamofascisti ci odiano perché esistiamo

    Alla fine degli anni 70, quando la convivenza con i liberal che tradivano il liberalismo americano divenne insopportabile, Podhoretz, Irving Kristol e altri membri di "The Family", come veniva chiamata la famiglia intellettuale ebraica newyorchese, si allontanarono dalla sinistra e abbracciarono la rivoluzione reaganiana. Commentary diventò la palestra culturale dell'Amministrazione Reagan, tanto che il presidente attore nominò Jeane Kirkpatrick come ambasciatrice all'Onu, subito dopo aver letto sulla rivista un suo articolo che invitava a sfidare le dittature comuniste. Eppure in questo saggio sul mondo post 11 settembre, Podhoretz fa a pezzi anche il vincitore della Guerra fredda Reagan, e con lui Nixon, Carter e Clinton, tutti colpevoli di aver sottovalutato il pericolo fondamentalista arabo e islamico. I segnali dell'odio antiamericano c'erano tutti, spiega Podhoretz, solo che nessuno ha voluto vederli né affrontarli come meritavano. Il danno è stato doppio, perché Osama bin Laden si è convinto che l'America non avrebbe mai più superato la sindrome disfattista del Vietnam, che l'America fosse una tigre di carta. La dottrina Bush ha individuato il pericolo e tracciato una strada, così come capitò nel secondo dopoguerra con la dottrina Truman, prima sbeffeggiata e osteggiata poi pedissequamente rispettata dagli avversari di destra e di sinistra. La stessa cosa, argomenta Podhoretz, succederebbe con la dottrina Bush se John Kerry entrasse alla Casa Bianca. Ché non c'è alternativa. Gli islamofascisti non si placherebbero nemmeno se il presidente fosse Michael Moore, perché non ci odiano per quello che facciamo né per come ci comportiamo, ci odiano perché esistiamo.


    IL FOGLIO, 28 agosto 2004



    *L'articolo in questione introduceva su Il Foglio la pubblicazione a puntate del volume "La Quarta Guerra Mondiale". Il titolo originario era semplicemente "Norman Podhoretz".

  3. #3
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    In questo saggio di Adam Wolfson sono tratteggiate in maniera chiara le caratteristiche di pensiero dei vari filoni del conservatorismo americano, assai diversificato al proprio interno. A determinare le scelte e le contrapposizioni politiche è il giudizio che viene dato circa la società contemporanea.
    Chi si sente a disagio con la modernità propende per il tradizionalismo o per il paleoconservatorismo. La differenza è che i primi si appellano ai costumi aristocratici del passato, mentre i secondi sognano invece un futuro postmoderno segnato da istanze reazionarie.
    Chi nel presente si trova invece perfettamente a suo agio sono i libertari, gli estimatori delle nuove libertà individuali e delle nuove tecnologie.
    Distanti da tutti costoro sono i neoconservatori, i quali accettano la modernità per i suoi ideali e principi, ma al tempo stesso ne respingono quelle tendenze che reputano preoccupanti.

    Il tradizionalismo

    La corrente tradizionalista ha avuto un forte impulso durante gli anni cinquanta, grazie all’impegno di un intellettuale come Russell Kirk che si è preoccupato di infondere in ambiti prevalentemente dediti al big business l’amore per la cultura e la storia. Kirk recuperò la figura di Edmund Burke, tracciando una genealogia del conservatorismo anglo-americano volto a difesa della famiglia tradizionale, delle antiche virtù e della religione cristiana. Nella pratica politica queste posizioni si traducono nella difesa delle comunità locali, con la loro moralità, le loro autonomie e le loro libertà, dalle pretese del governo centrale.
    Questa corrente ha perduto gran parte della propria vitalità in seguito all’affermarsi della controcultura negli anni sessanta e settanta ed è stata in parte soppiantata, a partire dagli anni ottanta, da una linea più aggressiva e radicale, quella dei paleoconservatori.

    Il paleoconservatorismo

    A differenza dei tradizionalisti, i paleocons sostengono che la società contemporanea abbia definitivamente voltato le spalle alla tradizione e che dunque invece di rivolgersi inutilmente al passato bisogna accelerare la caduta della modernità.
    I paleocons non sono aristocratici ma populisti, ed hanno mutuato dalla sinistra il protezionismo economico e la critica della globalizzazione, mentre appoggiano posizioni tipicamente di destra quali la critica dell’immigrazione e della libertà di aborto. La loro politica estera è isolazionista come quella dei libertari della Old Right prebellica alla quale si ricollegano apertamente.

    Il libertarismo

    Rispetto a queste fazioni, intente in battaglie culturali contro il modernismo liberal, i libertari aspirano unicamente all’estensione delle libertà economiche e delle scelte individuali. Sostengono, sulla scia di Hayek, che l’espansione del welfare state porti necessariamente alla perdita delle libertà e ad uno stato totalitario. Il loro individualismo radicale li porta a disconoscere lo stesso concetto di bene pubblico, cosa che li sottopone a severa critica da parte dei neoconservatori

    Il neoconservatorismo

    I neoconservatori non hanno la nostalgia tradizionalista per il passato, né sostengono l’indifferentismo morale e il mercato senza regole dei libertari. Enfatizzano, al contrario, la tradizione democratico-liberale americana che era già stata elogiata da Tocqueville.
    I neoconservatori ritengono che gli antichi modelli di vita vadano riletti alla luce della democrazia e che le antiche convinzioni non possano essere mantenute sulla base della loro pretesa autorità, ma debbano essere difese e sostenute con argomentazioni razionali.
    I neocons sono consapevoli dei difetti del sistema democratico (basse aspirazioni, tendenze alienanti), tuttavia riconoscono la giustizia di fondo dell’uguaglianza democratica. Essi sostengono il capitalismo e il libero mercato, tuttavia non in modo incondizionato come i libertari. Anche il giudizio riguardo il big government è differente. Mentre tradizionalisti e libertari ne sono critici perché lo considerano un rischio per le libertà individuali e locali, viceversa i neocons hanno dimostrato che è il bene generale ad essere vittima di degenerazione in quanto le democrazie tendono ad incoraggiare la ricerca dell’interesse privato più che di quello pubblico.

    Diversamente da Hayek e sulla scia di Tocqueville, i neocons sono animati infatti dall’attenzione per la sfera pubblica. Per loro il big government è espressamente richiesto dall’uomo democratico, il quale, preso dai suoi interessi privati, non ha la volontà né il tempo per dedicarsi agli affari pubblici, che vengono demandati allo stato. In una democrazia lo stato è perciò destinato naturalmente ad ingrandirsi, in ragione del sentimento di orgoglio e di indipendenza dell’individuo. Questi infatti non accettando su di sé l’autorità di un capofamiglia, di un magistrato locale, o di un prete, preferisce sottostare all’autorità del governo, ritenuta (per i neocons a ragione) più anonima e meno offensiva. I neocons condividono l’orgoglio individualista del cittadino democratico, ma tendono a sposarlo con la visione di uno stato garante del benessere, della sicurezza e dell’ordine pubblico.

    Neoconservatori e libertari

    La critica neoconservatrice all’indifferenza morale dei libertari è dunque netta. I libertari sono generalmente schierati a difesa di ogni concepibile libertà (aborto, droghe, clonazione) al punto di volerle imporre a dispetto del volere democratico. Il diritto individuale di scelta ha la meglio nella loro visione sulla discussione democratica e in nome di una libertà ristretta e privatizzata si perseguono politiche antidemocratiche che scoraggiano l’impegno negli affari pubblici. Paradossalmente, sottolineano i neocons, l’ideologia libertaria trasformerebbe i cittadini in stranieri che vivono felicemente, anche se in modo distratto e indifferente, nel loro paese.

    Neoconservatori e conservatori sociali

    Per questo motivo ai neoconservatori succede spesso di associarsi ai conservatori sociali in difesa della religione e del diritto alla vita. Il conservatorismo compassionevole dei social conservatives è stato paragonato dal Presidente Bush alla stregua di un riformismo aggressivo e permanente, e definito il credo del progresso sociale. E’ infatti la cauta speranza che si possa creare un futuro migliore (sospetta ai tradizionalisti che non credono possibile rendere malleabile una società) a vedere congiunti conservatori religiosi e neoconservatori.

    Neoconservatori e politica estera

    Riguardo la politica estera, la visione neoconservatrice si è negli anni identificata con la scelta di promuovere la democrazia nel mondo, a difesa degli interessi nazionali americani. Questa linea, idealista e unilateralista insieme, è distante tanto dalla realpolitik dell’establishment repubblicano, quanto dall’umanitarismo cosmopolita dei democratici. Recentemente a questa posizione (Kristol, Kagan, Kaplan) se ne è affiancata una seconda più realista (Krauthammer), che non ritiene gli interessi americani coincidere necessariamente con la promozione all’estero del sistema democratico. In ragione di ciò sono stati criticati gli interventi umanitari in Kosovo e in Liberia (affrontati da Clinton con l’avallo di alcuni neocons), che secondo quest’ottica spingerebbero gli americani ad un rifiuto dell’interventismo e all’isolazionismo.
    La Dottrina Bush, che tante controversie ha generato per via dell’azione preventiva, secondo Wolfson ha invece profonde radici nella cultura politica americana, essendo ispirata dal Secondo Trattato di John Locke.

    Il futuro del neoconservatorismo

    Per Wolfson il destino del neoconservatorismo sarà legato a quello della democrazia stessa, perché diversamente dagli altri conservatorismi, che aspirano a turno all’aristocrazia (tradizionalisti), alla tecnocrazia (libertari), o ad utopie postmoderne (paleoconservatori), solo i neoconservatori hanno fatto definitivamente pace con la democrazia americana.


    Florian

  4. #4
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    "E io dove mi metto?"

    Non appena ho letto gli articoli postati da Florian, mi sono posto questa domanda. E provo uno strano effetto, in verità.
    E' già da qualche anno che mi definisco "Conservatore per la Libertà". Non sono apparso, ai tempi, in questo Forum per caso. Ma forse è giunto il momento di procedere ad una riflessione ulteriore, e scoprire esattamente a quale "branca" del Conservatorismo appartengo (oppure se non sono proprio così schematizzabile). Per l'appunto, è la prima volta che tento questa operazione, che vado a "scavare" oltre la semplice eticchetta di conservatore e sostenitore del centrodestra, banalmente pidiellino. Sono politicamente ed idealmente pronto per farlo (credo).
    E dunque, ecco un riassunto delle mie posizioni, delle mie idee, delle opinioni sui temi più svariati.

    - Politica Estera: al di là della semplice amicizia e vicinanza a Stati Uniti ed Israele, e alla salda volontà di sostenere l'Occidente e le sue radici di fronte ai pericoli costituiti dal fondamentalismo e dall'invasione islamica, dal multiculturalismo, dal relativismo, ho sempre fieramente appoggiato le decisioni del Presidente George W. Bush circa la necessità di diffondere, finanche con la forza, la democrazia, e contrastare con ogni mezzo le minacce presenti nel globo. Penso di essere stato uno dei rarissimi ragazzi delle superiori (ormai è passato qualche anno...)ad apprezzare l'attacco ad Afghanistan e Iraq, mentre attorno a me si organizzavano scioperi ed assemblee studentesche, e si definiva Bush nè più nè meno come un dittatore assassino con le mani lorde di sangue. E c'è di più, nonostante tutti i dubbi, le incertezze e le ovvie precauzioni non vedrei male un atto di forza per sistemare in modo definitivo la faccenda Medio Oriente. Gli Stati Uniti devono fermare il declino geopolitico, e l'Occidente tutto ha il dovere morale e materiale di sostenere questo attacco all'inciviltà, agli islamo-fascisti che ci odiano per il solo fatto che noi esistiamo, che lavorano per la nostra distruzione.

    - Temi etici: considero l'aborto come un omicidio ed un vile diritto all'assassinio di esseri innocenti, un atto immondo e abominevole. Concepisco ogni manipolazione del "mistero" della vita come qualcosa di altamente immorale, uno sfregio alla base stessa dell'uomo, un insulto al suo Creatore. Dopo una lunga e tormentata riflessione, mi dichiaro contrario alla pena di morte.

    - Economia: sono favorevole al libero mercato. Il capitalismo ha prodotto un benessere mai visto nella storia dell'umanità, e ha dimostrato di saper sconfiggere ogni altro deleterio sistema economico. Eppure sono convinto che certi eccessi vanno regolati. L'America e l' Occidente non sono le nuove "Sodoma e Gomorra", ma esiste certamente un attaccamento a tratti morboso al bene materiale (un esempio stupido: persino i bambini delle elementari vogliono il cellulare), una superficialità e una ricerca del piacere effimero che contrastano con una visione più tradizionale. (vedi sotto).

    - Società: io voglio la società del quieto vivere, dell'ordine, della tranquillità, in cui ciascuno sa cosa fare e quali sono i suoi limiti. Una società dove l'autorità viene rispettata, dove vige il principio della responsabilità, nella quale vengono premiati i meritevoli e declassati gli incapaci. Utopia? Probabilmente sì. Mi limito pertanto a sostenere una società comunque più compatta di quella attuale, più dinamica, consapevole di se stessa, della propria identità, pronta a difendere quest'ultima con le unghie e con i denti anche all'esterno, a ribellarsi di fronte ad attacchi nemici. Una società che protegge i propri capisaldi ideali, che non si fa sottomettere, che salvaguarda il territorio e le proprie tradizioni. Al di là del tranquillo, verde villaggio, con la locanda pulita, le stradine e i sentieri silenziosi (un sogno bellissimo, certo -e non a caso amo l'Irlanda, ed adoro la descrizione di Tolkien su Hobbiville- ), sostengo una società ordinata, che utilizza i prodotti del progresso scientifico e tecnologico per migliorare la qualità della vita, ma senza eccedere o scivolare nel caos morale.


    - Religione: la propria fede dovrebbe essere considerata un fatto pubblico. Senza scadere in fanatismi o nell'intolleranza, sono fiero di portare la Parola di Dio presso gli altri, anche attraverso piccole cose (attività parrocchiali a favore dei ragazzi). Perchè dovrei vergognarmi di essere cattolico? Perchè mai lo dovrei nascondere? Questa è la mia identità, e la difenderò sempre, anche nel campo politico. Esistono principi irrinunciabili per il bene comune.


    - Sistema politico: senza dubbio alcuno la democrazia. Certo, l'attuale democrazia italiana fa un pò schifo, ma non è questo il punto. Non è più tempo di sovrani assoluti, dittature, repressioni del dissenso legittimo. Guardo all'esempio inglese e a quello americano come due modelli non da replicare, ma da seguire attentamente sì.


    E dunque, come mi potrei definire?
    Che Conservatore "sono"?
    Da quel che ho capito mi avvicino molto al neoconservatorismo.
    Non mi definisco infatti paleoconservatore, perchè accolgo quanto di buono ha prodotto la società occidentale senza utopici sguardi all'indietro, o nostalgici ritorni a passati che non possono più tornare.
    Non mi definisco certo libertario: esistono dei limiti ben precisi alla "libertà", come ho dimostrato, e dal punto di vista morale non sono indifferente.
    La corrente tradizionalista mi è vicina (del resto, non possiamo che provare simpatia per le "antiche virtù", per la vita sana e tranquilla lontana dai fastidi provenienti dall'alto, dallo Stato soffocante, o dall'esterno), ma come ho detto bisogna separare la realtà dalle nostalgie, bisogna muoversi attivamente, sostenere la propria identità anche in attacco, rimuovere gli ostacoli, andar fieri delle proprie convinzioni.

    Forse questo post svia dall'argomento, dalla lezione, ma gli articoli mi sono stati utili per definire meglio me stesso. Ora so muovermi con più agilità anche all'interno del Conservatorismo.
    Spero ovviamente di essere riuscito a cogliere le varie differenze fra le "correnti"; sono comunque pronto a riflettere di più, ad emendare errori ed incomprensioni.
    Del resto, sono solo all'inzio di questo percorso.

  5. #5
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    L'intervento del nostro amico zaffo, puntuale come sempre, ci spinge a fare i conti con il dibattito in corso in America fra le varie fazioni conservatrici.

    E io dove mi metto?

    si è chiesto giustamente il nostro amico. Già, non è mica facile rispondere in maniera netta, perchè è difficile aderire in toto ad uno schema prestabilito e facilmente si attraversano i vari ambiti. Tuttavia, per somme linee è possibile dare una risposta, avendo come punti di riferimento:

    - la politica estera (interventisti/isolazionisti),
    - il libero mercato (entusiasti/moderatamente inclini/sospettosi),
    - i valori etici (scelta comunitaria/scelta individuale),
    - la modernità (soddisfatti/moderatamente soddisfatti/ostili),
    - la tradizione (semplice informazione/regola di vita).

    Motiverò la mia scelta operando per esclusione.

    Non sono un libertario. La loro passione per le scienze economiche mi è estranea, così come l’entusiasmo per la vita moderna. Il loro indifferentismo morale, che nel migliore dei casi si traduce nel difendere le questioni etiche solo individualmente, non lo condivido.

    Non sono un paleoconservatore. In quanto aborro le opzioni radicali e l’estremismo politico. Rifiuto l’idea secessionista e non mi allettano visioni futuriste e postmoderne.

    Potrei essere un tradizionalista, anzi dovrei esserlo visto che ho molti punti di contatto con questa corrente: non amo la vita moderna, mi sento ancorato alla storia e rispetto profondamente ciò che è tradizionale. Tuttavia giudico questa linea impolitica, in quanto il modello di vita aristocratico è scomparso da un pezzo e la democrazia si è saldamente affermata nella coscienza dell’uomo occidentale. Dunque, a malincuore, rifiuto anche il tradizionalismo.

    Rimane dunque l’opzione neoconservatrice, includendo in questa accezione, come ha fatto Wolfson nell’articolo, i neocon propriamente detti, gli straussiani e i conservatori religiosi. Costoro sono stati gli unici conservatori ad aver appoggiato la politica estera dell'Amministrazione Bush volta a frenare l’integralismo islamico. Sul conservatorismo compassionevole ho qualche riserva perché oggettivamente la linea della botte piena e della moglie ubriaca (tagliare le tasse senza diminuire le spese) ha fatto schizzare il debito pubblico a livelli stratosferici.

    Per questi motivi, dovendo appoggiare una politica nel suo complesso, scelgo quella del conservatorismo mainstream. Quella dei conservatori sociali bushiani, dei neoconservatori.

  6. #6
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    Molto interessante questo confronto. Tempo permettendo prometto di intervenire anche io...

 

 

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