Articoli datati 1998 ma ancora attuali.
L'Italia si appresta a celebrare nella retorica gli ottant'anni di un inutile massacro
4 Novembre 1918: la vittoria
Sulla coscienza 650mila morti "per cementare l'unità della Nazione"
di MORGANA
«Bollettino della vittoria. Comando Supremo. Quattro novembre 1918, ore 12. La guerra contro l'Austria-Ungheria, che sotto l'alta guida di Sua Maestà il Re, Duce Supremo, l'esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per quarantuno mesi, è vinta». Con queste parole il capo di stato maggiore Armando Diaz proclamava trionfante alla Nazione intera il trionfo della "Patria". Una guerra costata all'Italia 650 mila morti, 947 mila feriti, 600 mila tra prigionieri e dispersi su un totale di poco più di 5 milioni e mezzo di mobilitati. E che poteva essere evitata. Dichiaratasi neutrale il 2 agosto 1914 per non violare gli accordi della Triplice Alleanza, i ministri degli esteri (Antonio di San Giuliano, poi Sidney Sonnino) trattarono con l'Austria la questione delle terre irredente. Si volevano ottenere quelle porzioni di penisola ancora in mano imperiale e considerate italiane a tutti gli effetti. Fallite le trattative con l'Austria, che non voleva soggiacere ad un ricatto, si passò alla maniera italica al tavolo dell'Intesa. Il governo, col consenso del re e all'insaputa del Parlamento, concluse il 26 aprile 1915 il Patto di Londra: l'Italia doveva scendere entro un mese in guerra a fianco di Inghilterra, Francia e Russia; in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, l'Alto Adige, Trieste, Gorizia, Gradisca, l'Istria fino al Quarnaro, il nord della Dalmazia e il porto albanese di Valona. Quello che Salandra chiamava il "sacro egoismo" dell'Italia (e che fece definire la grande guerra anche come "quarta guerra d'indipendenza", il coronamento del processo di unità del Paese), il 24 maggio 1915 inaugurò uno dei massacri più inutili della nostra storia, una carneficina non impedita dagli stessi quartieri generali, che conoscevano benissimo lo stato delle nostre truppe, come dimostra lo stesso comandante in capo Luigi Cadorna, che nelle sue Memorie scrisse: «L'esercito italiano si trovava in uno stato di vera prostrazione. Non è esagerato il sostenere che se l'Austria l'avesse attaccato fin dalla proclamazione della neutralità, avrebbe trovato il paese quasi senza difesa». Scrive il soldato e scrittore Carlo Emilio Gadda: «I nostri uomini sono calzati in modo da far pietà: scarpe di cuoio scadente, e troppo fresco per l'uso, cucite con filo leggero da abiti anzi che con spago, a macchina anzi che a mano. Dopo due o tre giorni di uso si aprono, si spaccano, si scuciono, i fogli delle suole si distaccano nell'umidità l'uno dall'altro. Chissà quelle mucche gravide, quegli acquosi pancioni di ministri e di senatori e di direttori e di generaloni: chissà come crederanno di avere provveduto alle sorti del paese con i loro discorsi, visite al fronte, interviste, ecc. Ma guardino, ma vedano, ma pensino com'è calzato il 5° Alpini!». Le calzature erano scucite, ma in compenso (come testimonia anche Emilio Lussu in Un anno sull'altipiano ) «sulle scarpe distribuite al battaglione c'era scritto "Viva l'Italia!". Dopo un giorno di fango abbiamo scoperto che le suole erano di cartone verniciato color cuoio». Esse erano perciò rivestite dello stesso tricolore che oggi, e ogni anno in questo anniversario, avvolge la retorica e la falsità di chi la guerra non l'ha fatta ma ne parla come se fosse stato presente. Stiamo attenti a chi ancora oggi fa passare questo omicidio collettivo per un momento di «alta coscienza di patria» che ha cementato l'unità del giovane Paese. Chiediamoci se quei soldati sapevano davvero perché erano stati mandati a morire. La risposta non è così scontata.
Oltre alle granate del nemico, le decimazioni di Cadorna
di Morgana
Un capitolo particolarmente squallido della grande e patriottica guerra fu scritto dal generale Luigi Cadorna, che si distinse, più che per le sue capacità militari, per l'alacrità con cui infierì sui suoi uomini, accusati in modo indiscriminato, dopo un insuccesso, di essere vigliacchi e traditori della patria. Dopo il disastro di Caporetto, causato dall'impreparazione, dalle deficienze operative e dall'estraneità dei soldati verso una guerra non sentita, Cadorna attribuì la disfatta alla «mancata resistenza di reparti della seconda armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi». Sul campo rimasero 40 mila tra morti e feriti, oltre 250 mila prigionieri e 350 mila sbandati. Gli ammutinamenti dei soldati, sempre più consci di essere considerati null'altro che carne da macello, vite sprecate per un ideale a loro estraneo, furono dal generale repressi in modo implacabile. Alla resa dei conti, Cadorna affermò che le decimazioni erano state applicate anche negli altri eserciti. Nulla di più falso. In Francia , per le esecuzioni capitali, era obbligatorio il parere del presidente. In Italia invece non solo il re e i politici furono esclusi da qualunque possibilità di intervento in merito, ma addirittura il generale autorizzò i comandi inferiori a decretare le decimazioni, ignorando il parere del Comando Supremo: era necessario punire alla svelta, senza il rispetto di alcuna formalità, adoperando - parole sue - come «implacabile giustiziere, il fuoco delle artiglierie e delle mitragliatrici». Così accadde, ad esempio, che degli otto giustiziati del dopo Caporetto, solo uno fu dichiarato colpevole. Come afferma uno storico contemporaneo, le esecuzioni sommarie e le decimazioni furono la regola invalsa nel nostro esercito per reprimere fulmineamente l'indisciplina. Alle assurde morti in battaglia vanno aggiunte dunque queste morti, ancora più assurde, dovute allo zelo mistificatore di un incapace. E i "padri della patria", che hanno finto e fingono di onorare dei martiri, hanno intitolato ad uno dei loro carnefici vie, piazze, corsi e stazioni. Evviva l'Italia.