pubblicato su Rinascita sabato 1 novembre 2008
USA-URSS: era necessario scegliere.
Marco Bagozzi
“In qualche modo il partigiano, in quanto combattente irregolare, deve sempre appoggiarsi ad una potenza regolare[…]Il potente terzo non fornisce soltanto armi, munizioni, denaro, sussidi materiali e medicinali di ogni tipo, ma procura anche quel riconoscimento politico di cui il partigiano che combatte irregolarmente ha bisogno per non sprofondare”, sono parole di Carl Schmitt, estratte dal suo fondamentale saggio “La teoria del Partigiano”, resoconto di tre conferenze del 1962, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2005.
Le parole del politologo e giurista tedesco sono necessarie per comprendere la politica estera mondiale durante gli anni della guerra fredda, cioè del bipolarismo USA-URSS. Schmitt, infatti, coglie nel segno: nell’epoca della divisione a metà del mondo, una “Terza posizione” non è solo perdente, ma pure dannosa, perché, di fatto, favorisce delle due potenze quella più forte (che è di fatto quello che è successo all’estrema destra italiana, che sbandierando una terza posizione ideologica, si è sempre trovata a giocare il ruolo di guardia bianca del sistema atlantista).
E devo immediatamente precisare: per “Terza posizione” intendo una direttiva di politica estera, che nulla ha a che vedere con la politica interna, nella quale perseguire una via nazionale al socialismo, cioè una “Terza via” era, ed è, necessario.
Le direttive di politica estera non possono essere (solo) ideologiche, bisogna infatti salvaguardare anche gli “interessi nazionali”, lo “spazio vitale”, le “necessità strategiche”. In politica estera il “machiavellismo” è più importante che in politica interna.
L’Europa uscita a pezzi dalla II Guerra Mondiale, durante la quale il fanatismo ideologico antislavo di Hitler ha portato la Germania in una tremenda guerra fratricida tra le due potenze europee (Germania e Russia sovietica), stracciando i sogni di quell’Impero da Vlissingen a Vladivostock, preconizzato dai nazional-bolscevichi e da circoli della Wermacht, si trova occupata, in tutta la sua parte occidentale, da una potenza extra-europea, e in tutta la sua parte orientale da una potenza europea. Questa è la verità.
Chi parla di “bolscevico asiatico ed antieuropeo” parla con disonesta o ignoranza, non conoscendo le dinamiche interne della Russia e della sua missione “imperiale” sia essa prefigurata dallo Zarismo, dai Soviet o dal duo Putin-Medveved.
Per un sincero patriota europeo la necessità di parteggiare per uno dei due schieramenti non poteva non portarlo sulla strada di Mosca, guardando con favore ai circoli nazional-patriottici dell’Armata Rossa, molto più influenti di quanto si creda (vedi Alexander Yanov, La nuova destra russa, Sansoni editore). A questi gruppi faceva riferimento la speranza di Thiriart, certamente no alla “gerontocrazia” sovietica, che ha partorito Gorbaciov e Elstin. [Più di qualcuno scrisse che “se qualcosa di simile al fascismo potrà rinascere, nascerà dai circoli patriottici dell’Armata Rossa”, certamente no dalle destre neofasciste, aggiungo io]
Ed è una verità anche che in alcuni paesi del Blocco di Varsavia anche i cosiddetti “fascisti” (e intendo quelli che non hanno parteggiato per i tedeschi durante la guerra, e che quindi venivano considerati, ovviamente, traditori), trovarono i loro spazi: ad esempio nella Romania di Ceausescu moltissimi ex-militanti della Guardia di Ferro aderirono al Partito Comunista Rumeno, e nella Germania Orientale il Partito Nazionale Democratico Tedesco (ora NPD) era rappresentato in parlamento, anche dal suo leader Ugo Voigt. Ovviamente, in pieno spirito “fascista”, si erano messi a disposizione del potere centrale (come già Ustrjalov nella Russia staliniana), per rafforzare la Nazione.
Il direttore di Rinascita ha citato alcuni esempi che sembrano smentire questa mia tesi: l’India di Nehru, l’Argentina di Peron, e sembra aver dimenticato l’Egitto di Nasser. Ma se è vero che questi paesi animarono i cosiddetto “Blocco dei non-allineati”, in realtà strinsero accordi con l’Unione Sovietica, in particolar modo commerciali e militari. Inoltre va considerato che anche lo stesso “fronte dei non-allineati” era di fatto un accordo commerciale e strategico, svuotato ideologicamente, al quale apparteneva, come fondatore, per esempio la Jugoslavia socialista di Tito, militarmente legata alle atlantiste Grecia e Turchia, e di altri paesi che cercavano solo validi partner commerciali. Le enormi potenzialità del movimento infatti non trovarono mai un buon livello di coesione ideologica e politica.
Detto ciò, giungo al nocciolo della questione: ferma restando la nostra ammirazione eterna e la nostra solidarietà al popolo che scende nelle piazze, e non togliendo nulla, ripeto nulla, ad un gesto di estrema tragicità, troppo spesso banalizzato dagli “anti-comunisti”, come la morte di Jan Palach (che anti-comunista non era, essendo iscritto alla facoltà di “marxismo-leninismo” dell’ateneo praghese), non possiamo non considerare la rivolta praghese in realtà un tentativo cinico (proprio perché ha coinvolto il popolo) della classe dirigente cecoslovacca di staccarsi dalla tutela sovietica, per abbracciare la strategia dell’atlantismo. La presenza a Praga, in quei giorni, di numerosi agenti americani e sionisti e la martellante propaganda della radio americanista Free Europe stanno li a dimostrarlo.
E quando si ha a che fare con avversari cinici, fino all’estremo, non possiamo continuare a sperare nella sola ideologia, bisogna armarsi di cinismo e pragmatismo. La scienza delle relazioni internazionali e della geopolitica è soprattutto questo, volenti o nolenti.