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    Predefinito Obama ha vinto! Ed ora è Obomania.

    Si chiama Obomania e colpisce a destra e a manca. Il probabile (aspettiamo a dire certo) 44° presidente degli Stati Uniti viene paragonato indifferentemente a Berlusconi come a Malcolm X, tanto nessuno sembra occuparsi seriamente delle sue posizioni effettive.
    A poche ore dai risultati elettorali pubblichiamo perciò molto volentieri l’opinione controcorrente di Alexander Cockburn, da il Manifesto del 2 novembre.


    L'«Obomania» e la sinistra critica
    Marco D’Eramo
    «Contro Obama» s'intitola la rubrica di Alexander Cockburn pubblicata il 22 ottobre da The Nation, il più importante settimanale della sinistra americana. Di questa sinistra Alexander è un esponente atipico. Intanto è inglese e non americano, anche se non è flemmatico affatto, anzi polemista assai irruento, giornalista «cattivo». Suo fratello Patrick è un giornalista affermato. Suo padre Claude, giornalista anch'egli, era stato denunciato come comunista da George Orwell (l'autore di 1984, La fattoria degli animali). Non vive in una grande città, ma in una sperduta contea della California settentrionale. Alexander ha scritto insieme a Susanna Hecht un bel libro sull'Amazzonia (The Fate of the Forest: Developers, Destroyers and Defenders of the Amazon, Verso 1989). Insieme a Jeffrey Sy. Clair produce Counterpunch, la più graffiante newsletter politica degli Usa (proprio in questi giorni Counterpunch ha lanciato una sottoscrizione per poter sopravvivere: ricorda nulla?).
    Nella sua rubrica, Cockburn sfotte l'«Obamania»: chiunque vuole criticare Obama, deve andare nei parchi e sussurrare, altrimenti viene preso a male parole nella propria famiglia. Non solo, ma Cockburn non trova nessuna ragione positiva per votare per Obama, ma solo ragioni per votare contro McCain-Palin. Allora cosa c'è da sperare? gli chiedo. «Da quello che si è visto finora, pochissimo. Le sue posizioni nei quattro anni al senato sono state tutte di centrodestra, e assai opportuniste. Il suo istinto fondamentale è il moderatismo, il bipartisanismo, il centrismo. La prima volta che io ne ho sentito parlare, fu nel 2006 quando andò in Connecticut ad appoggiare nelle primarie democratiche quel bieco figuro che è Joe Lieberman (l'ex candidato democratico alla vice presidenza con Al Gore nel 2000, ora divenuto sostenitore di John McCain, esponente di spicco della lobby ebraica) contro il candidato pacifista.
    Tutte le posizioni progressiste che aveva preso nelle primarie per conquistare la base di sinistra, le ha poi rinnegate. Per limitare la corruzione elettorale, si era impegnato a limitare le spese al finanziamento pubblico. McCain ha mantenuto la promessa, ma Obama appena ha visto che stata raccogliendo il triplo dei fondi di McCain ha detto che non avrebbe usufruito del finanziamento pubblico per poter avere mani libere. A febbraio si era dichiarato contro le intercettazioni non autorizzate da un giudice, ma poi a giugno ha votato a favore sostenendo che «la capacità di monitorare e rintracciare persone che vogliono attaccare gli Stati uniti è uno strumento vitale dell'anti-terrorismo». Si era leggermente sbilanciato a favore dei palestinesi, ma poi a giugno è corso a parlare alla comunità ebraica per dichiarare il suo indefettibile sostegno a qualunque politica israeliana. Aveva promesso un ritiro immediato dall'Iraq, ora si dice pronto a un ritiro responsabile, cioè diluito nel tempo e non totale. Soprattutto, si è impegnato ad aumentare di 90.000 unità le forze armate e ad accrescere ancora di più il bilancio della difesa. Tieni conto che, con 635 miliardi di dollari, il bilancio dell'anno scorso è stato in termini reali il più alto di tutta la storia americana e che gli Stati uniti già ora spendono per il Pentagono più soldi di quanto tutto il resto del mondo spende in militare. E Obama promette di bombardare una nazione sovrana come il Pakistan e il suo vice Biden già ci dice che le relazioni con la Russia saranno il primo test importante della nuova amministrazione». Ma qualche riforma la dovrà pur fare, vista la crisi economica. «Se continua come adesso, farà piccole riformine. E soprattutto, si mangerà in spese militari i soldi che dovrebbe destinare alle riforme. Se continua così, finirà come la Grande Società e la Guerra alla Povertà di Lyndon Johnson che furono ingoiate e stritolate dalla guerra in Vietnam. Sarà preso nella tenaglia tra le riforme e invece rafforzare l'impero. E poi quella follia della guerra in Afghanistan! Se non prende posizioni radicali, finisce male, e in due anni perde le elezioni di mezzo termine. Ma i suoi principali consiglieri sono della scuola monetarista, sono Chicago boys. E il suo ministro del tesoro verrà sicuramente da un gigante di Wall street, se non sarà Robert Rubin (ex ministro del tesoro di Clinton, sarà una altro di Goldman Sachs (il cui nomignolo è Government Sachs vista la quantità di ministri che provengono da quella banca).
    Wall street ha dato un sacco di soldi a Obama che ha raccolto una cifra record. Se questa stessa somma l'avessero tirata su i repubblicani, ora tutti i liberal d'America starebbero a recriminare sul gran capitale che vuole far eleggere il suo comitato d'affari. Se viene sostenuto anche uno di destra come Colin Powell e dalla voce del capitale mondiale, cioè il Financial Time, qualcosa vorrà pur dire».
    Ma le riforme non vennero dall'alto, il New Deal non se lo inventò Franklin D. Roosevelt, ma ci fu un potentissimo movimento sociale, un'ondata mai vista di scioperi. Anche Johnson lanciò la «guerra contro la povertà» spinto dalle rivolte nere e dai movimenti per i diritti civili. Ora non si vede niente di simile all'orizzonte. «Potenzialmente c'è un potentissimo movimento populista, anche se per ora è informe. La gente è incazzata nera con il salvataggio delle banche. Vogliono vedere i banchieri di Wall Street impiccati e appesi dai ponti. Mi piace il senatore del Montana, John Tester, quando dice che la gente «vuole vedere i banchieri che hanno schiantato Wall Street in divisa da carcerati a raccogliere lattine lungo le autostrade» (spesso negli Usa la manutenzione stradale è assolta da detenuti). Se la Palin fosse meno scema, avrebbe il potenziale per organizzare questo movimento e spingerlo in direzione poujadista e qualunquista. Ma potrebbe essere un movimento di sinistra, se qualcuno sapesse organizzarlo, qualcosa potrebbe succedere. Se Obama avrà la maggioranza parlamentare che gli serve per governare, la prima cosa che dovrebbe fare è una commissione d'inchiesta per incriminare i banchieri d Wall Street. Ma il fatto è che Obama ha dato per scontato l'appoggio della sinistra e si spinto sempre più a destra. E la sinistra non ha fatto nulla per mettergli pressione. Non ci ha nemmeno provato. Guarda uno come Michael Moore che nel 2000 aveva appoggiato Nader: ora non ha espresso nemmeno la più piccola critica verso Obama. Anche tra i nostri lettori che nel 2000 erano per Nader, ora sono pochi quelli che voteranno la candidata verde Cinthya McCKinney o Nader. Il fatto è che i ragazzi di oggi sono analfabeti politicamente. I figli del mio codirettore Jeffrey St. Clair vanno matti per Obama, ma nessuno di loro si è registrato per andare a votare. Dovrebbero imparare l'Abc del conflitto, magari rileggersi un po' di Capitale di Marx».
    Anche l'Europa carica Obama di un'immensa aspettativa. «C'è una tremenda inflazione delle aspettative e un'attesa esagerata per quel che un presidente può fare. In economia il presidente può poco senza il Congresso. Mi fanno imbestialire quelli che dicono che Obama restaurerà l'autorevolezza americana, il buon nome dell'America. Siamo tutti contenti perché Obama restaurerà l'impero americano! Perché sarà un imperatore buono, perché sarà un Tito Flavio. Ma siamo matti? Nessuno sa più cosa è l'internazionalismo. Se vivevi nel IV secolo dopo Cristo, che cosa ti auguravi? un imperatore buono o che i barbari si riversassero a dissolvere l'impero? La sinistra non sa più dove è finito l'anti-imperialismo. Se non è scemo, Obama chiuderà Guantanamo e metterà fuori legge le torture, ma solo quelle più estreme, non tutte. E così sarà un imperatore buono e rafforzerà l'impero e potrà bombardare l'Afghanistan, strangolare per fame i palestinesi, rovesciare Chavez, riprendere il controllo dell'America latina. Da questo punto di vista, Bush è stato un ottimo presidente, ha fatto più lui per minare l'impero di qualunque anti-imperialista al mondo. Non dobbiamo augurarci dei Tito Flavio, ma dei Nerone. Viva Domiziano!»

    www.campoantimperialista.it

  2. #2
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    Nella sua rubrica, Cockburn sfotte l'«Obamania»: chiunque vuole criticare Obama, deve andare nei parchi e sussurrare, altrimenti viene preso a male parole nella propria famiglia.
    E' proprio vero. In Europa forse ancora più che in America. Ho sorpreso una disussione dove l'uno s'è presentato all'altro (entrambi bianchi) dicendo: "voterei McCain, anche se non è nero".
    Mi ricorda l'elezione francese dove, quando ancora non erano iniziate le critiche verso i candidati, già i mass-media dicevano che le critiche a Segolène Royal erano sessiste.

    In Italia a sinistra c'è chi sogna di sentire cose del genere "voto Berlusconi e... ma no, te lo giuro, non sono nazi-fascista".

  3. #3
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    ..dal sito www.peacelink.it:articolo a mio dire mooolto interessante!!!

    "ohn-mccain-contro-barak-obama-cosa-cambia-per-lamerica-latina"





    http://www.gennarocarotenuto.it/4296-john-mccain-contro-barak-obama-cosa-cambia-per-lamerica-latina






  4. #4
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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Questo mi era sfuggito
    !



    Fonte: Break Point suppl.Il Manifesto 04.11.08

    McCain sarebbe la notte di Macbeth La chance è di classe. Forza Obama, fatti coraggio!

    Martedì 4 novembre 2008

    Toni Negri


    Due guerre aperte, in Iraq e in Afghanistan, due guerre che son difficili da chiudere. Una crisi finanziaria che sta diventando crisi economica e crisi distruttiva dei rapporti sociali. Un debito interno già estremo che sta andando alle stelle. Una moneta (il favoloso dollaro di Hamilton) che sempre di meno diventa, nel nuovo disordine globale, moneta di riserva. Una dipendenza, sempre più accentuata, nel rapporto (fragile) con i paesi emergenti (le famose democrazie emergenti) e nel rapporto (forte) con le autocrazie del Golfo e dell’Asia centrale, più o meno islamiche (ma qui lo spettro della rivoluzione è ormai presente). Un consenso globale del comando (Washington consensus) sembre più frantumato (forse ormai vale solo in maniera dura a Vicenza, mortadella Prodi e il guitto Berlusconi consenzienti, ma non altrove: in America Latina per esempio siffatte maschere son state buttate fuor di scena, non è uno scherzo, la dottrina Monroe è stata sepolta). La dottrina americana di garanzia imperiale – potente sintesi del potere economico e del potere militare vacilla, non solo nelle grandi guerre, nelle terre dei Parti, ma anche in Somalia e in Colombia, e con tutta probabilità ovunque essa tenterà ancora di affermarsi (attenzione ai rovesciamenti di forza nel conflitto Palestina-Israele).
    Un’inquietudine che ormai si estende alla cultura – le scuole americane di business sono considerate imbroglione, le agenzie di notazione produttrici di falsità, le regole contabili inadeguate e/o perverse, la matematica americana è in dubbio, i Nobel americani infangati… Se non fosse per l’insano ed insanabile servilismo degli intellettuali anche l’importanza delle Lettere americane sarebbe sottoposta a riserva, Hollywood è stata comunque ricondotta fra i mortali (nota personale: che peccato!). E infine i due grandi alleati degli States, l’Europa ed il Giappone, cominciano (le loro classi dirigenti stesse) ad avere dubbi sulla leadership americana. I Jap: stretti ormai in maniera soffocante dentro l’asse US-Cina che, per la debolezza della finanza e della moneta americane, non si possono più permettere mediazioni continentali sul terreno produttivo. L’Europa: che sempre più si sente appendice della grande Asia. Può scambiare con la Russia sapere in cambio di energie materie prime. Quel che la rivoluzione d’ottobre non era riuscita a fare verso l’Europa, la mondializzazione fa verso la Russia. Finora i ricchi europei, investivano a Wall Street: perché continuare a farlo? Il dubbio si sta estenendo. Etc, etc…
    Potremo continuare per qualche chilometro ancora a sottolineare gli elementi che segnalano l’indebolimento dell’imperialismo USA. Sapevamo che esso non era terribile né indistruttibile dentro la trasformazione globale dei sistemi geopolitici del post-guerra fredda. Ma le amministrazioni americane, in particolare quelle conservatrici, hanno tentato il “coup d’ètat” sul mondo globalizzato, hanno provato a sottometterlo e a farsi imperatori. Fallimento, ripetizione del 18 brumaio – ironia e comica piuttosto che tragedia – crisi, una situazione infine insostenibile. Che cosa avverrà dentro questa crisi dell’unilateralismo americano?
    Tutti si aspettano la vittoria di Obama e, conseguentemente, una grande riforma, oggi, della politica americana. Una nuova capacità di incidere sul reale e di trasformare il concetto stesso di “interesse nazionale americano”. Anch’io aspetto questo momento, fiduciosamente. Ma non mi faccio illusioni. Per demistificare l’illusione possibile, immagino che non sia Obama che vincere ma MacCain. Che cosa farebbe costui se vincesse? Tenterebbe di risolvere con la forza delle armi alcuni dei problemi che la potenza finanziaria e quella culturale, ormai indebolite, non riescono a risolvere a favore degli States. Evidentemente le cose non sono così semplici, neppure nella rivincita e quindi ci troveremmo di fronte a complicati ma sempre più crudeli rapporti di forza: è la notte di Macbeth. Attenzione: a noi val la pena di semplificare per comprendere. Che fare per risolvere con la forza le guerre aperte? Impossibile. Che fare per chiudere con la forza la crisi finanziaria? Impossibile.
    A meno, in entrambi i casi, di ottenere un aiuto tanto sostanziale da Giapponesi ed Europei, da Russi e da Cinesi (ci vorrebbero comunque un paio di Presidenze per riuscirci) che alla fine realizzerebbe un trasferimento di poteri davvero sostanziale verso gli intermediari e a svantaggio degli USA. Riportare con la forza in pareggio il bilancio interno? Difficile, se non impossibile. In realtà un nuovo equilibrio politico prevede pace sociale, blocco della lotta di classe, di genere, di razza – chi scommetterebbe su questo in una situazione di crisi economica profonda? Anche in questo caso la forza dovrebbe essere allora esasperata per risolvere il problema. Con quali costi, con quali derive? Populismo all’interno, militarismo ed imperialismo sul terreno internazionale? Non continuiamo nella nostra esemplificazione. L’ipotesi di un reazionario al potere negli Stati Uniti mette i brividi.
    Ma Obama, in che cosa potrà essere diverso? Bisogno dirlo: se non sarà radicale, allungherà solo la lungha sofferenza dell’unilateralismo americano. Ma essere radicale, che cosa significa? Obama non l’ha mai detto. Il suo programma non lo racconta. Al massimo si parla di una riapertura delle dinamiche del welfarestate. Krugman parla di politiche neokeynesiane di sostegno alla domanda. Tutti parlano di un nuovo New Deal… Cristianamente ci chiediamo (e molto si chiedono a livello internazionale): sanno davvero di quel che parlano? Noi non siamo cristiani tuttavia, e soprattutto non vogliamo perdonare l’ignoranza. Abbiamo un solo esempio di New Deal, quello di F.D.Roosevelt: il suo insegnamento fu «New Deal = riapertura della lotta di classe». Dal 1933 al 1937 Roosevelt mise in atto un governo della lotta di classe e ne configurò costituzionalemente la pratica.
    Poi il compromesso non resse più e Roosevelt preferì la guerra alla compressione reazionaria della lotta di classe. E tuttavia fu una guerra conseguante ad una decisione democratia, in difesa dell’Unione sovietica contro i nazi-fascisti e cioè contro i nostri padroni di oggi e di ieri, una guerra in alleanza con una rivoluzione mondiale della quale abbiamo ancora (soprattutto nei momenti di nuovo descrivibili da una Zusammenbruckstheorie) nostalgia.
    Forza Obama, fatti coraggio! La lotta di classe è in fondo la sola chance che il destino ti riserva. Solo i poveri possono organizzarsi per sconfiggere i prepotenti. Persino quel pariolino di Sarkozy ti propone un nuovo New Deal mondiale. La moltitudine che lavora e che soffre sta acquattata sugli alberi ad aspettare che passino le milizie del signore di Nottingham.


    ARDITI NON GENDARMI

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    OMNIA SUNT COMMUNIA

    Cambia il colore della storia. Obama presidente

    Si chiude l’era Bush. Grande affluenza alle urne. Si apre un nuovo futuro per l’America e per il mondo

    L’America «ridiventa» democratica. L’America liberista e paladina della democrazia ad ogni costo, l’America della guerra preventiva e di Guantanamo, l’America dei ghetti neri e del muro ai confini col Messico, l’America dell’assistenza sanitaria privata, l'America della crisi economico-finanziaria, quell’America volta pagina. E lo fa cambiando faccia
    Dopo otto anni di era Bush, Barack Obama conquista la Casa Bianca con il pieno appoggio del popolo americano. Finalmente, il mito americano della libertà si è concretizzato nella partecipazione popolare di chi esercita il diritto di esprimersi, scegliere e decidere. Gli americani si sono messi in fila in massa per votare. Si è registrata un’affluenza alle urne straordinaria, oltre le attese. Tantissimi i giovani e gli afroamericani, che si sono finalmente sentiti protagonisti del futuro del proprio Paese. La lunga e costosissima campagna elettorale messa in piedi da Obama è arrivata in ogni angolo degli Stati Uniti, è entrata nelle case trasformando la percezione della politica non più dimensione calata dall’alto ed estranea ai loro interessi.

    Ma a schierarsi dalla parte di Obama è stata anche Wall Street, con lo spostamento progressivo e mirato di capitali soprattutto nella fase finale della sfida elettorale. Sfatando così la favola secondo cui sarebbero i repubblicani i maggiori amici del mercato. Per uscire dalla crisi economica che attanaglia il Paese Wall Street ha puntato, e in tempi non sospetti, sullo staff altamente qualificato di cui si circonda il neopresidente. Da Paul Volcher, ex presidente della Federal Reserve, a Robert Rubin, ex ministro del Tesoro di Clinton, fino al miliardario Warren Buffett, senza contare che il probabile futuro segretario al Tesoro potrebbe essere un beniamino dei mercati come Timothy Geithner, attuale presidente della Fed di New York.

    La svolta presidenziale potrà avvalersi anche dei risultati ottenuti al Congresso dai democratici. Riconfermano alla Camera il vantaggio conquistato nel novembre 2006 e consolidano la loro maggioranza al Senato conquistando 56 seggi, ad un passo da quella quota 60 che impedisce all’opposizione qualsiasi forma di ostruzionismo. Ai democratici sono andati 17 dei 35 seggi in palio contro i 12 repubblicani, a cui sono stati strappati gli Stati di New Hampshire, Virginia, West Virginia, New Mexico, North Carolina e Colorado.

    Ora tocca ad Obama cambiare l’America della guerra e delle disuguaglianze. Le premesse ci sono tutte, sono scritte nel suo programma. Spetta a lui metterlo in atto, anche se dovrà attendere fino a metà gennaio, sperando anche che Bush non spari gli ultimi colpi. In questo senso ci sentiamo di sostenere la richiesta fatta dal Nobel José Saramago al nuovo presidente degli Stati Uniti, quella di un «gesto» forte, di discontinuità e, insieme, di cambiamento che segni una svolta e sia degno della portata storica dell’avvenimento. E la chiusura di Guantamo e la fine del blocco a Cuba potrebbero essere il segnale giusto.

    (5.11.08)www.larinascita.org

    ARDITI NON GENDARMI

  6. #6
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    Anche Fidel...


    Fidel Castro ha riaffermato il suo tifo per Barack Obama nelle presidenziali Usa con un lungo elogio per il senatore dell'Illinois. In una "Reflexion" pubblicata dai media cubani, l'ex Lider Maximo ha osservato che "il candidato democratico e' senz'altro piu' intelligente, colto ed equanime del suo avversario repubblicano". Per l'ottantaduenne Castro, che non appare in pubblico dal luglio 2006 per problemi di salute, John McCain e' "vecchio, bellicoso, incolto, poco intelligente e malato". L'ex presidente cubano, convinto che "al popolo degli Stati Uniti interessa piu' l'economia che la guerra in Iraq", ha detto di apprezzare la capacita' di Obama di "articolare bene le sue idee" e di "colpire l'immaginazione degli elettori". "Non ha esitato a dire che, prima che repubblicani o democratici, i suoi concittadini sono americani", ha sottolineato. L'unico timore per Fidel Castro e' che Obama possa essere vittima di un attentato, "un rischio crescente in un Paese in cui chiunque si puo' comprare un'arma sofisticata come avveniva nel Far West nella prima meta' del XVIII secolo".
    Sinistra Nazionale!

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    ...a me tutto questo entusiasmo lascia (quantomeno) perplesso...

  9. #9
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    Hamas, per me, è sempre un passo avanti rispetto a tutti questi sinistri italiani...

    Barack Obama, il candidato democratico afroamericano ha stravinto la competizione elettorale contro il repubblicano e religioso fondamentalista, erede della politica guerrafondaia dei Bush, John McCain.C'era attesa nei territori palestinesi, anche se la popolazione non si aspetta un grande cambiamento nella politica estera Usa.
    Hamas, da parte sua, fa sapere che "non ci sono differenze tra i due candidati alla presidenza, per ciò che riguarda la Questione Palestinese", ma che "giudicherà il nuovo presidente dalle sue azioni e posizioni verso il conflitto israelo-palestinese e non dalla sua agenda elettorale".
    In un comunicato stampa, Fai Barhoum, portavoce di Hamas a Gaza, ha sottolineato che sia Obama sia McCain hanno garantito che appoggeranno finanziariamente, moralmente e militarmente l'occupazione israeliana. E ha aggiunto che le politiche delle precedenti amministrazioni Usa hanno causato solo "distruzione per il popolo palestinese", assedio compreso.
    Barhoum ha affermato che Hamas vuole che la nuova presidenza statunitense "rispetti le scelte democratiche dei popoli oppressi, compreso quello palestinese", non esporti e "false democrazie con la forza" e che "apprenda dagli errori commessi dall'amministrazione Bush".
    Egli ha poi chiesto a Obama di "sostenere i diritti dei palestinesi e uno stato indipendente con Gerusalemme come capitale, rilasciando tutti i detenuti politici, garantendo il ritorno dei profughi, abbattendo il Muro di Annessione e ponendo fine al colonialismo israeliano".
    In un'intervista a PIC, il dott. Sami Abu Zuhri, portavoce di Hamas, ha chiesto al nuovo presidente Usa di "riconsiderare la politica estera americana nei confronti della causa palestinese e di cambiare l'appoggio a Israele a detrimento dei diritti palestinesi".


    http://www.infopal.it/testidet.php?id=9739

  10. #10
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    La vittoria di Obama è una positivo segno di civiltà. Negli USA la "linea del colore" è stata negli anni la linea di divisione simbolicamente più significativa. Che in questo paese vinca un candidato di colore rappresenta un fatto storico, di vero progresso civile. Non so quanto gli Stati Uniti cambieranno la loro politica interna ed estera.
    Temo poco. Ma questo non cancella il fatto che oggi sia caduto un muro segnato da discriminazioni ed emarginazioni e di questo non possiamo che rallegrarci.


    Roma, 5 novembre 2008

    --
    Ufficio stampa Prc


    http://home.rifondazione.it/xisttest...view/3611/314/



 

 
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